mercoledì 7 maggio 2008

Storia di una vita di Aharon Appelfeld


"Comincerò da me stesso. Sono nato nel 1932 nell'Europa dell'Est. Avevo sette anni quando scoppiò la Seconda guerra mondiale. Mia madre fu assassinata, fui separato da mio padre e, dopo essere fuggito dal campo, trascorsi gli anni della guerra nel sottobosco della malavita ucraina. Provengo da una famiglia abbiente e di larghe vedute, fedele ai principi della civiltà. Brusco fu il passaggio dal mondo del diritto e della legalità a quello opposto, e richiese un rapido adattamento. Una tale esperienza biografica non può certo dirsi unica: i bambini sopravvissuti alla Shoah hanno storie simili alla mia. La questione che si pose allora e che tale è rimasta, sta in questi termini: come si fa ad affrontare un'infanzia del genere? E ad un altro livello: quale potrà mai essere il significato di un'esperienza tanto terribile? Come si fa a condurre una vita degna, dopo un'esperienza di questo tipo? O, come mi ha detto una volta un amico, anch'egli un sopravvissuto: chi è stato in campo di concentramento non riesce ad accomodarsi in poltrona a sorseggiare il tè del pomeriggio come se niente fosse, come se non fosse stato laggiù. Nel 1945, alla fine della guerra, avevo tredici anni. Che fare? Dove dirigermi? Ero attorniato da un mare di profughi che fluiva da un luogo all'altro, tutti carichi di un'immensa paura che non sapevano dove abbandonare, come liberarsene. Le grandi catastrofi ci lasciano pesanti e ammutoliti. Come si fa a dire alcunché di fronte alla morte di un uomo, e a maggior ragione davanti a un cumulo di cadaveri? Nulla di che stupire, se allora le parole mancassero, quasi non se ne dicessero. La parola, in fin dei conti, è destinata a colmare le nostre necessità esistenziali; eppure tace quando si avvicina agli abissi dell'animo, e a maggior ragione se si tratta di immensità metafisiche. Erano colmi, sì, quegli abissi: ma nessuno aveva ancora inventato gli strumenti capaci di far risalire quel che si era annidato laggiù, in fondo. Di quei tempi di marce interminabili, ricordo volti indecifrabili e passi pesanti, ma non una domanda, non un interrogativo su ciò che era appena successo: come se il sielnzio fosse la sostanza del mondo. Del resto, che cosa può esserci da dire di fronte alle forze irrazionali e irrefrenabili, del terrore? Era tutto così inconcepibile, da zittire non solo la parola ma anche il dolore. [...] In una di quelle cupe sere in cui mi sembrava che il ghetto e il campo non mi avrebbero abbandonato mai più, che avrei continuato per sempre a trascinarmi dietro quella solitudine di orfano, smarrito in un mondo che aveva smarrito i propri valori, ebebne quella sera mi misi a scrivere su un pezzetto di cartone i nomi dei miei genitori, quelli dei nonni e degli zii e dei cugini. Ero così sperso che volevo, attraverso la scrittura, accertare che quei nomi fossero esistiti, che la famiglia da cui provenivo non fosse una finzione, parto della fantasia. Allora, come per miracolo, scrivendo i loro nomi li riportai alla vita: me li ritrovai davanti, proprio come li rammentavo. Per un attimo non fui più un orfano ma un ragazzino circondato da persone che gli volevano bene. ero talmente felice che nascosi il pezzo di cartone dentro la fodera del mio cappotto, come se fosse stato la chiave di uno scrigno pieno di preziosi segeti. Da quel momento, ogni volta che la solitudine o l'angoscia mi mordevano, tiravo fuori quel pezzo di cartone, leggevo ciò che vi stava scritto e rivedevo i genitori che avevo perduto. La scrittura non è magia ma, evidentemente, può diventare la porta d'ingresso per quel mondo che sta nascosto dentro di noi. La parola scritta ha la forza di accendere la fantasia e illuminare l'interiorità. Ma una lunga strada separava quel brandello spiegazzato di cartone sul quale avevo annotato i nomi dei miei familiari, dalla scrittura vera e propria. Tutto quello che avevo scoperto lungo gli anni di guerra stava chiuso dentro di me, era un macigno scuro: ogni volta che ripensavo a ciò che avevo passato nel ghetto, nel campo e nei boschi, le immagini che affioravano in me non erano meno terrificanti di quanto non lo fosse stata la realtà. Per non affrontare quegli incubi scapapvo via di corsa, cercando di staccarmene. Ma questo metodo funzionava solo in parte. Il passato, anche il più tremendo, non si congeda mai facilmente. In termini generali, diciamo che la letteratura racconta delle storie. Ma quelle degli scampati al campo o ai boschi, non erano storie. Piuttosto, un cumulo di braci crepitanti che al solo toccarle ustionavano. Che cosa c'è da raccontare, qui? Forse, raccontare quel terrore è una profanazione. Quanto tempo è durata, quell'angoscia. Le peregrinazioni per l'Europa terminarono nel 1946, quando arrivai in Palestina. Nella Palestina del 1946 c'era un'atmosfera pioneristica. Questo slancio mirava a costruire un ebreo nuovo, spogliato delle paure del passato e rivolto al presente, al futuro. Il passato ebraico era considerato una sorta di maledizione, da cui affrancarsi: sullo sfondo di questi ideali pioneristici, l'esperienza del passato - i ghetti e i campi -, era carica di un'onta che andava cancellata, e il più in fretta possibile. All'atto pratico, come si fa a estirpare dall'anima tutto quello che si è attraversato durante cinque lunghi anni, ed innestarvi al suo posto un idillio pastorale? Come si fa a dimenticare una parte importante della propria vita? Alcuni lo fecero, ma quella rimozione costò loro un caro prezzo. Una persona senza passato, foss'anche un passato terribile e infame come quello, è una persona menomata. Senza contatto con i genitori e gli avi, senza i valori che le generazioni precedenti trasmettono, si è solo un corpo vivo, ma senza un'anima. La mia giovane vita incontrò però anche delle luci. Lavoravo nei campi, imparai ad amare le piante e gli alberi, e c'erano momenti in cui avevo il presentimento che la terra avrebbe guarito le mie ferite, che sarei diventato un vero e proprio contadino, come tutti gli altri che non avevano consoicuto la guerra. Di notte, solo con me stesso, scrivevo delle lettere a mia madre. Sapevo che era stata trucidata, e tuttavia mi crogiolavo in quest'affetto. Le lettere erano una serie di minuzie insignifcanti, dettate dalla mia quotidianità. Avevo l'impressione che se per chissà quali vie le mie lettere fossero arrivate, ne sarebbe stata felice. Notte dopo notte, quella mia frenetica attività di scrittura mi riportava al mondo che un tempo era stato il mio." (da Aharon Appelfeld, Un passato che scotta, "La Repubblica", 07/05/'08)
I libri di Appelfeld
Storia di una vita (Guanda, 2008)
Badenheim 1939 (Guanda, 2007)
"The Night Train to Bucharest" (da NYTimesBooks)

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