giovedì 1 maggio 2008

L'uomo che non credeva in Dio di Eugenio Scalfari


"L'uomo che non credeva in Dio (Einaudi) di Eugenio Scalfari è una singolare autobiografia. Scalfari racconta la propria infanzia, la propria giovinezza; alcuni episodi della sua vita di giornalista; i suoi rapporti con uomini politici italiani; la morte di una persona cara; e parla a lungo di Nietzsche. Ma si ha l'impressione che egli guardi da lontano una meta lontana; e che il tema che lo inquieta sia l'io di ogni essere umano e soprattutto il suo io. Il pensiero si svolge, oscilla, si contraddice, e rende mobile, caldo e vivace il suo libro. Cos'è l'io? si chiede Scalfari. Vorrei ricordare qualche persona che non possedeva un io. Alessandro Magno non volle essere se stesso - il figlio di Filippo e di Olimpiade, un uomo non alto, dai capelli biondi, che sapeva a memoria le tragedie di Euripide. Volle imitare qualcosa che era stato, e che molti credevano morto. Con tutta la forza della passione, pose davanti agli occhi della mente un gruppo di figure divine e eroiche - Dioniso, Ercole, Achille, Ciro di Persia - e cercò di resuscitarle e reincarnarle nella propria esistenza. Nessun uomo giunse mai a comprendere in se stesso tante persone diverse, distribuite attorno a un centro che continua a sfuggirci. Fu multiforme, molteplice: un nodo imprevedibile di contraddizioni; e conobbe l'ebbrezza di condurre una vita mitica. Nemmeno Shakespeare fu un io: ma un sistema solare, formato da molti pianeti che ruotavano attorno a un centro; e questo sistema solare si intrecciava a sua volta con le galassie che si perdevano nell'infinito. Il suo centro era dappertutto: nei diversi soli e negli innumerevoli pianeti che ricevevano luce dai soli. Come dice Scalfari, se era dappertutto, non era in nessun luogo. I grandi mistici cristiani ed islamici cancellarono l'io; e si perdevano nell'oceano dell'umanità, vivendo in Dio, per Dio e con Dio. Si consumavano negli splendori del volto divino e nella maestà della sua gloria. Tutte le apparizioni esteriori scomparivano davanti ai loro sguardi: il mondo smarriva le proprie forme, e il significato del bene e del male. Non sapevano se esistevano o non esistevano: se erano manifesti o nascosti; perituri o immortali. Col cuore pieno e vuoto d'amore, ignoravano di chi erano innamorati. Ignoravano perfino il proprio amore. Alla fine, dimenticavano la loro conoscenza di Dio, o la coscienza di conoscerlo. Come loro, un grande poeta moderno, Pessoa, evase dal carcere del proprio io: con un folle desiderio di fuga, lasciò tutti i luoghi, le prigioni, le limitazioni, i principi e le fini, le prigioni, le soluzioni, le barriere, i paesi ed i mondi. Se vedeva altri uomini, provava lo stesso orrore. Così, per evitarli, li fece rinascere in sé: i suoi sentimenti diventarono i sentimenti di molti individui: il suo animo, il suo cuore e il suo sguardo appartennero a persone diverse fra loro; indossava sempre nuove maschere, ognuna delle quali era più ambigua della precedente. Scriveva: "Dio non ha unità, come potrei averla io?". Negli anni della giovinezza e della maturità, Eugenio Scalfari visse secondo la tradizione dell'io borghese. Pensava che esso fosse robustamente fondato sulla ragione e sulla volontà, e dominato da loro. Sapeva dai libri di avere un inconscio, ma immaginava di conoscerlo e di tenerlo sotto controllo. Il suo io coincideva con i pensieri coscienti e l'attività quotidiana, con la quale si identificava completamente. Così passo dopo passo, esperienza dopo esperienza, sensazione dopo sensazione, evento dopo evento, saliva la scala della sua persona, che egli stesso aveva costruito. Al culmine della maturità, Scalfari cominciò ad avere dubbi sulla costruzione che aveva fondato. Gli sembrava che fosse una crosta esilissima, nella quale non poteva avere fiducia. L'inconscio, che credeva di dominare, veniva improvvisamente alla luce, lo folgorava, portandolo in luoghi dove non avrebbe mai immaginato di giungere. In parte con angoscia in parte con gioia, gli parve che il suo io scomparisse e si dissolvesse. Si sentiva lacerato e diviso. Poi, poco a poco, cominciò ad amare questa condizione inquietante. Si accorse di non avere un solo occhio. Qualsiasi cosa facesse, possedeva sempre un altro occhio, con il quale guardava dal di fuori e contemplava gli altri con una rinnovata attenzione. Vedeva attorno a sé mille casi: non li guardava più con ansia; ma con infinita simpatia verso la selva pittoresca della vita. Forse lui stesso - il suo antico io - era diventato una collana colorata di casi. Lesse e rilesse Montaigne, Diderot e Nietzsche. Soprattutto Montaigne lo attrasse. Avrebbe dato chissà cosa per abitare la sua biblioteca, lassù in alto, nella torre, guardando le cinquantasette sentenze che Montaigne aveva fatto incidere sulle travi del soffitto. 'Tutte queste cose, con il cielo e la terra e il mare, non sono nulla a paragone della somma totale di tutte le cose', aveva detto Lucrezio. 'Non comprendo' aveva detto Sesto Empirico. La biblioteca aveva tre grandi finestre dalle quali entravano il soffio dei venti, i raggi del sole, i riflessi delle nuvole, gli odori degli alberi e, due volte al giorno, il suono dell'Ave Maria. Se si affacciava alla finestra vedeva il castello, la corte, il pollaio, e più lontano le colline del Périgord, dove lo sguardo si perdeva. Così Scalfari comprese che la sua crisi lo aveva portato indietro, nel cuore della tradizione psicologica dell'Occidente, e insieme avanti, in un futuro di cui non intravedeva i lineamenti. La vita era quella che aveva immaginato Montaigne: una metamorfosi incessante, piena di incidenti effimeri, tracce di un destino sconosciuto, libri, contraddizioni, imprevisti, misteri. Come le api, Montaigne assimilava tutti i fiori, i colori e le ombre nel miele del suo spirito. Amava la natura che gioca. Amava la fantasia, il capriccio, la sorpresa. Amava il vento e l'oscillazione. Amava tutto ciò che è mescolato, confuso, rappezzato, screziato. Amava le fugaci, dorate apparenze, che ci portano lontano da ogni certezza. Così, immerso nella metamorfosi di Montaigne, Scalfari comprese il suo nuovo rapporto con se stesso e con gli altri: cercava di capire gli altri, e di farli diventare se stessi, estraendo da loro la piccola musica che ciascuno possedeva. Diventò più mobile, volubile e affettuoso, come nelle pagine del suo libro, dove tutte le sue tendenze vivono l'una accanto all'altra, in una specie di guerra pacifica. [...]" (da Pietro Citati, Il romanzo dell'uomo che non credeva in Dio, "La Repubblica", 01/05/'08)

2 commenti:

Anonimo ha detto...

La tua recensione è molto interessante, però si legge un po' a fatica.Ti suggerisco uno stile più conciso e snello.
Comunque,ti faccio i miei complimenti. A breve voglio leggere anch'io il libro di Scalfari, che, dopo l'esordio letto su "Repubblica", mi intriga parecchio. Ciao, da una blogger casuale

Silvana ha detto...

Ti ringrazio per il suggerimento, ma purtroppo la recensione non è mia. E' di Pietro Citati.
Silvana