sabato 29 novembre 2008

Senza parole di Zhang Jie


"In letteratura, nel cinema, nella musica ci sono opere che, una volta terminate, si vuole rileggere, rivedere, riascoltare. E’ il caso del romanzo-saga Senza parole di Zhang Jie, nata a Pechino nel 1937 (Salani). L’autrice è nota per i racconti di forte impatto della raccolta Mandarini cinesi (Feltrinelli, 1989) e di altri sparsi, sul ruolo centrale della donna nella Cina di fine millennio. In questo primo volume della trilogia (che si spera continui nell’ottima traduzione di Maria Gottardo e di Monica Morzenti), dedicata alla Cina del XX secolo, Zhang Jie segue una linea marcatamente matriarcale: la nonna Mohe, morta dissanguata di parto a 34 anni alla settima gravidanza; la mamma Ye Lianzi, Xiuchu da bambina, l’unica sopravvissuta che assomma in sé l’energia vitale dei fratelli morti; Wu Wei, la protagonista, scrittrice di fama mondiale, da giovane esuberante e appassionata ma incapace di gestire i rapporti con gli uomini, eterna ingenua destinata a una precoce follia senile; Chanyue, la pronipote, figlia illegittima nata quando Wu Wei aveva 26 anni. Gli uomini? Interessati ad altro (gioco, lavoro, caccia, politica, carriera, eventi della Storia). Spicca tra loro Hu Bingchen, nato 'padroncino' ma alto funzionario del partito, amante e marito di Wu Wei per oltre vent’anni, nominato viceministro e 'costretto' al divorzio, gentiluomo fasullo e freddo calcolatore. Amori totali, povertà e sofferenza estreme, mai disperazione, guerre, rivoluzioni, terremoti politici che travolgono le esistenze degli individui. Il narrato procede per scarti continui, digressioni funzionali alla storia, anticipi, salti nel passato e ritorni. Niente sentimentalismo, ma pagine di suprema poesia (le voci dell’altopiano) e di alta drammaticità (la 'muta' impotenza della piccola Xiuchu al venir meno della vita nella madre, il dialogo 'senza parole' nello splendido finale). Per lettrici e lettori attenti e con qualche nozione sulla Storia cinese." (da Angelo Z. Gatti, Matriarcato alla cinese, "TuttoLibri", "La Stampa", 29/11/'08)

Giulio Giorello sta leggendo "Omicidio a Road Hill House"


"E' un libro molto curioso, costruito come una classica detective story, ma che ricostruisce un caso relamente accaduto nell'Inghilterra vittoriana del 1860, prima del debutto del mitico Sherlock Holmes. In Omicidio a Road Hill House (The Suspicions of Mr. Whicher: A Shocking Murder and the Undoing of a Great Victorian Detective) di Kate Summerscale (Einaudi), l'investigatore, componente di una squadra speciale di Scotland Yard, procedendo per intuizioni e deduzioni, individua il colpevole di un orrendo infanticidio, ma non riesce a incastrarlo immediatamente e finisce sotto accusa da parte della stampa e dell'opinione pubblica, perché la verità è troppo scomoda. Il libro è al tempo stesso un saggio storico, una bella narrazione che ti prende alla gola e anche una riflessione epistemologica; l'autrice ci fa rivivere un'epoca, e ci immerge in un problema di criminologia e di logica. L'indagine poliziesca e la scoperta scientifica, come notava Charles Dickens, hanno molti elementi in comune e gli investigatori migliori, proprio come gli scienziati, imparano dai loro errori. I grandi protagomnisti del romanzo poliziesco, di cui sono un lettore appassionato (da Conan Doyle ad Agatha Christie e John Dixon Carr), sono infatti degli autentici eroi del fallibilismo, nella migliore tradizione filosofica di Peirce e Popper". (da Massimiliano Panarari, Giulio Giorello sta leggendo: un giallo apistemologico, "Almanacco dei libri", "La Repubblica", 29/11/'08)
"Murder most foul" (da GuardianBooks)
"The birth of the detective" (da GuardianBooks)

