mercoledì 10 settembre 2008

Il matematico indiano di David Leavitt


"Esiste una consolidata iconografia del Genio Matematico — ribelle, scostante, matto da legare, autistico o quasi — e, a ogni matematico cui venga riconosciuto questo status, è assicurato un bagaglio aneddotico più o meno ricco, in proporzione al talento dimostrato. Si narra, ad esempio, che al giovane Gauss ancora scolaro fu inflitta la punizione di sommare i numeri dall'1 al 100. Con buona pace dell'insegnante, lui fornì il risultato in pochi secondi, invocando il principio semplificatore per cui le coppie di numeri in posizioni simmetriche rispetto al centro della successione danno tutte come somma 101 (1+100=101, 2+99=101, ..., 50+51=101). Realtà o invenzione che sia, o combinazione sapiente delle due, questo episodio è un modo efficace, e forse l'unico, di accostarsi al mistero che appartiene a certe menti prodigiose. D'altra parte, la genialità è un potente motore narrativo in quanto ha a che fare con l'ignoto e con l'inconoscibile e non c'è da stupirsi che sia al centro di tante storie: film di successo, come Will Hunting o A beautiful mind, e addirittura fiction televisive — sono queste a sancire definitivamente l'emergenza di un fenomeno — come Numb3rs. Dagli aneddoti storici fino ai serial hollywoodiani, le caratteristiche del Genio Matematico sono quasi sempre le stesse e sono codificabili in una serie di binomi: genio e sregolatezza, genio e precocità, genio e isolamento, genio e malattia. Il talento e il suo rovescio, insomma: il dono e lo scompenso che si paga per averlo. Nel romanzo Il matematico indiano (Mondadori), David Leavitt fa coraggiosamente i conti con questa iconografia, raccontando la storia (vera) del più emblematico fra i Geni Matematici: Srinivasa Ramanujan. Coraggiosamente, sottolineiamo, perché una delle sfide più difficili per un romanziere è proprio riuscire a spremere della buona letteratura da un cliché così abusato. Che Leavitt ci riesca in pieno, tanto vale dirlo subito. La scena si svolge quasi interamente a Cambridge, nel microcosmo protetto del Trinity College, prima durante e immediatamente dopo il primo conflitto mondiale. Il sabato sera gli Apostoli si riuniscono davanti a un focolare, per rileggere e discutere saggi conservati in un vecchio baule. Sono i membri di una società segreta, la cui segretezza ormai 'è una barzelletta' e vengono identificati da un numero. La maggior parte di loro è fatta 'in quel tal modo' — vale a dire 'omosessuale' — e tra i confratelli spiccano personalità del calibro di Russell, Littlewood, Whitehead e Wittgenstein. Godfrey Harold Hardy, che del romanzo di Leavitt è il vero protagonista, è il numero 223. Nel 1913 Hardy ha trentacinque anni ed è un ricercatore in matematica già noto e rispettato in ambito accademico. 'L'ultimo giorno di gennaio' riceve una lettera dall'India, destinata a cambiargli la vita. Il mittente è un contabile del porto di Madras: scrive di avere ventitré anni, nessuna istruzione universitaria alle spalle, di guadagnare appena venti sterline l'anno e di avere ottenuto risultati sorprendenti «sulle serie divergenti in generale ». Riporta una sfilza di equazioni strampalate e prive di dimostrazione, che non assomigliano a 'nessun tipo di matematica a lui (a Hardy) nota'. Solo un risultato appare familiare: la serie di Bauer, scoperta pochi anni addietro, nel 1859. Ora, — ragiona Hardy — nessuna persona priva di formazione universitaria saprebbe arrivare autonomamente a quella formula, quindi l'indiano dev'essere un impostore. Oppure. Oppure quella che ha di fronte è l'opera sfrontata di un genio: un genio privo di guida, vista l'assenza di rigore deduttivo, «selvaggio e incoerente, come una pianta di