mercoledì 21 maggio 2008

Tracce del Sacro - Traces du Sacré


"Tracce del Sacro - Traces du Sacré -, come suona il titolo della grande mostra al Centro Pompidou in corso fino all'11 agosto, è un richiamo ingannatore. Perché chi attraversa questo labirinto di trecentocinquanta opere e duecento autori in una profusione di forme, colori e suoni, il Sacro non lo troverà più. Al contrario uscirà con la chiara sensazione che il Novecento - nucleo dell'esposizione - è stato il secolo della defintiva frantumazione del sacro. Dio non è morto, come immaginavano i teologi trent'anni fa, ma l'eclissi del Sacro si è certamente consumata nel secolo trascorso. Perché non c'è più un concetto unitario, reale, definibile e descrivibile di ciò che dovrebbe essere sotteso alla parola. Rimangono le tracce di quanti cercano spiritualità, trascendenza, energia cosmica, se si vuole, ma è un'altra storia. Nietzsche troneggia all'ingresso, in un essenziale ritratto di Edward Munch, di cui si vede anche il quadro "Croce muta": una folla che si allontana in un campo desolato lasciandosi alle spalle un crocifisso senza Cristo e senza resurrezione. 'Perdona padre, perché ho peccato' proclamano tre quadrati neri di Damien Hirst (2006), fatti di materiale scabro, quasi lavico e al tempo stesso ripugnante, che sembra rispecchiarsi nell'ovale nero di Lucio Fontana, interrotto da sei, sette squarci a testimoniare la "Fine di Dio". Non è una mostra a tema, va chiarito subito, ma è la realtà stessa degli artisti e delle loro creazioni che rivela l'impossibilità di un percorso che riconduca al Paradiso perduto o propizi l'incontro con l'Ineffabile. Di ambiente in ambiente si trovano le tracce dell'inseguimento dell'Inafferrabile. In una babele di espressioni. "Il grande Metafisico" di de Chirico o il suo faro bianco e squadrato dedicato alla "Nostalgia dell'infinito" coesistono con un Prometeo in corsa e con la danza selvaggia della "Negra" di Ludwig Kirchner o delle danzatrici spettrali di Emil Nolde che a seno nudo saltellano nel buio intorno a candele accese. La danza è certamente stata nei primi decenni del Novecento un tramite agognato per afferrare lo 'spirito'. Danza ossessiva, spettrale, sciamanica come quella di Mary Wigman, di cui si mostra un video breve ed efficace in un martellare di suoni che rievocano l'officina più che i tamburi della steppa: la Wigman è straordinaria, uno scatto isterico di capelli serpenteschi, gambe secche che guizzano come estremità di ragni, braccia contorte come rami secchi, mani che bucano il cielo.
Dov'è il Sacro in questo secolo aggrovigliato? Nel Cristo di Paul Ranson, in cui un Buddha silenzioso verde-profondo oscura lentamente la croce? Nelle tre donne blu di Piet Mondrian che cercano il dissolvimento nell'assoluto? Nel cavallo solitario di Franz Marc che fissa la prateria gialla? Nel lago abbandonato di ninfee su cui si libra un feto racchiuso in una bolla opalescente (Frantisek Kupka)? O nella preghiera di Man Ray, curva di bianchissime natiche prostrate di fronte a non si sa chi? E' nella femmina bruna di Marcel Duchamp che in piedi posa una mano benedicente su una donna pallida in ginocchio o nell'Adamo azzurrognolo di Vladimir Baranoff-Rossiné, che porta un fiorellino ad Eva stesa su un prato, sotto un sole scontornato incerto se sorgere o tramontare? Certo è che, se qualche volta appaiono figure tratte dai libri di religione, sono appena pretesti, apparizioni, strumenti degli aneliti emotivi dell'artista. Wassily Kandinsky, nel suo groviglio di colori della "Composizione VI", è testimone della perdita dell'asse del mondo. Augusto Giacometti, nel suo "Werden-Divenire" del 1919, un fiore rosso che esplode in un caos di colori ambigui e medusacei, rimanda al palpito di un cuore nascosto e inconoscibile. Semmai è Chagall nel suo lineare "Omaggio ad Apolinnaire" - un tronco umano che si spacca geometricamente in due, un Adamo e una Eva racchiusi da un cerchio astrologico - a raccontarci che la separazione tra ieri e oggi è irreversibile. André Serrano, con "Piss Christi", un crocifisso lattiginoso su sfondo rosso onirico costellato di tanti schizzi dorati, ci racconta anche un'altra cosa. Che l'Occidente ha inscritto in sé, potente e non sradicabile, l'impulso alla beffa, al blasfemo. Tra le composizioni più belle - per ironia e vigore - è sicuramente la "Madonna arrabbiata" di Max Ernst. Nobilmente popolana, con tratti michelangioleschi, il mantello azzurro scivolato sulle gambe, inchioda con la mano sinistra un Gesù Bambino riverso sulle sue ginocchia e con la destra mena senza pietà. Il bambinello ha i capelli biondi da piccolo ragazzo per bene, il sedere arrossato e l'aureola caduta miserevolmente a terra. Sic transit gloria mundi. Sono le guerre che hanno lacerato l'Europa con la sua pretesa di perfezione e progresso, ad aver distrutto qualsiasi visione ottimista della provvidenza divina. Gli angeli della morte di Otto Dix hanno il volto del soldato con la maschera gas. E nel 2005 Gerard Garouste compone un "Passaggio", pellegrinaggio verso una montagna sacra, che è uno sghignazzo. Un asino con cappello a punta alla pinocchio avanza in salita recando sul dorso il Mein Kampf di Hitler, dietro di lui un essere umano - ma potrebbero essere due - che un po' sale e un po' scende impugnando tra le mani ritorte una copia dei Salmi commentati da sant'Agostino, mentre su tutto aleggia la Bibbia dei Settanta. Dov'era dio ad Auschwitz? Sull'VIII Colle di Roma, che si impenna in una rupe disperata, Hermann Finsterlin colloca una cupola a guscio di lumaca. Buchi cavernosi portano verso un ignoto interiore. E' lì che si rintraccerà il Sacro? Una mostra perturbante, affascinante - piena anche di suoni, di invocazioni cerimoniali, melodie e scoppi di risa disarticolate che gli altoparlanti riversano nelle sale - un susseguirsi di squarci che gettano luce su più di cento anni di ossessioni, esplosioni di creatività, paure e riflessioni. Un paesaggio artistico che dimostra l'inutilità dei fulmini ecclesiastici contro gli spettri del soggettivismo e del relativismo. Perché dal Novecento in poi nessun discorso religioso può più fare a meno di passare attraverso la fornace dell'Individualità più totale. Svanite le tracce del sacro restano le orme del Soggetto. Solo, con l'arco di bronzo del torso che si infrange nella testa schiacciata al suolo, il "Soldato morente" di Lehmbruck è simbolo unicamente della sua solitudine." (da Marco Politi, L'eclissi del Sacro, "La Repubblica", 21/05/'08)

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