giovedì 28 agosto 2008

Quarantatré di Elisabetta Severina


"Assediati da pretenziose novità letterarie italiane, troviamo rifugio nel piccolo romanzo (autobiografico, c'è da supporre) dell'esordiente Elisabetta Severina, Quarantré. Il lettore non cada nell'equivoco: alla consultazione dell'indice, sette capitoli in tutto, rischia di essere scambiato per un libro di cucina, con titoli come Croquì, Pasta con le erbette, Crema di cioccolato, Quiche alle zucchine con speck e toma, eccetera. C'è di sicuro il regno della cucina in Quarantré; per il fatto che il perno del libro è un quaderno di ricette che una madre morta giovane, a quarantatré anni appunto, ha lasciato in eredità alla figlia, con una dedica non si sa quanto affettuosa e quanto, invece, impegnativa, anche emotivamente, per quest'ultima: 'Alla mia morte consegnare a mia figlia perché possa imparare'. Ma partendo dal motivo della preparazione laboriosa e via via sempre più appassionante, per la protagonista, dei piatti, che apre ogni capitolo, ecco emergere con limpidezza e contenuto dolore (lo stigma di questo breve romanzo cui daremmo tutti i riconoscimenti del mondo per semplicità, eleganza, decoro) l'altro tratto che progressivamente occupa lo spazio principale. E' seguendo i sentieri della memoria e dell'anima che Elisabetta, infatti, ci racconta la lunga storia di un'inadeguatezza. Cominciata precocemente a dodici anni, quando la mamma muore, dopo una travagliata malattia, lasciando al marito, grosss dirigente d'azienda prima a Torino poi a Milano, dove Elisabetta vivrà la sua adolescenza, cinque figli. Ed è proprio la ragazza Elisabetta a essere investita del compito grave di madre vicaria. Tocca a lei badare alla conduzione della casa, alla gestione del denaro per le spese familiari, alla preparazioen del cibo. Ha un bisogno disperato di normalità, la ragazzina; nel contempo è costretta a gestire una situazione eccezionale: simulare per gli altri l'apparenza della normalità, necessaria alla sopravvivenza dell'intera famiglia. Lei ci riesce, con fatica, ma anche con coraggio. Investendo nel rituale della cucina, raccontando benissimo e con perizia nel corso della storia, il valore di un simbolo: faticosa, perché fitta di ambivalenze, eredità di una mamma molto amata. E però è convinta di sbagliare tutto, cerca rassicurazioni, capisce, al di là dell'appoggio delle amiche, di essere sola. Il papà bellissimo e corteggiatissimo, è affettuoso ma lontano, distratto in troppi pensieri. Severina ha la franchezza e la profondità sottotono di un grande scrittrice moderna quando racconta le tappe della sua vita, collegate a vecchie e nuove ombre e alle paure di tanti piccoli o grandi fallimneti. Si vergogna per anni del suo dolore, scambiandolo per debolezza; trova conforto nel grande mondo dei libri e però si sente una marziana quando confessa - candidamente, ma con un'intuizione profonda - di aver trovato 'tutto ciò di cui ha bisogno per vivere' nella Divina Commedia, salvo poi essere sbeffeggiata da un professore universitario perso in altre cose. Mentre, entrata con i suoi diciotto anni nell''età dell'onnipotenza', comincia a scontrarsi col disinganno delle prime delusioni d'amore: non piacere a chi ci piace, essere inseguiti da chi non potremmo mai amare ... Va da sé che il romanzo sia molto più ricco e complesso di quanto appaia da queste poche righe. E con un finale a sorpresa che vede Elsiabetta arrivata ai fatidici quarantatré anni, diventare più vecchia della sua mamma. Ma vorremmo ribadire la nostra convinzione che non siamo di fronte a una meteora." (da Giovanni Pacchiano, Madre, figlia e 43 ricette per crescere, "Il Sole 24 Ore Domenica", 24/02/'08)

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