rose rampicanti che avrebbe dovuto essere preparata per crescere su un graticcio, e invece sfugge al controllo». Dopo alcuni tentennamenti e su incoraggiamento di Littlewood, Hardy risponde alla lettera. Alla sua risposta ne segue un'altra e così via, finché dal carteggio non emerge senza ulteriori dubbi che Ramanujan, il misterioso indiano, possiede un dono formidabile, prezioso e inespresso. Avendo a disposizione soltanto due libri di matematica elementare, che conosce a memoria, è infatti riuscito a derivare alcuni dei più sofisticati teoremi e a congetturarne una miriade di nuovi, che a guardarli sembrano 'una forma di poesia'. Hardy decide di portarlo a Cambridge e, faticosamente, ha la meglio sull'immobilismo ottuso della macchina universitaria e sulle riserve dello stesso Ramanujan, che da osservante bramino qual è, si rifiuta di lasciare l'India per il timore di offendere le divinità. Neville, un altro collega, si reca di persona a Madras per prelevarlo. Durante la lunga attesa, Hardy si prefigura il prodigio indiano, le scoperte che porta in serbo senza saperlo, e a volte, in brevi attimi di cedimento, anche il suo corpo bruno e snello. Finalmente, ma ben oltre pagina 100, Ramanujan sbarca in Inghilterra e con il suo arrivo ha inizio una delle collaborazioni più fruttuose nella storia della scienza. Il sodalizio condurrà, verso la fine del 1916, alla scoperta della formula asintotica per la funzione di partizione di un numero intero, la formula di Hardy-Ramanujan per l'appunto, che nel romanzo compare esplicitamente insieme a poche altre, più come ornamento della pagina che per reale necessità (fu proprio Hardy, d'altronde, a rivendicare nella sua Apologia di un matematico la bellezza della matematica in sé e per sé). Nonostante il titolo, Il matematico indiano racconta molto di Hardy, un po' dei suoi colleghi Littlewood e Neville, qualcosa in più della moglie di quest'ultimo, Alice (un personaggio femminile era necessario per stemperare lo stradominio maschile), ma poco di Ramanujan. Il matematico indiano è il perno della storia, la discontinuità intorno alla quale essa prende avvio e poi si regge in piedi, ma è condannato a restare in ombra. La sua figura non si discosta granché dall'aneddotica ben conosciuta del personaggio storico e dai binomi già menzionati, la sua anima è impenetrabile. A prima vista, potrebbe trattarsi di un limite oppure di un eccesso di cautela da parte dell'autore — raccontare gli inglesi, per lui, è senz'altro più facile che vestire i panni di un giovane indiano taciturno —, ma più probabilmente questa reticenza ha a che fare con l'abisso della genialità stessa, un abisso che non permette di farsi conoscere neppure da colui che lo possiede (Ramanujan sostiene che la dea Namagiri gli scriva le formule sulla lingua nottetempo). La genialità in sé, sembra suggerire Leavitt, è del tutto insondabile e proprio per questo dobbiamo ricorrere a bizzarri episodi e a luoghi comuni per descriverla ed esorcizzarla. Funziona per costruire una fiction o un film intrigante, ma non è davvero interessante per un romanziere e neppure eroica, in quanto trascende ogni forma di volontà. Vale la pena, invece, di raccontare il polverone che essa solleva intorno a sé: le invidie dei colleghi, l'attrazione (di Alice Neville), il rifiuto o la curiosità morbosa. Così come, seppur meno dotato, è molto più eroico Hardy, che ha l'acume di individuare un genio, l'umiltà di riconoscerlo più grande di se stesso e soprattutto la capacità di accrescerlo e indirizzarlo, fino a condurlo là dove è nato per arrivare." (da Paolo Giordano, La poesia dei numeri, ultima seduzione, "Corriere della Sera", 04/09/'08)

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