sabato 16 agosto 2008

Nel segno dell'esilio


"Sono tante, le vittime della lontananza: rifugiati, profughi, espatriati, emigrati. Esuli. Tutte condividono una distanza incolmabile, 'per lo più imposta con la forza, tra il sé e il posto in cui è nato, tra il sé e la sua casa nel mondo'. Ciascuno di questi termini che raccontano il dolore di partire per non tornare, ha però una sua connotazione specifica, vuoi sociale, vuoi politica. L'esiliato ha dalla sua il
carattere della solitudine. E un 'non so che di spirituale', riposto nella capacità che egli finisce per conquistare, di agire come se fosse a casa in qualunque luogo gli capiti di approdare. L'esiliato acquisisce, volente o nolente, una soggettività 'scrupolosa', in bilico fra due sentimenti apparentemente opposti. Uno è proprio la percezione del mondo come un luogo domestico, dove ci si può sentire come se si fosse a casa, ovunque. Per contro, l'esule è anche intransigente, enfatico, 'sopra le righe' nel suo slancio teso a 'costringere il mondo ad accettare la propria visione del mondo - resa ancor più inaccettabile dal fatto che l'esule è in realtà il primo a non averla accettata'. Così Edward Said, l'intellettuale palestinese nato nel 1935 e scomparso cinque anni fa, vissuto negli Stati Uniti - insegnò alla Columbia, a Harvard, a Yale e alla Johns Hopkins - declina la condizione dell'esilio in un saggio della raccolta Nel segno dell’esilio. E’ un volume corposo, di quasi settecento pagine e di argomento molto vario, dove si spazia da Cioran a Vico, da Naipaul a Pontecorvo, dall'epica di Tarzan a Foucault. Said è errabondo nella sua versatilità, ma in nome della sua condizione di esule, è quando affronta questioni a lui apparentemente remote che risulta più efficace. L'antologia contiene anche testi di ordine 'militante', centrati cioè sui temi propri, primo fra tutti quell'Orientalismo in cui egli ravvisa, con intransigenza, una forma di colonialismo culturale. Said rivendica sempre l'autonomia dell'islam e del suo mondo in rapporto all'identità occidentale. Le sue posizioni sulla questione palestinese, ad esempio, sono 'eccentriche' (è stato criticato da ogni direzione); quando entra nel merito della nakba, la parola araba che significa 'catastrofe' e viene usata per definire la creazione dello stato d'Israele nel 1948, Said offre una lettura di ordine culturale, più che politico. La nakba è stato l'infrangersi del sogno di un panarabismo esclusivo, ha messo in discussione - da un punto di vista interno - la continuità storica della nazione araba avvertita come un fronte integrale e intoccabile. Dall’altra parte del fronte, le parole che Said usa per descrivere l'esilio sembrano fatte apposta per delineare la condizione di Gershom Scholem e Leo Strauss, così come si delinea nei quarant'anni della loro corrispondenza (1933-1973), ora pubblicata in italiano da La Giuntina per la cura di Carlo Altini. Il primo è a Gerusalemme, dove è giunto lasciando la sua Germania. Il secondo è a Parigi, Londra, Chicago e altrove: entrambi sono sospinti dall'esilio. Entrambi, seppure da grandi distanze - Scholem è credente, Strauss ateo - credono nell'ebraismo come forza vivente (a dispetto delle terribili circostanze storiche) e nella dignità profonda della tradizione a cui appartengono. Si scrivono di tante cose, a partire da quando Strauss vorrebbe un incarico accademico a Gerusalemme (ma per casi burocratici non l'avrà) o in 'qualsiasi altra parte del mondo' purché lontano dall'Europa. I due intellettuali parlano anche di filosofia medievale, di Spinoza, considerato dagli ebrei tedeschi il simbolo dell'emancipazione. Tanto per Scholem quanto per Strauss - e per tutto l'ebraismo europeo -, Auschwitz avrebbe ben presto tradito quell'illusione. Da un capo all'altro della bufera, queste due anime (una rimasta esule, l'altra finalmente radicata nella propria terra) continuarono a parlarsi, a ragionare e provare ad interpretare il mondo, malgrado tutto ciò di cui è stato capace." (da Elena Loewenthal, Impari che casa tua è il mondo, "TuttoLibri", "La Stampa", 09/08/'08)

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