mercoledì 18 gennaio 2012

I mille volti di Pessoa per cogliere la realta'


"Un uomo sale su un tram e osserva i viaggiatori che gli siedono di fronte. In realtà li guarda senza distinguerli, perché gli interessano soltanto i «dettagli». Dunque si concentra in particolare su una ragazza, separando mentalmente il vestito che indossa «dalla stoffa di cui è fatto e dalla lavorazione che è stata necessaria a cucirlo». Lo colpisce «il ricamo leggero che orla il colletto», una linea verde scuro sul verde chiaro dell'abito, e subito «vede» la filanda dove la fibra di seta è stata ottenuta, le sezioni della fabbrica, le macchine, gli operai, le sarte, gli uffici, i contabili, i dirigenti. In un velocissimo flusso di percezioni, entra nelle case di quelle persone, in regioni lontane, e intuisce il significato delle esistenze di ognuno, gli amori, i segreti, il loro spirito. È un attimo. La testa gli gira. Scende dal tram esausto e sonnambulo. Ha «vissuto tutta la vita».

Questo squarcio rivelatore del Libro dell'inquietudine lascia capire i meccanismi con cui si accendeva e prendeva energia la sensibilità quasi sciamanica di Fernando Pessoa (Lisbona, 1888-1935) e ci permette di intuire come funzionava l'inafferrabile enigma della spersonalizzazione e della compresenza. «Sentire tutto in tutte le maniere, / vivere tutto da tutti i lati, / essere la stessa cosa in tutti i modi possibili allo stesso tempo / realizzare in sé tutta l'umanità di tutti i momenti / in un solo momento diffuso, profuso, completo e distante». Ecco: è con tale processo di lampeggiamenti simultanei che certi «inquilini sconosciuti» rischiaravano le ombre della sua mente in un continuo dialogo con lui, che come un medium li aveva chiamati - in modo di essere «non tanto uno scrittore quanto un'intera letteratura» - da un altrove che stava già dentro di sé. Erano gli eteronimi. Cioè, letteralmente, «altri nomi», nuclei vitali di individui autonomi e diversi da lui, pur essendo proiezioni del suo pensiero. Dei figli-fratelli generati dal Pessoa ortonimo, cioè il Pessoa lui-stesso, a sua volta allievo di un eteronimo. Una folla di alter ego del poeta (tra eteronimi e semieteronimi ne sono stati censiti una cinquantina, ma per alcuni sarebbero addirittura più di settanta), affiorati da un continuo gioco di autofecondazioni, reincarnazioni, dissociazioni. Ciascuno con propria dimensione, pronta a interferire con quella degli altri. Concepiti con fisionomie fisiche, schede anagrafiche, professioni, biglietti da visita, stili, idee politiche e morali, manie e persino segni zodiacali differenti.

C'è un giorno preciso in cui questa identità vertiginosa comincia a manifestarsi, l'8 marzo 1914, quando Pessoa colto da una specie di «estasi» compone di getto trenta poesie, firmandole come Alberto Caeiro. E immediatamente dopo gliene escono altre sei, di altra musicalità e ritmo, a sua firma. È l'inizio di un vortice di continui sdoppiamenti, scissioni, sottrazioni, amputazioni che trova più di una analogia nella storia della letteratura. Infatti, se il portoghese definiva la propria ansia di totalità e la propria anima multilaterale spiegando di sentirsi «multiplo» come «una misteriosa orchestra», l'americano Walt Whitman delle Foglie d'erba non molti anni prima aveva scritto di sé: «I am large, I contain multitudes».

Ma quelli di Whitman (di cui non a caso è discepolo l'eteronimo Álvaro de Campos) come di Hölderlin e di qualche altro sono solo pallidi precedenti, rispetto alla potenza del «drama em gente», dramma fatto persona, che è la cifra dell'opera plurale e con un quid anche esoterico di Pessoa. «Mio Dio, mio Dio, a chi assisto? Quanti sono io? Chi è io? Cos'è questo intervallo che c'è fra me e me?» E confessa ancora: «Per creare, mi sono distrutto; mi sono così esteriorizzato dentro di me che dentro di me non esisto se non esteriormente. Sono la scena viva sulla quale passano svariati attori che recitano svariati drammi».

Insomma: il conflitto tra sincerità e simulazione, con una progressiva disgregazione dell'io, in lui si risolve con un visionario scavo nella sfera tra coscienza e incoscienza e nell'idea - modernissima - di «letteratura come menzogna». E qui scatta l'amletismo geniale di chi non si basta, ma vissuto in una maniera così mostruosamente tormentata che qualcuno ha preteso di derubricarla al rango di sconfinamenti patologici, esiti da isteria cronica. «Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente».

Un percorso al termine del quale, comunque la si pensi sull'origine della sua poetica, restano esiti lirici commoventi. Come scoprì chi per primo affondò le mani dentro il baule da biancheria nel quale, otto anni dopo la sua morte, furono pescati più di 27 mila testi sconosciuti: poesie, frammenti di diario, sequenze di racconti, progetti di libri appuntati dalle sue tante repliche, eteronimi maggiori o minori, o che aveva attribuito direttamente a se stesso. Una miniera di pagine dalle suggestioni inaspettate, dato che in vita Pessoa si era protetto con una monotona e scialba routine da impiegato. Scrivendo però molto, quando la sera si chiudeva nella sua camera ammobiliata o nelle taverne in cui si stordiva di alcol e fumo, e sempre fuori da ogni disciplina accademica: «Ubbidisca alla grammatica chi non sa pensare ciò che sente». E, pur frequentando la società letteraria portoghese, pubblicando poco (ma non così poco come si è spesso detto) su effimere riviste a bassissima tiratura di quella Lisbona allora assai marginale rispetto a Parigi o Londra, dove fermentavano le grandi avanguardie artistiche.

Dal giorno di quel ritrovamento Pessoa continua a parlarci, «con la civetteria di uno che si è voluto quasi tutto postumo», come ha detto Andrea Zanzotto. La sua voce resta tra le più acute e profetiche nella percezione del dolore, dell'assurdo, della solitudine, pur in un'apparente indifferenza. Come gli succede in certi «giorni di luce perfetta ed esatta, / nei quali le cose hanno tutta la realtà che possono avere» e nei quali però la stessa bellezza «non significa nulla». Come nei versi della «Tabaccheria», quando dalla finestra di casa scruta il padrone del negozio di fronte, che va e viene sulla porta, e riflette: «Lui morirà ed io morirò. / Lui lascerà l'insegna, io lascerò dei versi. / A un certo momento morirà anche l'insegna, e anche i versi. / Dopo un po' morirà la strada dov'era stata l'insegna, / e la lingua in cui erano stati scritti i versi. / Morirà poi il pianeta ruotante in cui è avvenuto tutto questo»." (da Marzio Breda, I mille volti di Pessoa per cogliere la realta', "Corriere della Sera", 17/01/'12)

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