venerdì 28 novembre 2008

Poesie di Ted Hughes


"A Cambridge, dov’era calato dallo Yorkshire rurale e dove si difese, borsista con nessun retroterra, accentuando il proprio accento nordico, vestendosi in modo trasandato e frequentando altri outsider come lui, Ted Hughes capì soltanto che niente di quanto vi si insegnava poteva interessarlo, in quanto poteva soltanto ostacolare la propria prepotente vocazione per la Poesia, vocazione nata dalla scoperta, a quattordici anni, dei ritmi sonori e della retorica trascinante di Kipling, e mai più messa in discussione. Invece di studiare cominciò dunque a coltivare progetti assurdi su come arricchire rapidamente (allevando visoni? riuscendo a acquistare appartamentini da affittare? emigrando in Australia?) allo scopo di dedicarsi unicamente a comporre versi. Mantenersi facendo il poeta sembrava impossibile, tuttavia gli riuscì quasi subito, grazie all’incontro con un’anima gemella: una studentessa americana, non meno di lui ardente del sacro fuoco dell’arte, ma a differenza di lui concreta e organizzata. Con Sylvia Plath fu amore a prima vista, e subito dopo il matrimonio (lui aveva ventisei anni, lei ventiquattro) la sposina cominciò a mandare sistematicamente composizioni del pressoché sconosciuto coniuge a tutte le principali riviste letterarie americane, alcune delle quali le accettarono e remunerarono. Fu sempre Sylvia a battere a macchina le poesie della prima raccolta di Ted (nome sancito da lei) e a inviarle a un premio letterario per esordienti, la cui giuria prestigiosissima - T.S. Eliot, Marianne Moore, Stephen Spender! - le approvò. Da quel momento in poi, pur non navigando nell’oro ed essendo talvolta costretto ad accettare lavori occasionali, ma sempre letterari o paraletterari, Ted Hughes poté dedicarsi a quello che gli stava veramente a cuore, e che si potrebbe sbrigativamente definire l’esplorazione delle infinite possibilità della Parola - come strumento di comprensione del mondo; come contatto con le nostre origini; come recupero della nostra identità; come suono puro, elementare; come formula magica, e via dicendo. Della parola poetica, beninteso: ché con la prosa Hughes ebbe sempre un rapporto meno felice, a parte quella delle lettere private, vedi quelle pubblicate oggi a cura di Christopher Reid, nelle quali egli spiega se stesso e gli altri con molta lucidità. In prosa tese ad essere, talvolta, arzigogolato e stravagante, vedi il suo studio Shakespeare and the Goddess of Complete Being, tanto meditato ma poi vituperato quasi universalmente. Proprio all’aver scritto troppa prosa attribuì (seriamente: era un convinto frequentatore di testi alchemici e di cultura ermetica) l’avere contratto il cancro al colon che lo avrebbe ucciso. Finora noto al pubblico italiano quasi solo per le vicende private (la moglie poetessa Sylvia Plath suicida e diventata un feticcio delle femministe), notorietà che gli valse anche la traduzione del quasi postumo Lettere di compleanno, commoventissima rimeditazione delle circostanze di quel matrimonio, oggi finalmente Ted Hughes si presenta con la quasi totalità della sua opera poetica superbamente curata in un Meridiano dall’apparato esaurientissimo - non solo testo a fronte e versioni accurate e brillanti, ma biografia dettagliata, note assai approfondite, indici bilingui, bibliografia e via dicendo. Ci sono, una dopo l’altra, tutte le principali raccolte che segnarono quarant’anni di attività, a partire dal debutto con la surricordata e premiata Il falco nella pioggia (1957). Parecchi componimenti, soprattutto tra i più antichi, sono ormai nelle antologie che tutti i bambini inglesi studiano a scuola; altri - in particolare quelli del ciclo Corvo e quelli dalla narrazione Gaudete - conservano un loro lato esoterico, che li rese meno fruibili ai tempi loro e nel quale l’esegesi qui offerta aiuta a penetrare. Ted Hughes visse fino a superare scandali e pettegolezzi (sei anni dopo Sylvia Plath, anche una sua seconda compagna si tolse la vita, con la bambina che gli aveva dato) e a diventare anche ufficialmente il più importante poeta inglese vivente. Quando accettò la carica ufficiale di Poet Laureate il suo amico Philip Larkin, cui era stata offerta prima che a lui e che l’aveva rifiutata, commentò: 'Ted mi piace, ma in una società giusta lui non sarebbe il Poeta Laureato, sarebbe lo scemo del villaggio'; ma Ted, cui l’onore piacque assai, andò ingenuamente fiero dell’intimità che ne seguì con la famiglia reale, alla quale indirizzò molte missive flautate. La domanda, naturalmente, è, fu 'anche' un grande poeta? Dovessi rispondere io, direi che sull’ampiezza e sulla profondità del suo pensiero ho delle riserve - le visioni alla base delle due raccolte citate sopra sono a dir poco singolari, e per quanto inquietanti, non necessariamente coinvolgenti - ma lo stesso si potrebbe affermare per Yeats. Sulla sua statura di artefice, però - di poeta nel senso etimologico, 'colui che fa', vivente anche nell’equivalente antico scozzese, 'makar' - non sono leciti dubbi. Hughes fu immenso, basta rileggersi, possibilmente ad alta voce (lui era un famoso declamatore) le sue familiari descrizioni di animali, I lucci, Il falco appollaiato, I cavalli, dove la forza dell’immagine, nata da un’osservazione acutissima e da una conoscenza viscerale, si fonde inimitabilmente con la sonorità dei vocaboli e allo stesso tempo con la più antica tradizione inglese, ridando vita per esempio all’antichissima pratica dell’allitterazione. Innamorato dell’ambiente, Hughes fu un pioniere dell’ecologia, e basterebbe questo a renderlo più che attuale. Quanto poi alla sua «pietas» o comprensione dell’anima umana, si riprendano i componimenti delle intime, spesso irresistibili Lettere di compleanno: anche soltanto quello in cui si rievoca una sciagurata gita al mare, in cui Ted caparbiamente trascinò un’ostile Sylvia per dimostrarle la bellezza delle spiagge inglesi - ma trovò soltanto, invece, una desolazione autunnale e inquinata. 'Tu ti rifiutasti di scendere. / Rimanesti seduta dietro la tua maschera, inaccessibile - /gli occhi fissi all’oceano che ti aveva deluso. / Io andai fino all’acqua. Un’onda spenta / riuscì a sollevarsi e ad afflosciarsi. Poi un sibilo fioco / rotolò nere palline di petrolio e smosse qua e là oscuri rigurgiti»." (da Masolino D'Amico, E' un paradiso lo zoo di Hughes, "TuttoLibri", "La Stampa", 22/11/'08)

