lunedì 5 maggio 2008

Tocca al critico ristabilire il vero


"In un’opera recente, Where Shall Wisdom Be Found?, Harold Bloom proclamava con maestosa tautologia che, per decidere se un libro è bello o è brutto, occorre attenersi innanzitutto al criterio dello 'splendore estetico': se un libro è bello, è bello. Molto semplice, si direbbe. Ma allora, a che servono i critici, e a che serve l’educazione, anzi la buona educazione? A che servono anni e anni di letture, comparazioni, errori e molta disciplina e moltissima humilitas, se non a sbagliare un po’ meno circa la 'bellezza' di un testo? E per contro: queste molte qualità sono sufficienti a fare un critico vero? Ciò che Cesare Garboli chiamava 'orecchio' è davvero il quid che, accanto all’intelligenza, alla sapienza, al buon senso, permette al critico di orientarsi e di servire la letteratura? D’altra parte la critica stessa, in rapporto alla definizione dello 'splendore', o della bellezza, sta oggi visibilmente mutando il proprio statuto, se non addirittura il proprio fine. Il giudizio di valore cede il passo alla ricreazione e alla pura degustazione. Memore del paradosso romantico (di Schleiermacher: l’interpretazione vale 'più' della creazione originaria), il critico oggi in luogo di veri giudizi produce 'variazioni' che a loro volta incrementano la comprensione del testo. E il Tribunale della Critica che qualche giudice per vocazione aveva sognato e amministrato inflessibilmente per conto proprio, oggi si sgretola in una più generale e allarmante derealizzazione. Inoltre, e realisticamente: giudicare che cosa? A parte alcune eccezioni (che tuttavia confermano la regola), gli scrittori italiani oggi hanno, di fatto, rinunciato alla 'continuità' con la letteratura italiana, mentre i critici, da parte loro, nel loro piccolo mondo, richiamano a quella 'continuità', innanzitutto linguistica: il romanzo italiano, ad esempio, fin da principio (da Manzoni) e fino a Gadda, a Fenoglio, scelse non la via della progressione narrativa, ma la via linguistica, un telaio visibile e udibile nel suo scricchiolio, un mondo obliquo e profondo in cui la chiarezza dell’informazione globale necessariamente si intorbida, e che gli attuali romanzieri abbandonano e ignorano. Se Beppe Fenoglio, di un tramonto, scriveva: 'Dalle nere case esalava ugualmente uno spirito di luce, qualcosa come una maligna e lurida sudorazione della luce interna che verticalmente si proiettava allo scontro con lo spiovere di un identico spettro di luce dallo sconquassato cielo', oggi Walter Siti, per esempio, nel recentissimo Il contagio scrive, di un analogo tramonto: 'Dal dodicesimo piano, alle sette di sera, è tutto libero fino ai primi monti; oltre il pulviscolo delle borgate estreme, un tramonto scenografico stratifica il rosso'. Il primo testo si inceppa e sfiora poeticamente l’irrappresentabilità del mondo nel cuore stesso, prosaico, d’un romanzo (Il partigiano Johnny); il secondo testo, peraltro degno d’attenzione, fila via liscio. Che cosa è accaduto? Perché il romanziere italiano contemporaneo, con il suo idioletto planetario, indefinitamente traducibile e deducibile dall’informazione, ha rinunciato alla continuità con se stesso, con la sua stessa letterarietà e i suoi fondamenti? Perché scrive in 'una specie' di inglese, quello astrattamente parlato in tutti gli aeroporti del mondo? Perché ha deciso una volta per tutte che il romanzo non ha nulla a che fare con il peso della lingua (italiana)? Qualcuno resiste, Alberto Arbasino ad esempio, che come un cavaliere ariostesco caracolla e schidiona senza batter ciglio, in un teatro deserto o semideserto. Il suo ultimo libro (L’Ingegnere in blu) è un esercizio di stile compiuto, nientemeno, di fronte 'all’amato Maestro di Grovigli e Garbugli'; un corps à corps formale e sentimentale (e anzi 'fatalmente passionale') con un Gadda inarrivabile eppure, a ben guardare, non estraneo, non perduto, non remoto; una prosa vera e follemente inventiva, anche se 'd’applicazione', avrebbe detto Contini. Ma Arbasino, autore d’un libro che potremmo definire 'bello' o 'splendido', secondo l’esclamativo Bloom, di fatto è più vicino a Gadda che ai suoi contemporanei. La 'bellezza' particolare del suo libro forse si nasconde e retrocede nel passato prossimo della modernità. E la 'bellezza' dell’arte in generale, che fin da Hegel non era affatto relativa al piacere e al 'gradire' ma alla verità e al suo storicizzarsi, forse è davvero 'per noi un passato'. Il problema, oggi, è la 'bruttezza', cioè la non verità di certi libri, che una diffusa precomprensione mediatica giudica belli e veri. Certi libri sono 'brutti' non soltanto perché hanno rinunciato alla continuità con la lingua letteraria italiana, ma perché rispetto all’attuale pena o miseria del mondo scelgono un falsetto estetizzante, disumano, pigramente ricorsivo. Se oggi i libri non costruiscono e non ricercano innanzitutto 'campi di coesistenza' (l’espressione è di Edward Said, nel bellissimo Humanism and Democratic Criticism, 2004) a che servono? Se non sono ancor oggi il modo essenziale e necessario in cui la verità si realizza, e apre ad un accrescimento d’umanità, perché dovremmo dirli 'belli'? In questo quadro, il critico tende a ristabilire quell’orizzonte di verità, cioè di inveramento nella tradizione e nella caotica profondità dell’epoca, che tanta letteratura contemporanea ignora e allontana. E’ possibile che il nostro sia ancora il tempo della critica, come già prevedeva Montale in Auto da fé, e un solo saggio contenga più invenzione allo stato puro, e di fatto 'bellezza', di quanta ne contengano cento romanzi. Oppure, è possibile che in Italia non sia mai stato il tempo del romanzo se non in quanto romanzo-saggio, cioè in definitiva critica. Sia come sia, la funzione di secondarietà del critico-salvaguardante, secondo una celebre definizione, potrebbe oggi trasvalutarsi in un genere se non nuovo di zecca, di certo refrattario alle classifiche di mercato: una prosa saggistica che contenga i frammenti d’una narrazione che non tutti i romanzieri, da soli, riescono a tener cuciti in un insieme plausibile." (da Giorgio Ficara, Tocca al critico ristabilire il vero, "TuttoLibri", "La Stampa", 03/05/'08)

Nessun commento: