mercoledì 6 febbraio 2008

La passione del presente di Giacomo Marramao

"Al Liceo Galluppi di Catanzaro li chiamavano i magnifici cinque. Non erano proprio coetanei ma era come se lo fossero: anche in una visione a posteriori suggeriscono l’idea di una comune educazione sentimental-culturale, di un gruppo solidale e coeso. Erano tutti giovanotti appassionati di romanzi e grandi capolavori, tutti un po’ sgobboni - tranne il gran parlatore e all’epoca già gran tombeur de femmes, Franco Piperno - e tutti un po’ altezzosi. Se lo potevano permettere: rappresentavano la punta di diamante di quelle aule dove crescevano gli eredi acculturati della buona borghesia meridionale, il futuro regista Gianni Amelio; il futuro leader di Potere Operaio, Piperno; il futuro editore di sinistra, Carmine Donzelli; il futuro storico, Piero Bevilacqua;

e il futuro filosofo, Giacomo Marramao. Forse, all’epoca, il più estroverso, socievole, curioso era proprio il pensatore Marramao che già allora si alimentava della Passione del presente (come recita il titolo del suo libro in uscita a febbraio da Bollati Boringhieri) e oggi dirige la Fondazione Basso, il festival di filosofia di Roma e siede sugli scranni del Collège International de Philosophie di Parigi. Grande affabulatore, - con l’orecchio per la musicalità delle lingue e per le imitazioni (bravissimo, se lo concede, a rifare la cadenza di Piero Fassino o di Walter Veltroni o del suo amico il professor Alberto Asor Rosa) - Marramao era un vero enfant prodige. Il futuro germanista, filosofo-eminenza grigia dell’ex segretario del Pci Achille Occhetto e di altri leader di sinistra, si cimentava con Shakespeare e il Faustus di Christopher Marlowe, senza timore dell’impervio lessico rinascimentale. Professore, sembra di capire che Topolino o Paperino non trovavano spazio nel suo primo diario di lettura. E’ così? 'Meglio Salgari e Verne. Fin da piccolo ero estremamente attento degli aspetti scientifici della realtà. Trascorrevo il mio tempo con il Manuale del piccolo chimico o del piccolo botanico. Oppure con La settimana enigmistica'. Poi si invaghì dei bei tenebrosi - Tamerlano, avido di beni, o il sensuale Edoardo - protagonisti dei drammi del folle Marlowe morto in circostanze oscure. 'Non solo: c’erano le tragedie greche, come Antigone, di cui ero capace di recitare interi brani a memoria (e li sciorina ancora oggi, ndr.). Oppure quella grande sceneggiatura hollywoodiana che sono le Metamorfosi di Ovidio, il De rerum natura di Lucrezio. Classici 'moderni' ne consumavo a non finire, da L’idiota di Dostoevskij al Faust di Goethe'. L’origine di tanta dedizione alla lettura? 'Tutto il nostro gruppo poté usufruire di docenti fantastici. Il prof di greco e latino ci insegnava il sanscrito. L’insegnante di filosofia conosceva il russo e il tedesco e ci propinava le opere in originale. Era una corsa all’acculturazione, una straordinaria palestra d’altri tempi. Un modo di dare corpo e spessore a nuove classi dirigenti'. Sempre con la testa sui libri? 'Non proprio. Mio padre muore quando io ho 13 anni. All’epoca sono un adolescente per nulla chiuso. Ma da quel momento cambia il mio carattere. Inizia un periodo di grande solitudine. Passo le estati sul terrazzo della mia casa di Catanzaro in compagnia di Gogol, Kant, Hegel, Marx, Mann, Kafka e pure di Croce. Non condividevo i principi filosofici della sua speculazione ma avevo l’impressione che l’Estetica mi offrisse un viaggio straordinario'.

Rappresentazione filosofica e politica sono andati per lei sempre a braccetto. Qualche lettura di cui si è pentito? 'Come avrei potuto? All’università a Firenze i miei maestri erano personaggi del calibro di Eugenio Garin, Ernesto Sestan, Cesare Luporini, Delio Cantimori, Giacomo Devoto, Gianfranco Contini. Per ascoltare le lezioni di quest’ultimo, che non insegnava nel mio corso, mi sedevo di soppiatto in un’aula colma di allievi adoranti. Il liceo aveva dato i suoi frutti e se mi dicevano di applicarmi a Feuerbach o a Kierkegaard io li avevo già digeriti. Alla fine del ’66 discuto la mia tesi di laurea da cui trarrò il mio primo libro Marxismo e revisionismo'.
Era critico nei confronti del marxismo italiano? 'Già cominciavo a sentirmi un eretico. Contestavo l’idea che alla base della tradizione marxista del nostro Paese vi fosse, come sostenevano i comunisti ligi al verbo del partito, la filosofia di Croce. Ero convinto che il debito fosse nei confronti della lettura di Marx fatta da Giovanni Gentile. Alla fine anche Garin, il docente che mi seguiva, dovette riconoscere che avevo ragione. Le mie ricerche mi procurarono alcune ostilità: non erano apprezzate negli ambienti più ortodossi. Questo mi ha avvicinato a pensatori come Massimo Cacciari. Successivamente decisi di andare in Germania a respirare un’altra aria'. Prima però divenne un leader studentesco all’ombra della cupola del Brunelleschi. Quali i volumi nella sua stanza? 'Non ero ancora iscritto al Pci e mi ero legato al gruppo di cinematografari alle prime armi tra cui Amelio. Collaboravo a una rivista che si chiamava il Manifesto, stesso nome della creatura di Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Valentino Parlato. Non sdegnavo il gruppo di Lotta continua ed ero affascinato dal movimento studentesco, non ancora cristallizzato in gruppetti,malibertario, inclusivo, le cui star erano, a buon diritto, Luigi Bobbio e Guido Viale che clamorosamente avevano occupato la sede universitaria di Palazzo Campana a Torino'. Mentre versava il suo obolo alla politica e ai 'movimenti', in quali pagine si immergeva? 'Galvano Della Volpe e Louis Althusser, la cui importanza speculativa è stata cancellata dalla sua follia che lo ha portato a sopprimere la moglie. Come tutti avevo sotto il braccio L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse. Ma non lo apprezzavo'. Come mai? 'Troppo banale la sua tesi della fine di ogni conflitto nelle società occidentali e la teorizzazione di esperienze alternative fra gli emarginati, tra i popoli del Terzo mondo. Mi convinceva di più Ragione e rivoluzione. Poi lo conobbi personalmente quando ero in Germania e mi conquistò con le sue radicali critiche al marxismo sovietico. Tutte queste letture mi portavano lontano dal partito di Berlinguer'. Decise di iscriversi? 'Sì, ma non mi trovavo in sintonia con la galleria di ritratti ufficiali, con i santini di partito. Non credevo alla continuità tra Gramsci, con la sua tragica morte, e Togliatti connotato da un ben diverso rapporto con il potere. E non vedevo alcun collegamento tra il Migliore e Berlinguer. Consideravo il Pci l’unica forza della cultura italiana capace di porsi come un surrogato della mancata riforma protestante. Era come indossare un abito severo, scegliere una cultura fatta di rigore. Ma le mie speranze di un ethos comune, di regole condivise, sono andate disattese: all’interno della sinistra ha preso piede non tanto la dottrina di Machiavelli quanto quella di Guicciardini e il gusto del 'particulare', del tornaconto personale. L’alternativa a questo è la politica alla Savonarola che agita le folle e le piazze'. I testi sacri per l’approdo a questo Pci idealizzato? 'L’analisi del potere sviluppata dalla sociologia di Max Weber e una rilettura di Gramsci. Che a dir la verità avevo attaccato in maniera furibonda sui Quaderni piacentini'. Altri amori culturali? 'Il cinema. Tutto Stanley Kubrick da
2001: Odissea nello spazio ad Arancia meccanica che faceva emergere le radici più profonde della violenza. E poi François Truffaut, da Jules e Jim a Effetto notte, un regista che non si poteva dire né di destra né di sinistra, che sfuggiva a ogni catalogazione; Alfred Hitchcock, Luís Buñuel, Ridley Scott con Blade Runner, Vittorio De Sica con Ladri
di biciclette
,Ingmar Bergman'. Ultimi film e ultime letture? 'L’impero greco-romano di Paul Veyne che ricostruisce le basi storico-strutturali dell’idea di impero. Il raccordo è immediato, rinvia all’impero americano. Mi sembra notevole l’idea di Francis Ford Coppola di confrontarsi dopo dieci anni di silenzio con Mircea Eliade in Gioventù senza gioventù. Filosofia e cinema sono un matrimonio fecondo'. Un altro frutto di questo connubio? 'Penso sempre che sarebbe magnifico un film su Sant’Agostino. Ho detto al mio amico Bernardo Bertolucci: perché non lo fai? C’è tutto: le radici di una cultura, l’impero romano in declino, il cristianesimo che ne erode le fondamenta. E poi il conflitto tra religioni e la riflessione su chi crede e su chi è distante dalla fede. Cosa c’è di più attuale?»." (da Mirella Serri, Io marxista eretico guardo a Sant'Agostino, "TuttoLibri", "La Stampa", 26/01/'08)

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