giovedì 27 novembre 2008

Fahrenheit 451 - Pandemonium Teatro


Sabato 29 novembre alle ore 21 presso il Teatro Martinetti di Garlasco, Fahrenheut 451 - Pandemonium Teatro: "Fahrenheit 451 è la temperatura a cui i libri bruciano meglio. Del famoso libro di fantascienza Fahrenheit 451 esiste una riduzione teatrale fatta dallo stesso autore: Ray Bradbury, uno dei più grandi scrittori americani contemporanei. Nel testo teatrale Bradbury riprende l’ambientazione in una ipotetica società del futuro, nella quale leggere un libro - qualsiasi libro - é considerato un delitto gravissimo, tanto che i vigili del fuoco hanno il compito istituzionale di bruciare tutti i libri ancora esistenti. Ma mentre i normali cittadini apparentemente 'felici', passano il tempo davanti a gigantesche pareti televisive, una minoranza di ribelli escogita un modo geniale e poetico di conservare la memoria di ciò che nei libri è scritto. Con grande valore etico, Bradbury ci ammonisce sui pericoli che corre una società massificante, che segue un concetto semplicistico e aberrante di uguaglianza: nessuno deve eccellere, nessuno deve diversificarsi dagli altri! Una società che usa la televisione per sopire le coscienze, livellare le intelligenze, travisare la realtà e brucia i libri perché sede di idee individuali, opinioni personali, sentimenti privati ('dietro ogni libro c’è un uomo!') e perciò fonte di discussioni e diverbi. La messa in scena pone l’accento sulla 'pericolosità' dei libri, nel senso che: leggere non è mai un atto neutro, porta con sé cambiamenti, nel bene o nel male. Tutti i personaggi della storia vengono a contatto almeno con un libro e tutti ne sono profondamente colpiti, alcuni con esiti evolutivi, altri con esiti tragici. Amore e odio, smarrimento e disprezzo, curiosità e paura: un libro non lascia indifferenti!".

mercoledì 26 novembre 2008

Roberto Saviano: "I poteri che temono la letteratura"


