martedì 20 maggio 2008

Dialoghi d'amore di Leone Ebreo

"'Non potendo mandarvi frutto che di me stesso sia nato, ve lo mando nato negli altrui giardini: i libri d'amore di Maestro Leone'.

Così il curatore della prima edizione a stampa - e prima in assoluto - dei Dialoghi d'amore di Leone Ebreo a Madonna Aurelia Petrucci, nobile poetessa senese. Quando Mariano Lenzi, nel 1535, invia alla colta giovane l'opera di Giuda, o Jehudah, Abravanel, o Abrabanel, nato a Lisbona nel 1463, desidera solo omaggiare la signora con un esempio di casto amore: Filone e Sofia dialogano per comprendere insieme la forma più alta dell'amore, l'unione mistica al primo principio. Forse sorride qualcuno di noi, oggi: amore, principio, eros e virtù, termini contrastanti, lontani, appartenenti a mondi separati. Non secondo questa modalità venivano letti nell'Italia del XVI secolo, dove 'Leone' era vissuto almeno fino al 1523, e dove la sua opera ebbe, dopo la prima, venticinque edizioni in meno di un secolo. Ma chi era Leone e cosa scriveva di così appassionante per i colti italiani del Cinquecento? Jehuda (Giuda) è una tipica figura di sapiente, filosofo e insieme medico, nato da illustre famiglia ebraica tra il 1460 e il 1465: il padre, oltre che politico e finanziere, era un fine commentatore biblico, certamente attento all'educazione del figlio. [...] Si sa della presenza di Leone a Napoli, si suppone abbia soggiornato a Firenze e Venezia, le certezze sono poche ma sufficienti a definire la figura di un medico (come tale esercitava a Napoli), colto sia nel campo della cultura ebraica che in quella neoplatonica: i suoi testi citano Maimonide e la qabbalah, così come Aristotele, Cicerone, diversi autori islamici e, se pur non direttamente, Marsilio Ficino, Giovanni Pico e altri contemporanei. Concordismo, sincretismo? Ma la serenità di scrittura di Leone (il passaggio da 'Giuda' a 'Leone' è biblico, anche se mai dichiarato) è molto più disinvolto del nostro pur spregiudicato Giovanni Pico della Mirandola. Di lui possediamo una poesia intitolata Lamento del tempo o del destino e questi tre dialoghi sull'amore, ora in un'edizione curata da Delfina Giovannozzi (che rinnova quella di Santino Caramella del 1929), pubblicata nella nuova elegante Biblioteca Filosofica Laterza, preceduta da un'introduzione chiara e breve (mai abbastanza lodate, quando sono poche e sostanziali, le parole introduttive ai testi) di Eugenio Canone. Leone scrisse in ebraico, in latino, in italiano? Non è dato di saperlo, e forse per lui non costituiva nemmeno un problema il passaggio da una lingua all'altra. Nei dialoghi si ribadisce come la vera beatitudine consista ne 'l'atto copulativo de l'intima e unita cognizione divina'. L'amore è ciò che rende l'universo una cosa sola, 'uno individuo' (tema ripreso da Pico e da Giordano Bruno), mentre per l'uomo la suprema aspirazione, con l'amore intellettuale per Dio, è la 'morte di bacio', ovvero la liberazione dal corpo per unirsi in un mistico, erotico bacio dell'anima al suo principio: i sapienti 'metaforicamente declarano che Mosè e Aronne morirono baciando la divinità'. In questo 'metaforicamente' è tutta la sapienza di 'Leone', filosofo misteriosamente quasi mai citato nei manuali di Filosofia: non si confondano i delirii e i misticismi con le vere ascese dell'anima al principio, si dice baciare per farsi capire, ma chi può davvero capire, capisca." (da Maria Bettetini, Baci dalla 'qabbalah', "Il Sole 24 Ore Domenica", 18/05/'08)

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