sabato 30 agosto 2008

Europa, il Vocabolario dei sentimenti


"Ridare la parola agli scrittori, cercare l'unità nelle differenze. Si intitola Vocabolario europeo ed è una delle iniziative più interessanti del Festivaletteratura di Mantova che quest'anno ha chiesto agli autori di regalare una parola della propria lingua da inserire in un ideale vocabolario condiviso. Il progetto prende spunto dal fatto che l'Unesco ha dichiarato il 2008 'anno internazionale delle lingue madre' e rientra, come spiega il linguista Giuseppe Antonelli che registrerà e commenterà le voci degli autori, in un 'discorso generale di difesa della glottodiversità. Anche perché secondo un'indagine dell'Unesco, il 97 per cento della popolazione parla un numero di idiomi che rappresenta soltanto il 4 per cento di quelle parlate sul pianeta'. L'iniziativa di Mantova coinvolge anche altri aspetti. 'E' un modo di reagire alla marginalizzazione della letteratura nella società attuale - continua Antonelli - e per combattere quella che io chiamo 'smarginalizzazione semantica', cioè la degenerazione semantica di alcune parole importanti'. La scelta più squisitamente letteraria, in questo senso, è quella dell'italiano Marco Santagata, a cui la parola stile permette di mostrare il passaggio tra l'ambito retorico e il comportamento. Se il Rinascimento - spiega Santagata - compie il grande salto e trasferisce 'alla società l'idea di stile regolato e codificato delle poetiche e della letteratura' oggi invece 'se pronunciata in relazione all'immagine o alla cultura italiana slitta quasi automaticamente su 'stilista' e rimanda al mondo della moda e del design'. Il Vocabolario mostra, nel suo complesso, la doppia anima, l'universalità e la specificità, dell'iniziativa. Così per l'inglese Howard Jacobson la parola argument ('prova o un argomento addotto per supportare un'asserzione, am anche dibattito, discussione') è un modo per entrare dalla porta linguistica nel carattere degli inglesi, 'nel loro amore per la diatriba, ma anche nel loro innato scetticismo', mentre hanno un respiro universale la Soarta, la sorte, scelta dal rumeno Mircea Cartarescu per il quale 'ogni gesto che faremo, ogni parola, ogni secrezione, ogni crimine, ogni buona azione, il bene e il male cui siamo condannati e il nostro stesso libero arbitrio sono già previsti', e Heimat dell’altoatesino di lingua tedesca Joseph Zoreder, secondo cui la parola è 'sinonimo di nido, cioè di sicurezza, pace, abitudine, ma più di tutto familiarità. Familiarità con la lingua, con gli usi, con il carattere della gente e, non ultimo, con la natura di un certo territorio'. Ci sono l’ungherese Zsuzsa Rakovszky che ha scelto múlt, passato, e l’islandese Guðrún Eva Mínervuddóttir che ha scelto útúrdúr, cioè digressione, ma c’è anche il sardo Giorgio Todde che regala Scramentu, cioè, spiega, 'il dolore per avere insistito in un’azione che — lo si poteva prevedere — è fallita. E in questo suono 'scr' è contenuto comunque un dolore. Esistono il verbo scramentai e l’aggettivo corrispondente, ed esprimono anche un atteggiamento del corpo, un’espressione del viso. Dolore, rabbia e dispetto'. Accanto alle parole-mondo, parole-simbolo come Heimat o Ikasi, cioè apprendere, scelto dal basco Bernardo Atxaga — spiega ancora Antonelli — ci sono termini più direttamente legati alla specificità della lingua, come nel caso dello svedese Hakan Nesser: Allemanstäd, che in inglese si può definire every man’s right, significa la possibilità, per ciascuno, di camminare liberamente nelle campagne, nei boschi, nelle foreste'. Una parola che gli svedesi hanno nel sangue, ma che è difficilmente riscontrabile altrove: 'Ho passato gli ultimi due anni negli Stati Uniti e per me era stranissimo trovare ovunque nei boschi cartelli con scritto "Proprietà privata! Vietato oltrepassare!"', spiega Nesser. Allemanstäd esprime una concezione della natura 'simile a quella che avevano gli indiani d’America quando arrivò l’uomo bianco e reclamò la terra. Secondo i nativi avrebbero potuto allo stesso modo reclamare il sole, la luna o, perché no, il blu del cielo'. Mancano le parole del francese e dello spagnolo, ma ci sono gli idiomi di Paesi recentemente entrati a far parte dell’Unione Europea, 'come il bulgaro di Angel Wagenstein che ha scelto una parola che significa lettere dell’alfabeto o come il rumeno di Cartarescu - spiega Antonelli —. Ma c’è anche un termine turco, belki, cioè forse, scelto da Saray Ahiner. È una presenza interessante, considerato che la Turchia non è ancora nell’Unione Europea e che tuttavia nel vocabolario italiano ci sono all’incirca 180 parole di etimo turco'. Il Vocabolario europeo comprende anche la parola gallese Hiraet, scelta da Cynan Jones, il 'desiderare intensamente di essere in un luogo, la consapevolezza di essere lontani dalla propria casa e nello stesso tempo la certezza che questa lontananza ci è necessaria'. 'Il gallese e il basco hanno riconoscimenti ufficiali, si studiano a scuola — spiega Antonelli — e ciononostante rischiano l’estinzione. Basti pensare che uno dei vari dialetti baschi, l’erronkari, si è estinto il 30 aprile 1976, quando è morta l’ultima donna che ancora lo parlava. Così come, nel 1898, si estinse il dalmatico con l’ultimo parlante che, però, prima di morire, fu intervistato dal glottologo Matteo Bartoli a cui si devono due volumi in tedesco su questa lingua'. Il Vocabolario europeo ha anche la capacità di mostrare i ponti tra le culture e le letterature. 'Pensiamo a thálassa, mare, scelta dalla greca Ioanna Karistani', dice Antonelli. 'Forse è la parola più prevedibile, ma è quella che ha più rimandi. Predrag Matvejevic, per esempio, insiste a lungo sulle varie parole che il greco antico aveva per dire mare. E il grido thálassa thálassa dei soldati nell’Anabasi di Senofonte ha un’eco in Leopardi e Heine'." (da Cristina Taglietti, Europa, il Vocabolario dei sentimenti, "Corriere della Sera", 30/08/'08)

1 commento:

Anonimo ha detto...

imparato molto