martedì 26 agosto 2008

Lettere al dottor G di Alda Merini


"Prima che si concluda questo amore
lasci che io ringrazi il mio destino
per il bene assoluto che m'ha dato,
per la fame dei sensi, per l'arsura
che mi ha preso alla gola [...]"




"Per Alda Merini fu il tempo della segregazione e della morte civile, quello che non lascia spazio al futuro e ti trascina in un luogo indicibile. Gli anni Sessanta e Settanta furono per la poetessa che tutti ammiriamo, il tempo senza pace e della confusione mentale. Alda aveva trentaquattro anni quando entrò per la prima volta in manicomio. Giunse all'Istituto Paolo Pini di Affori con una depressione acuta da postparto e il caos nella testa. Vi arrivò furiosa come una erinni. La donna che aveva incantato Giorgio Manganelli e Salvatore Quasimodo varcò la linea che separa i vivi dai morti. Quel passaggio ha lasciato delle tracce importanti e ora viene riportato alla luce grazie alle lettere e ad alcune peosie che furono scritte dalla Merini e indirizzate al dottor Enzo Gabrici, lo psichiatra che la ebbe in cura. Nelle lettere Gabrici è il dottor G, al quale la paziente Merini si rivolge a volte con lucidità, altre ancora con passione. Al centro della scena non c'è solo il poeta, ma anche l'ammalata che racconta i propri sogni, che si interroga sugli psicofarmaci, che implora attenzione al proprio dolore. Più che reclusa, Alda sembra una donna invisibile che chiede al dottor G di restituirle un corpo e un'anima. [...] Alda Merini: dell'amore, della morte. Sono i due poli dentro cui oscilla la sua poesia. Dice. 'Il manicomio, il luogo più esterno alla vita, non era solo fatto di pastiglie ed elettroshock, ma di amore. Un sentimento che indirizzavo sulle cose più smeplici, sui gesti più elementari. Se uscivo, come a volte accadeva, gli altri matti mi chiedevano di comprargli le sigarette, il vino, la cioccolata. E se mi riusciva di farlo, sentivo che il legame affettivo che la follia a volte crea tra le persone è più forte di quello che ci procura la normalità. Quanto alla morte, a lungo mi ha sfiorata, ho convissuto con la sua assenza, con il timore che si affacciasse e dovessi affrontarla. La morte è stata per me uno strano corpo a corpo, vicina e remota al tempo stesso'. [...] Cos'è il dolore per una persona con la sensibilità di un poeta? 'La poesia è la forma di intelligenza più prossima al dolore. Ma da dove scaturisce? Se perdi un figlio il dolore è una voragine, ma alla fine anche alle voragini ci si può abituare. Mentre il dolore della malattia mentale è qualcosa che ti urla dentro e non riesce a uscire. Il dolore che ti avvolge in manicomio a volte è solo un pretesto per una condanna più grande, una calunnia del destino, o forse un castigo di Dio. Sono convinta che dal dolore possa nascere una grande passione per l'Aldilà. Si vorrebbe morire, però al tempo stesso si ha la speranza di vivere'. [...] Sul successo Alda ride con voce roca e lenta e poi aggiunge. 'Il successo è come l'acqua di Lourdes, un miracolo. La gente applaude, osanna e ti chiedi: ma cosa ho fatto per meritare questo? Penso che la folla, anche piccola, che ti ama ti aiuta a vivere. In fondo un poeta ha anche qualcosa di istrionico e folle. Per questo il manicomio è stato per me il grande poema di amore e di morte. Ma anche questo luogo oggi è distante. Mi capita a volte di rivederlo in sogno. Io sogno tantissimo. E tra i sogni ne ricorre uno: sono dentro a un luogo chiuso, e io che cerco le chiavi per uscire. Forse sono mentalmente ancora in quel luogo che mi ha ucciso e mi ha fatto rinascere. Mi sento una donna che desidera ancora. Oggi per esempio vorrei che qualcuno mi andasse a comprare le sigarette. Non ho mai smesso di fumare, né di sperare." (da Antonio Gnoli, Alda Merini. Lettere dalla follia, "La Repubblica", 24/08/'08)

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