lunedì 1 settembre 2008

Magia delle parole: segni morti da cui soffia il vento della vita


"Le parole non hanno carne, non hanno colore, non hanno vita. Le parole giacciono nei libri, inumate tra le pagine. Le parole sono fatte di segni minuscoli, letetre cifrate, tracce stinte. Ma come accade allora che queste zampette di gallina allineate in righe geometriche siano capaci di strapparci la maschera dei giorni tutti uguali e farci vivere una vita più vasta? Quando la vita è sprofondata nella noia e nella ripetizione degli amori e dei giorni insopportabilmente monotoni, solo le parole ricordano la vita vera. Si apre un libro, si legge una frase, e qualcosa di misterioso accade: i segni che sembravano morti cominciano a parlare con più fascino dei sedicenti vivi, e il mondo evocato da quelle lettere che parevano spente brilla coem l'unico mondo davveroreale. Allora sprofondato nella lettura di Il rosso e il nero, chi non cambierebbe ora e subito la sua vita miserabile con l'incendio erotico che brucia Madame de Renal e Julien Sorel? Nella scrittura è nascosta una terribile e straordinaria apocalisse, una rivelazione che capovolge le apparenze del mondo: da segni morti, intagli sul legno o cunei sulla pietra, sorge una vita che soffia travolgente, e in quel vento ogni lettore è come un credente che chiede la resurrezione alla vita vera. Nello Zohar, il libro della Qabbalah ebraica, è scritto che tutte le parole sono i nomi di Dio: le parole non convenzionali, le parole non degradate, hanno il potere di tramutare corpi e anime. La letteratura non è la vita apparente, mutilata, prigioniera, ma quella vita che tutti hanno intravisto un giorno o un attimo, quella vita che canta festosa e fa vedere il mondo trasformato. ma come è bizzarro che a far cantare il cuore del lettore sia lo scrittore: muto nella sua stanza che è sempre una cella, muto in mezzo alla folla adorata e odiata, muto nel suo mondo di segni che aspettano di risorgere. In una delle sue notti di solitudine e di mutismo, Kafka scrisse lapidario: "La lingua è un'amante perpetua". Parlava della lingua che è linguaggio, sì, ma anche della lingua che sta nella bocca, la lingua calda e viva, la bocca che respira e urla, la lingua che parla e bacia, canto e saliva, voce e morso, sapore e parola, e tutto in un solo inestricabile legame, da amante a amata, senza fine. La scrittura al suo vertice fissa nei graffi e graffiti delle frasi il caldo di quella lingua, lo concentra e lo conserva per colui che verrà, il lettore. Novalis diceva che "ogni lettore è un filologo", e le sue parole sono da intendere alla lettera: ogni lettore è un innamorato delle parole, solo il lettore amante può risvegliare le belle addormentate dalla morte apparente, solo quel lettore può trasformare la sua vita leggendo. Ma per vivere di più e più intensamente, il lettore deve separarsi dal mondo come appare nella ripetizione quotidiana, deve sprofondare in pieno giorno in una notte lucida, e entrare corpo e anima nel regno senza tempo della letteratura. Solo in quel buio, che sia la luce accecante dei lunghi pomeriggi estivi o la tenebra luminosa delle notti invernali in cui si è soli con un libro e le sue parole, solo in quella notte comincia quel processo che trasforma l'inchiostro in respiro. Gli antichi alchimisti, quelli che cercavano l'oro della vita eterna, lo sapevano bene: sapevano che solo attraversando il buio della nigredo, l'ora in cui ci sembra di essere affogati nel nero e nella solitudine, solo passando per la distruzione della putrefactio, l'ora in cui tutto sembra disgregarsi e morire, solo allora si può risorgere nella luce dello splendor solis: e per gli alchimisti lo splendore aureo della vita era ottenuto attraverso qualcosa che sembrava agli ignari una morta e spenta pietra, ma che per gli alchimisti era la pietra filosofale, la cosa miracolosa che appare morta ma ridà la vita a chi è morto nel cuore. A noi contemporanei è rimasta la pietra filosofale della letteratura: una finzione? E chi può dirlo! Forse l'uomo che ci annoia col suo meschino egoismo è più reale di quel Wronskij per il quale Anna Karenina darebbe la vita perché senza di lui la vita non è niente? Forse la donna i cui abbracci sono riti vuoti è più reale della passante che continua a guardarci dai versi di Baudelaire con occhi in cui "sboccia la tempesta", e a cui continuiamo a ripetere, come una preghiera o uno scongiuro: "Fuggitiva bellezza il cui sguardo mi ha fatto improvvisamente rinascere, non ti vedrò più che nell'eternità? Altrove, molto lontano da qui! O tu che avrei amata, o tu che lo sapevi?". In quell'altrove dove gli sguardi delle donne fanno rinascere e le bocche degli uomini tremano d'amore, è là che porta la letteratura. Basterà solo soffiare sulle parole imbalsamate, alitare con la bocca sulle loro bocche, la vita che giace là chiede solo di cominciare." (da Giuseppe Montesano, Magia delle parole: segni morti da cui soffia il vento della vita, "La Repubblica", 31/08/'08)

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