lunedì 15 settembre 2008

David Foster Wallace (1962-2008)


"Lo scrittore americano David Foster Wallace, che aveva raggiunto fama internazionale 12 anni fa con il fluviale romanzo Infinite Jest, è stato trovato morto impiccato nella sua abitazione a Clermont, nel Sud della California. Aveva 46 anni. È stata la moglie a scoprire il cadavere, e la polizia propende per l’ipotesi del suicidio. Attualmente Wallace insegnava scrittura creativa e letteratura inglese presso il Pomona College, in California. Il preside, Gary Kates, ha sottolineato come lo scrittore si prendesse cura con estrema attenzione degli studenti: col suo lavoro 'ha trasformato la vita di molti giovani'. Il suicidio di David Foster Wallace, autore tra i più brillanti della nuova narrativa americana, lascia sgomenti. Appena quarantaseienne, Wallace era già entrato a far parte di una cerchia piuttosto ristretta: quella degli autori su cui, all’alba del nuovo secolo, la critica d’Oltreoceano era davvero disposta a scommettere. Celebre anche presso il grande pubblico grazie all’opera-monstre Infinite Jest, romanzo di mille e più pagine ambientato in un futuro prossimo nel quale gli anni assumono un nome a partire da uno sponsor (la storia si svolge perlopiù nell’Anno del Pannolone per Adulti Depend, e ruota attorno a temi quali la dipendenza e la competitività, l’intrattenimento popolare e la pubblicità, ma anche i programmi di recupero, gli abusi di minori e il separatismo quebechiano), e definito dal New York Times 'uno dei grandi talenti della sua generazione, capace di qualsiasi virtuosismo', Wallace amava sopra ogni altra cosa l’Oxford English Dictionary, da cui pescava parole inusuali e complicate per costruire le sue elaborate macchine narrative, e si faceva fotografare con tanto di bandana in testa, barba incolta e capelli lunghi, quasi fosse una rockstar salita alla ribalta all’epoca del grunge. Nato a Ithaca (New York) il 21 febbraio 1962, era invece figlio di un professore di filosofia e di un’insegnante d’inglese, e dopo essersi fatto notare come tennista almeno a livello regionale, e aver intrapreso e poi abbandonato gli studi di filosofia a Harvard, si era laureato nel 1986 all’Amherst College e poi all’Arizona University, ottenendo il Gail Kennedy Memorial Prize. Dopo essersi iscritto a un corso di scrittura creativa, aveva pubblicato il primo libro, La scopa del sistema, e subito alcuni recensori lo avevano lodato per le sue straordinarie capacità inventive, paragonandolo nientemeno che a Thomas Pynchon. Il successo letterario, raggiunto ad appena 25 anni, lo aveva aiutato in un certo senso a ripercorrere la strada battuta dai genitori. Nel 1992 aveva cominciato a sua volta a insegnare all’Università dell’Illinois. E dal 2002, come accade non di rado in America, si era ritrovato a giocare la sua partita col mondo a parti invertite, nel senso che proprio a lui il Pomona College aveva chiesto di tenere un corso di scrittura creativa, a cui potevano accedere dodici privilegiati studenti di certo increduli della loro fortuna. Già. Perché nel frattempo David Foster Wallace era diventato, forse suo malgrado, una sorta di brand o marchio di fabbrica. All’indomani del libro d’esordio, infatti, ne erano seguiti numerosi altri, di narrativa e di saggistica, benché nel suo caso sia sempre stato piuttosto arduo distinguere nettamente l’una dall’altra (la sua opera, contraddistinta da un grande uso di note a piè pagina, si era immediatamente segnalata per il fatto di essere influenzata dai mostri sacri della fiction post-moderna made in Usa, fra cui oltre al già citato Thomas Pynchon anche William Gaddis, Donald Barthelme e John Bart, per tacere del maestro di questi ultimi, Jorge Luis Borges). E all’interno dei suoi testi, da La ragazza dai capelli strani a Considera l’aragosta, passando per Brevi interviste a uomini schifosi o per Il rap spiegato ai bianchi (scritto a quattro mani con Mark Costello), i suoi lettori si ritrovavano a fare i conti con personaggi e storie che raccontavano in modo spesso assai divertente la complessità dell’America di oggi, con le sue innumerevoli ossessioni e nevrosi e paranoie, e poi i miti veri o presunti della cultura pop, dalla musica di Keith Jarrett ai talk-show di David Letterman, dal cinema di Lynch al tennis di Agassi, riservandosi magari un’incursione negli anni della presidenza di Lyndon Johnson. Dall’alto della sua celebrata intelligenza, Wallace sembrava tuttavia divertirsi sul serio. Specie quando si calava nei panni del reporter, si trattasse di seguire per conto di una rivista (il New Yorker o McSweeney’s, la famosa rivista di letteratura fondata da quell’altro enfant prodige che è Dave Eggers, oppure Playboy) la carovana di John McCain in campagna elettorale, o di raccontare gli Oscar del cinema porno, o ancora di aggregarsi all’agghiacciante crociera extralusso 'sette notti nei Caraibi', diventata poi lo sfondo di quel libro esilarante ma innanzitutto feroce che è Una cosa divertente che non farò mai più. La sua era una comicità 'alta', come si addice a un alfiere del postmoderno impegnato fin dagli esordi a tracciare la mappa immaginaria del caos contemporaneo, capace di dedicare cinque anni alla scrittura di Infinite Jest come di seguire gli U.S. Open per una rivista di settore. E malgrado la sua diffidenza nei confronti dell’ironia, specie quella mutuata dalla televisione, l’autore di Tutto, e di più. Storia compatta dell’infinito usava magistralmente anche questa, a partire dai titoli. Sia come sia. In uno dei suoi libri più recenti, Oblio, uscito in Italia alla fine del 2004, David Foster Wallace decise di includere un racconto assai bello, intitolato Caro vecchio neon. È la storia di un giovane baciato dal successo, che però deve fare i conti con la consapevolezza assai dolorosa di essere in fin dei conti un sopravvalutato. 'Per tutta la vita sono stato un impostore. E non esagero. Ho praticamente passato tutto il mio tempo a creare un’immagine di me da offrire agli altri', è l’attacco del racconto. Queste sue parole tornano in mente ora, mentre ci si chiede di che cosa fosse fatto il male di vivere che se l’è portato via." (da Giuseppe Culicchia, Wallace, le nevrosi dell'America d'oggi, "La Stampa", 15/09/'08)

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