lunedì 3 novembre 2008

Il gioco dell'angelo di Carlos Ruiz Zafon


"Molti nni fa, quando ero da poco laureato, una casa editrice napoletana mi propose di tradurre nientedimeno che le Meditazioni del Chisciotte di Jose Ortega y Gasset. Con l'incoscienza dei vent'anni, accettai temerariamente la sfida. La mia avventura di traduttore è cominciata così e si è trasformata in un secondo mestiere che mi ha accompagnato, con maggiore o minore intensità, in tutti questi anni. Mi è così capitato di dover rendere in italiano gli scoppiettanti fuochi d'artificio e i messicanismi iperbolici di Paco Ignacio Taibo II, le invenzioni visionarie di un Cela minore o un saggio di Carlos Fuentes, oppure la sintassi acrobatica e i paragrafi sfilacciati di Alfredo Bryce Echenique, o ancora il racconto secco e tragico di Ignacio Martinez de Pisòn. Ma un autore da dieci milioni di copie vendute in quaranta lingue diverse, un autore come Carlos Ruiz Zafòn, quello mai. Almeno fino a un pomeriggio dell'aprile scorso, quando mi ha telefonato l'editor della narrativa straniera della Mondadori. 'Zafòn?' gli ho chiesto. Tradurre uno scrittore che ha raggiunto un successo mondiale paragonabile solo a quello di Harry Potter? Bell'impegno. Ma non bastava. L'editor voleva di più: voleva il libro per la fine di giugno! Voleva che in poco più di due mesi traducessi tutte le 668 pagine dell'edizione spagnola del suo nuovo romanzo, Il gioco dell'angelo (che a quei tempi si chiamva ancora La città dei maledetti). Me ne avrebbe consegnato subito una parte, e solo dopo le altre due, perché l'autore ci stava ancora lavorando. E naturalmente, voleva una traduzione di qualità, perché Zafòn è esigente, e bla bla bla. Ci ho pensato su un paio di giorni, ho sistemato gli impegni presi in precedenza e, ancora una volta, come ai tempi di Ortega y Gasset, ho detto irresponsabilmnete di sì. La full immersion nella misteriosa e suggestiva Barcellona modernista degli anni Venti e nelle pagine di Zafòn è durata 55 giorni (e quasi altrettante notti). Ovviamente, al contrario di quanto si dovrebbe sempre fare, non ho avuto il tempo e il modo di leggere tutto il libro prima di cominciare a tradurre. Perciò confesso che la molla fondamentale che mi ha sorretto in questo lungo corpo a corpo è stata la classica, sacrosanta voglia di sapere come andava a finire. Bravo, signor Zafòn: il mestiere non è acqua. Bisogna avere imparato a menadito la lezione del feuilleton ottocentesco, del mistery, del gotico, di Dumas, di Stoker, di Sue, di Dickens e di Galdòs mescolati con la migliore tradizione cinematografica hollywoodiana per catturare in questo modo il lettore, e perfino il lettore necessariamente più attento, qual è il traduttore. Zafòn, si sa, pesca a piene mani dai generi più popolari, maneggia materiale, per così dire, di risulta (sequenze mozzafiato e macabri segreti, delitti e cadaveri, indagini poliziesche e figure demoniache), montandolo con grande maestria e perfino con la capacità di spingerci a riflettere. Su cosa siano davvero le religioni e le credenze di tutti i tipi, sull'importanza delle narrazioni, della lettura e della scrittura nella nostra vita e nel nostro modo di fare esperienza. Ma c'è di più: questa sua scelta, dettata in fondo dal desiderio di catturare e affascinare il lettore grazie a uno spiccatissimo senso del ritmo, dei dialoghi e del montaggio narrativo, non gli impedisce di curare anche la qualità del linguaggio. Tranne che per qualche ripetizione di troppo nei verbi che accompagnano i dialoghi (quanti 'deglutì' ...), Zafòn sceglie smepre con moltissima attenzione il proprio lessico, facendo spesso ricorso a parole-valigia, portatrici di un significato primario, evidente, solare, e di un altro più nascosto, lunare, come i due fuochi di un'ellisse. Restituirle con la stessa polisemia in italiano non è stato sempre facile. Per il resto, in verità, no problem. Ho sempre sostenuto che è molto più facile tradurre un autore che scrive bene rispetto a uno che scrive male. Con Zafòn ho avuto la conferma di questa ipotesi che può sembrare una tautologia. E mi sono perfino divertito." (da Bruno Arpaia, Dare voce al bestseller, "Il Sole 24 ore Domenica", 02/11/'08)

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