sabato 23 agosto 2008

L'eleganza è frigida di Goffredo Parise


"Nel pubblicare la seconda raccolta dei Sillabari, i suoi mirabili racconti che narravano i sentimenti umani in ordine alfabetico, Parise dichiarava all'inizio del volume che, giunto alla lettera S, la poesia lo aveva abbandonato ed era stato costretto a fermarsi, rinunciando ad arrivare alla Z. 'La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi e non ha discendenti'. Quest'avvertenza, spesso citata, è famosa come uno dei pochi esempi in cui uno scrittore del Novecento dichiari apertamente la propria dipendenza dall'ispirazione poetica, attribuendole l'arbitrio di una rivelazione o una grazia divina. Questo incanto fuggitivo che Parise temeva di avere irrimediabilmente perduto, riaffiora ne L'eleganza è frigida, una raccolta di reportage dal Giappone che ora Adelphi ripropone nella Piccola Biblioteca. Se pensiamo che il primo degli attuali capitoli fu pubblicato sul "Corriere della Sera" nel gennaio del 1981, a un anno esatto dall'apparizione sullo stesso giornale dell'ultimo racconto dei Sillabari, capiamo che la poesia non era morta in Parise, ma soltanto trasmigrata in nuove forme altrettanto felici. Poemetti in prosa anche questi articoli, ma pure cronache di viaggio o, per usare una definizione di Kawabata, 'racconti in palmo di mano'. Parise che aveva realizzato diversi reportage in Asia e altre regioni del mondo, era certamente consapevole dell'importanza di quella zona intermedia fra cronaca giornalistica e romanzo in cui uno scrittore - basti pensare a Capote - può conquistare nuovi spazi espressivi. Nei suoi articoli dal Giappone scelse di spostare il proprio punto di vista - quel punto di vista così legato alla sua persona, e intriso di un io originale e idiosincratico - su un osservatore 'neutrale' a cui diede il nome di Marco, e di usare la terza persona. Perché? In parte per raffreddare la materia emotiva stabilendo una distanza, come si conviene a un libro che è anche un trattato estetico sull'algida eleganza del Giappone. Ma la ragione più profonda è che quel terrain vague fra reportage e romanzo, Parise voleva comunque annetterlo alla propria dimensione più vera, quella di narratore. Nonostante l'impegno del reporter sia avvertibile nella coscienza scelta di temi e luoghi adatti alle pagine di un quotidiano, grazie all'invenzione di Marco, Parise può tradurre la realtà nei termini romanzeschi e poetici che più gli si addicono. Disancorata dal peso dell'io, la visione si solleva leggera e l'immaginazione fluttua, libera e chiaroveggente, attraverso i muri di barriere culturali e linguistiche. Parise guarda tutto, capisce qualcosa e intuisce moltissimo. E ciò che racconta, come nei grandi libri di viaggio, illumina allo stesso modo il paese visitato e quello d'origine. Sì, attraverso il Giappone, Parise racconta indirettamente l'Italia. Il richiamo alla patria, chiamata 'il paese della Politica' è come un controcanto doloroso che percorre tutto il libro. Molte delle carenze ataviche del nostro Paese acquistano risalto dal confronto con il Giappone. [...] Parise torna più volte sull'idea di una frazione rapidissima, fulminea di tempo, come quando cita lo haiku più famoso della poesia giapponese: 'Nel vecchio stagno / una rana si tuffa / il rumore dell'acqua'. Lo haiku sembra prendere vita proprio mentre Marco ha il libro aperto sulla pagina che lo contiene: davanti a lui una piccolissima rana di smeraldo si tuffa nell'acqua rompendo il silenzio per un unico prezioso istante. Con la stessa velocità si consumano gesti che hanno dietro una lunga, paziente preparazione: un colpo di spada, una mossa di karate, la scrittura di un ideogramma. Parise associa questa rapidità allo zen che egli, dichiarando di non conoscere, credeva di intravedere in molte cose, spirito elusivo e chiave di una felicità inebriante, del tutto estranea al mondo delle teorie e delle analisi. Ecco, Parise sentiva che la civiltà giapponese, più di ogni altra, era refrattaria all'analisi e si prestava solo 'a una serie pressoché infinita di elettroshock' come scrisse in una (quasi) stroncatura di L'Impero dei segni di Roland Barthes. Parise attribuiva a questi piccoli shock il nome di satori che definisce l'illuminazione secondo il pensiero zen. Ma leggendo il suo libro giapponese si ha la sensazione che le piccole scosse da cui esso è attraversato, più che allo zen appartengano al vissuto dello scrittore: piccoli proiettili di gioia estatica che lo colpiscono dritto al cuore di una natura profondamente malinconica, sconvolgendo il suo mondo e rinnovandolo." (da Giorgio Amitrano, Parise, cronache dal Giappone, "La Repubblica", 23/08/'08)

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