venerdì 5 settembre 2008

Pennac al Festival Letteratura di Mantova


"Salta fuori quasi alla fine del suo intervento. Come una palla colorata che rimbalza provocatoria in mezzo alla paltea. 'Hos entito dire che i mali odierni delal scuola, lo scarso rendimento, il bullismo, la disaffezione, siano imputabili al '68. E' una boiata infantile, pronunciata da vecchi bacucchi. Ma è soprattutto un modo per sgravarsi delle proprie responsabilità. Oggi in cattedra non ci va il maggio '68, ma professori che devono saper cos'è la scuola e quali problemi essa ci pone'. Daniel Pennac è netto nel giudizio. Ha insegnato per venticinque anni in una scuola studenti 'difficili'. Conosce la trincea, le sue paure, le sue contraddizioni. Scrive una Fenomenologia del somaro ma non è un elogio della scuola perfetta bensì una messa in discussione dei sistemi di insegnamento superati del disamore che a volte avvolge la professione dell'insegnante. E' un pubblico misto quello che affolla l'intervento di Pennac al Festival Lettura di Mantova, composto da insegnanti, studenti, lettori. Molti dei quali con in mano Diario di scuola l'ultima fatica dello scrittore francese. La scuola è in crisi? La scuola soffre di cadute di autorità? Pennac dice di non conoscere perfettamente la scuola italiana, ma non la vede così diversa da quella francese. Non pensa insomma che i problemi fondamentali siano differenti. Divise e voti in condotta sono solo 'forme esteriori dell'autorità' e alla scuola invece serve un'autorità che può essere solo 'intellettuale ed esemplare' anche dal punto di vista morale. E infatti il problema più macroscopico è dato dalla concorrenza che l'insegnante deve subire dalla società mercantile e consumistica. Si tratta, osserva Pennac, di tornare alle categorie fondamentali: insegnare a leggere, scrivere, ragionare. Ma come risvegliare l'interesse spento del bambino e dello studente? Pennac ha percorso una via paradossale per giungere nel cuore dei problemi scolastici, si è chiesto cosa significa essere un alunno mediocre. In un'epoca di numeri uno, di forsennati cacciatori di successo, di competitori estremi, di aspiranti alla fama, Pennac ha scritto di retrovie, di ballerine di fila, di eterni ultimi. Del resto, anche Pennac a scuola era un perdente. Non sappiamo se sia una leggenda o se sia vero ma lui dice che per imparare alle elementari la lettera 'A', impiegò un intero anno. Pennac ci parla di qualcosa che riguarda la gran parte dei ragazzi: è la sofferenza del non capire. Si tratta di una sensazione di spaesamento e dolore, di frustrazione e paura, di ira e paralisi. Sentimenti che convivono nella figura dell'alunno disastroso. Gli insegnanti lo hanno bollato come pigro, ottuso, svogliato, i genitori hanno visto in lui il fallimento dei loro sforzi. Eppure questo alunno disastroso è la dimostrazione di una ricchezza e di una versatilità antropologica con cui Pennac ha inteso fare i conti. Non è il buonismo deamcisiano che anima le intenzioni dello scrittore. E' che nelle pieghe di un disastro, in quella valanga di voti deludenti e di note di biasimo, si cela l'idea che la scuola, salvo poche eccezioni, renda infelici coloro che la frequentano. 'Occorrerebbe suscitare curiosità senza trasmettere certezze', dice lo scrittore. Ma ora che si è sdoganato il 7 in condotta e i brutti voti nuovamente piovono sui meno bravi, come fare in modo che i Franti di tutto il mondo diventino i nuovi angeli della conoscenza? Pennac scomoda la parola 'amore'. Si tratta di una parola pesante che non va declinata affettivamente, ed è rivolta soprattutto agli isnegnanti. Bisogn amare la materia che si insegna; amare il modo di comunicarla e amare con curiosità antropologica quella tribù di alunni che ogni mattina ci si trova di fronte'.[...]" (da Antonio Gnoli, "Ma ai ragazzi serve autorità morale non 7 in condotta e grembiule inamidato", "La Repubblica" 05/09/'08)

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