martedì 16 settembre 2008

Fuori fuoco. L'arte della guerra e il suo racconto


"Come a Pechino nelle Olimpiadi del 2008 per le gare di atletica leggera, quelle televisivamente più appetibili: infilate in orari improbabili per consentirne la trasmissione in diretta nel prime time dei grandi network statunitensi. Così è per le guerre del post-Novecento. Somalia 1992. Operazione Restore Hope. Bel titolo, conciso ed efficace, per un film o per una trasmissione televisiva. Le truppe
americane sbarcano sulle spiagge di Mogadiscio in perfetto assetto di guerra. Ma ad attenderli non ci sono uomini armati, trincee e reticolati, ma solo fotografi e cineoperatori. Tre anni prima, guerra del Golfo, gennaio 1991: Desert storm, altro titolo suggestivo ma soprattutto l’inizio di una nuova fase dei rapporti tra la guerra e i mass media, con le telecamere fisse della Cnn a inquadrare i traccianti nei cieli di Baghdad. E' una vecchia storia: tutte le guerre contemporanee, dalla Crimea del 1853-56 all’Iraq del 2003 (altro bel titolo Iraqui freedom), sono state raccontate da scrittori, giornalisti, fotografi, pittori, registi; tutte sono entrate nella nostra cultura e nel nostro immaginario non per quello che è veramente successo sul campo di battaglia (solo morire e far morire, uccidere e farsi uccidere) ma per quello che è stato rappresentato, sovrapponendo la messa in scena alla realtà. E’ una vecchia storia: sempre in quelle rappresentazioni sono confluite menzogne propagandistiche, falsificazioni, interventi censori degli apparati militari, sempre la guerra è stata un black out conoscitivo, uno scandalo percettivo. Ma adesso è diverso. La televisione non si limita a raccontare le guerre di oggi ma interviene direttamente nella costruzione dell’evento bellico, restituendoci l’esperienza della 'guerra in diretta', sempre meno vincolata alle regole del giornalismo e sempre più assoggettata alle leggi dello spettacolo. La guerra viene oggi pensata, pianificata e combattuta sulla base di come verrà rappresentata già a partire dal suo titolo: questa tesi, efficacemente sostenuta da Maddalena Oliva (in Fuori fuoco. L’arte della guerra e il suo racconto, Odoya), si fonda proprio sullo studio di tutti i conflitti che si sono susseguiti dalla prima Guerra del Golfo del 1991 in poi. Il nuovo ruolo della televisione è scandito da queste fasi: a) la costruzione dell’attesa prima dell’evento che orienta il pubblico definendo i buoni e i cattivi; b) la durata non eccessiva delle operazioni e la loro conclusione rapida così come richiesto da uno spettatore che fa presto a stancarsi e che deve aver la possibilità in qualsiasi momento di interrompere e spegnere la visione senza problemi; c) la spettacolarità dei bombardamenti che trasforma la guerra in una sorta di videogame o action movie; d) la già citata coincidenza tra l’inizio delle operazioni e il prime time dei palinsesti; e) la consapevolezza che la guerra rende in termini di ascolti (nel 2003 la Cnn investì in Iraq 35 milioni di dollari). Le conseguenze sono ovvie: la virtualità non appartiene solo al momento del racconto, ma diventa elemento
costituivo dello 'spettacolo' bellico. A uscirne distrutta è la possibilità di conoscere la guerra; a uscirne rafforzato è il fascino estetizzante della guerra." (da Giovanni De Luna, La guerra messa in scena, "TuttoLibri", "La Stampa", 13/09/'08)

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