mercoledì 17 settembre 2008

Il tramonto dell'Occidente di Oswald Spengler


"Per quanta antipatia pregiudiziale si provi nei confronti delle tesi di Oswald Spengler, e soprattutto di tanti suoi cultori cripto o esplicitamente nazisti o fascisti (Mussolini fu uno di loro), confessiamo che la lettura del Tramonto dell'Occidente di cui l'editore Longanesi presenta oggi una nuova edizione (accompagnata da una densa introduzione di Stefano Zecchi e da un vasto apparato critico) esercita sempre un fascino a cui è difficile sottrarsi. L'opera, come si sa, uscì, in due volumi successivi, tra il 1918 e il 1922 (gli stessi anni in cui, per una coincidenza che può apparire emblematica, uscivano le due edizioni dello Spirito dell'utopia di Ernst Bloch, il filosofo del 'principio speranza'), e in molti sensi rappresenta, oltre che un repertorio di concetti ancora discussi oggi, una summa della coscienza europea dopo la prima guerra mondiale. La quale era stata davvero vissuta come la fine della nostra civiltà moderna - senza sospettare ancora le ulteriori tragedie a cui l'Europa sarebbe andata incontro. Spengler tuttavia rifiutò sempre di considerarsi un filosofo del pessimismo. La figura a cui ispirava il proprio pensiero fu sempre quella di Goethe, del quale ereditava una sorta di umanismo naturalistico certo non ottimistico, ma pieno di un senso, sia pure tragico, della vita che si rinnova anche e soprattutto attraverso il succedersi di mondi e generazioni. Goethe era stato un nemico implacabile del meccanicismo dominante le scienze naturali, quello che ritiene di spiegare il mondo attraverso la ricerca di cause ed effetti. A questa visione, egli sostituiva una concezione del divenire della natura come processo organico: per capirlo e 'spiegarlo' bisogna cogliere la forma interna che regola la costituzione di ogni organismo, e che è una sorta di 'causa finale', irriducibile alle cause meccaniche, ma ha piuttosto, per Spengler, il senso di un destino. Causa e effetto sono categorie che valgono solo per l'oggetto 'morto', ma la vita è crescita organica. Come gli organismi, anche le civiltà, i mondi storici, hanno un loro destino biologico, articolato fra nascita, infanzia, adolescenza, età adulta, vecchiaia e morte. Attraverso sintesi molto
ampie e spesso audaci - Spengler era professore di liceo; un accademico, almeno a parte il vecchio Hegel, non si sarebbe mai avventurato su un terreno tanto pericoloso - egli calcola che le grandi civiltà esistite fino ad oggi (ne enumera otto) hanno avuto in genere una vita di mille anni: così la civiltà occidentale moderna nasce nell'800 con l'impero di Carlo Magno ed è giunta perciò alla sua fine. A ogni età corrisponde una attività specifica: alla maturità e vecchiaia tocca l'espansione spaziale (colonie; niente più invenzione e creatività tipica della gioventù) ed economica, dove comanda il denaro e trionfano le masse (inutile dire che Spengler odiava democrazia e socialismo ...). Come si vede, sono le idee della cosiddetta 'rivoluzione conservatrice' che sono sempre piaciute alla destra di ogni confessione. Ma in che misura e perché anche alla destra fascista e nazista? Non soltanto perché Spengler giustificava l'imperialismo; ma soprattutto perché nella sua visione naturalistica contava molto la demografia, quello che per il fascismo era lo slogan 'il numero è potenza'. I popoli giovani e creativi sono anche quelli che si riproducono più intensamente. Che 'fascino' può esercitare ancora su di noi questa filosofia della storia che è, in fondo, una riduzione della storia alla natura? Intanto, a ogni riedizione del libro (ce ne sono state parecchie in Italia, negli anni a partire dal 1957), siamo più lontani dall'epoca in cui fascismo e nazismo erano ancora pericoli attuali (anche il fascismo che si dice rinasca oggi è diverso a quello originario). Poi, sentiamo sempre più urgente il bisogno di una filosofia della storia soprattutto oggi che con la globalizzazione (qualunque cosa essa significhi) e con gli sviluppi delle biotecnologie abbiamo spesso l'impressione di non sapere più bene 'in che mondo viviamo'. Grandi filosofi come Karl Jaspers, il maestro di Hannah Arendt, hanno sentito dopo Spengler la medesima esigenza; e naturalmente hanno camminato su questa strada i tanti hegelo-marxisti che (purtroppo?) oggi sono quasi scomparsi dal panorama intellettuale. Dovrebbe dar da pensare il fatto che una concezione 'laica' della storia, che prescinda totalmente dall'idea di salvezza (sia biblica sia di altro tipo, fino al marxismo) sbocca quasi fatalmente nel naturalismo spengleriano. Non necessariamente nell'apologia del fascismo, ma certo lasciando aperto il problema dell'etica e del senso dell'esistere, che non può mai risolversi solo nel culto della 'vita'." (da Gianni Vattimo, La prima volta che morì l'Occidente, "TuttoLibri", "La Stampa", 13/09/'08)

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