sabato 6 settembre 2008

Casablanca di Marc Augé


"Possiamo pensare al cinema come a una forma abbreviata per entrare nella grande storia. La brevità sintattica, il montaggio veloce creano talvolta le premesse del mito. Crediamo di avventurarci in un episodio della Seconda guerra mondiale, magari in una zona esotica del Marocco e ci troviamo immersi in un racconto che gronda mitologia. In fondo, il mito è davvero come il cinema. Entrambi narrano qualcosa che attende solo di essere rivissuto. Ho trovato una certa malinconia nel modo in cui Marc Augé rievoca Casablanca. Il film di Michael Curtiz - che uscì nel 1942, interpreti memorabili Humphrey Bogart e Ingrid Bergman - non ha smesso di appassionare chi ne ha incrociato la trama, i gesti, le scene, i caratteristi, le battute. Umberto Eco si è chiesto perché mai quel film esteticamente modesto (diciamo pure un polpettone romantico) fosse entrato nella storia del cinema. La sua risposta era che Casablanca è un 'intrico di archetipi eterni', come l'amore, il gioco mortale, il dono, etc. Non credo che Marc Augé dissentirebbe da questa lettura. Ma l'antropologo fa un'operazione ulteriore. Trasforma Casablanca in un motore che serve a raccontare la vita di Augé e attraverso la vita tornare a quello che egli reputa il mezzo più adeguato nel narrarla, cioè il cinema. Assistiamo così a una curiosa, tenera, perfino innocente lettura parallela tra un pezzo di storia di Francia e il film di Curtiz. Ed ecco, come reperto proustiano, affiorare alla memoria un vecchio zio, ufficiale di marina che sotto Petain prima spara contro gli americani sbarcati in Marocco e poi diventa un eroe della Resistenza. Ma chi è un eroe? Si chiede Augé. La storia lo crea con il sussidio della memoria e della retorica, il cinema lo immerge in un tempo diverso da quello ordinario. 'L'eroe del cinema, salvo particolari necessità della sceneggiatura, non aspetta la metropolitana, non fa la coda al supermercato, non sta a perdere tempo invece di lavorare'. L'eroe cinematografico non ha i tratti della pesantezza, egli vive tormentato e leggero come Rick. Gli anni di Casablanca sono quelli in cui un giovanissimo Augé peregrina, insieme alla madre, su e giù per la Francia. Sono gli anni della guerra, dei primi sfollati, del cambio di prospettiva: niente è più come una volta. Prima della guerra c'era un altro mondo, dove i ricordi si appannano: una Peugeot chiusa in un garage, le passeggiate lungo la Marna, una vacanza a Chatelaillon. Ma sono solo le immagini scheggiate di un bambino. Anche il cinema, in fondo, ci restituisce una visione da bambino. Tutto ciò che è filtrato dal mezzo cinematografico è giovane. Anche il passato non sembra mai passare. Ogni volta la stessa immagine. Ma è come se fosse una prima volta. E' questa la singolarità del cinema. La sua solitudine, dice Augé. 'Il cinema è un'arte della solitudine, non perché alcune delle sue opere più importanti hanno come protagonisti degli individui solitari, ma perché tutte le risorse tecniche concorrono a rappresentare la solitudine'. Si combinano, osserva Augé, tre sguardi: quello della cinepresa che obbedisce al regista; quello del personaggio principale, quello dello spettatore. Sono sguardi che non si sommano, che non si incontrano, ma si elidono o al più si sovrappongono. Essi danno vita a qualcosa che chiamiamo storia. Ce ne impadroniamo, nel momento in cui si irrompe nella sua trama. Ma quella trama è come se da sempre sia la nostra. Casablanca, dunque, non è solo un film, come lo sono stati tanti altri che ci hanno inchiodati alla poltrona. E' una porzione del nostro cielo, dove amiamo rifugiarci quando la grande storia ha bussato alla nostra porta. Se a distanza di più di sessant'anni si avverte ancora l'impulso di rievocarne le scene e le facce, è segno che non siamo noi che ci ricordiamo di Casablanca, ma è lei che si ricorda di noi, ci visita, ci accompagna come un ricordo felice e involontario." (da Antonio Gnoli, Casablanca, il cinema, il mito, "Almanacco dei libri", "La Repubblica", 06/09/'08)

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