domenica 24 luglio 2011

Non sparate sui romanzi


"Arrivato alla mia tarda età ho collezionato una serie sesquipedale di ricordi che riguardano la fine del romanzo. Trascurando gli anni in cui non sapevo ancora leggere, sono circa 74 anni che a ogni volgere di ferragosto vedo un articolo, un' intervista, una inchiesta, una discussione che coinvolge molte degne persone, sulla crisi, scomparsa, tracollo, apocalisse del romanzo (negli anni sessanta circolava la battuta "anche Pasolini pensa che il romanzo sia morto ma non lo dice per non fare dispiacere alla sua mamma"). Quindi la fine del romanzo è un poco come il mostro del Loch Ness o il tormentone "sarà l' estate più calda degli ultimi cento anni". Coloro che annunciano la fine del romanzo appartengono a quattro categorie: (I) quelli che devono sfornare una inchiesta entro il giorno dopo e vanno a cercare un'idea nelle vecchie annate del loro giornale, sapendo che non c'è nulla di più inedito del pubblicato; (II) quelli che di romanzi non sono riusciti mai a scriverne e sono stanchi di parlare solo dei romanzi degli altri; (III) quelli che romanzi ne hanno scritti, e di bellissimi (vedi il caso di Roth) e lasciano intendere che alla frase "non si scrivono più romanzi come una volta" debba seguire "... tranne i miei"; (IV) quelli che di romanzi non riescono più a scriverne, per ragioni di età o di depressione.
Per intanto bisogna capire se si sta parlando male del romanzo o della narratività in genere (Cappuccetto rosso è una narrazione e non è un romanzo). È verissimo che il romanzo nella forma in cui lo conosciamo nasce in quanto novel nel XVIII secolo, e come è nato potrebbe scomparire, ma erano testi narrativi, e svolgevano la funzione che svolgono per noi i romanzi, i poemi di Ariosto o di Tasso, i racconti cavallereschi medievali (detti appunto romance in opposizione alla novel borghese), e se oltre al romanzo pensiamo alla novella (che non è la novel, ma una short story), da Boccaccio in avanti ce n'era per tutti i gusti e vedete quanto ci ha fantasmato Shakespeare. E prima esistevano il romanzo romano e greco (pensate solo a Luciano e ad Apuleio) e prima di Apuleio scriveva bellissime storie Ovidio (spero ricorderete con tenerezza Filemone e Bauci) e prima ancora erano bellissimi romanzi i poemi come l'Odissea, e prima prima ancora, la sera sotto l'albero del villaggio, gli anziani analfabeti raccontavano i miti, e tutti a commuoversi sulla sorte di Edipo, a odiare Medea, a fremere su Proserpina, a orripilare su Saturno, come tante madame Bovary dell'epoca.
Insomma, stiamo celebrando la fine del romanzo nella forma inventata da Richardson e Defoe? E può anche darsi, ma allora il romanzo è finito dai tempi di Joyce e persino Roth è come un patetico reazionario che si ostini oggi a scrivere un poema cavalleresco in ottave. O stiamo parlando della pulsione narrativa (bisogno di narrare e di ascoltare narrazioni) e allora la "funzione fabulatrice" è fondamentale nell'essere umano almeno quanto l'istinto sessuale, salvo che può assumere le forme più varie, persino quella del film o della telenovela. È possibile che il bisogno di narratività venga soddisfatto da infiniti nuovi mezzi elettronici ma mi chiedo da dove vengano allora quei milioni di persone che ancora acquistano romanzi. Certo, si può rispondere che tutti sono pessimi romanzi e che la gente li legge per gli stessi motivi per cui guarda L'Isola dei famosi, ma non ci credo. Personalmente trovo noiosi e illeggibili molti romanzi molto lodati dalla critica e, come Roth, mi diverto di più con una bella biografia, che so, di Garibaldi o di Gilles de Rais, oppure mi rileggo romanzi di cento o cinquanta anni fa. Ma poi accade che ne leggo con gusto anche dei nuovi. Insomma, la vita è così complicata, e rifiuta talmente le divisioni tra bianco e nero, che mi viene in mente quel detto non ricordo più di chi: "Per ogni problema complesso esiste sempre una soluzione semplice. Ed è sbagliata." (da Umberto Eco, Non sparate sui romanzi, "La Repubblica", 23/07/'11)

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