"È davvero emozionante essere qui stasera. Quando mi è giunto l'invito dell'Accademia di Svezia, ho pensato che questa era la vera protezione alle mie parole. È una domanda complessa quella che ci interroga stasera: perché una letteratura mette in crisi potenti organizzazioni criminali, che fatturano 100 miliardi di euro l'anno, che massacrano innocenti. Io penso che una delle risposte sia: perché la letteratura ha il potere di svelare i meccanismi, di rappresentare questi crimini non in maniera tipizzata o stereotipata, come molte volte ha fatto anche il cinema - penso alla ferocia glamour de Il padrino e di Scarface. Ma li svela parlando al cuore, allo stomaco e alla testa dei lettori. Ma c'è una differenza tra quanto accade qui in Occidente e quanto accade nei regimi totalitari rispetto alla stessa parola che appare 'scomoda' o pericolosa. Nei regimi oppressivi qualunque parola, o verso contrario a ciò che quel dettame impone, diventa condizione sufficiente per essere messo all'indice. Non è così in Occidente. Dove tu scrittore, o artista puoi fare, dire e pensare ciò che vuoi. A patto però di non superare la linea dell'indifferenza o del moderato ascolto. Quando invece buchi la soglia del rullo compressore, quando superi la soglia dell'ascolto e vai in alto, o in profondità, a quel punto e solo allora diventi un bersaglio. Qualcuno ha detto che dopo Primo Levi, e dopo Se questo è un uomo, nessuno può più dire di non esser stato ad Auschwitz. Non di non esserne venuto a conoscenza, ma di non esserci stato. Ecco ciò che i poteri temono della letteratura, quello criminale e gli altri poteri. Che i lettori sentano quel problema come il loro problema, quelle dinamiche come le loro dinamiche. Quando i carabinieri ti dicono che la tua vita cambierà per sempre, oppure quando un pentito svela in quale data, a suo parere, cesserai di vivere, la prima sensazione, la prima domanda che ti fai è: che cosa ho fatto? Inizi a odiare le parole che hai scritto, e pensi che siano le tue parole ad averti tolto la libertà di camminare, di parlare, di vivere. Penso a una giornalista come la Politkovskaja, che ha dato una dimensione universale alla tragedia cecena, non era più solo un problema locale. Penso a uno scrittore come Salamov che ha raccontato l'inferno dei gulag, e con esso l'intera e universale condizione dell'uomo. Dopo quella letteratura, il mondo si sente rappresentato nella sua dimensione più profonda, e quindi non può prescindere più da quella parola. Allora non c'è più Russia o Cecenia o Mosca o Napoli. La mafia può condannarti, ma quello che ti ferisce sono le accuse della società civile. Dicono che stai speculando sul successo, che hai fatto tutto per visibilità. E che stai rovinando il paese. Sono ferito da quest'ultima affermazione. Perché penso che raccontare sia resistere. E stare vicino alla parte sana del Paese, a quella parte che non si arrende, che combatte le organizzazione criminale che hanno in mano grandi fette dell'economia, non solo nazionale. Qualcuno dice anche che sono ossessionato dal sangue, dalle ingiustizie. Ma chi ha dentro un'idea di bellezza e di giustizia, non può non sentire questa esigenza. Penso a quello che diceva Albert Camus: 'Esiste la bellezza ed esiste l'inferno. Vorrei rimanere fedele ad entrambi'." (da Conchita Sannino, Rushdie e Saviano a casa Nobel, "La Repubblica", 26/11/'08)

martedì 25 novembre 2008

Cina Tibet di Alberto Giuliani e Filippo Romano


"Due realtà completamente diverse; nei paesaggi, nella cultura, negli uomini. Sembrerebbe quasi che la geografia si sia divertita a mettere così strettamente a contatto questi due mondi che la storia si è invece impegnata a separare. La Cina da un lato, con il suo sviluppo vertiginoso, un comunismo che insegue il capitalismo nella voracità e nella velocità dei consumi; il Tibet dall’altro, sprofondato in un tempo immobile, fuori dai circuiti della globalizzazione e dalle impazienze della civiltà occidentale. Diversi, opposti e ora anche in lotta tra loro. A mandare in frantumi queste due icone, a sottrarre quel confronto alla suggestione che deriva dalle differenze della loro storia e dalle rappresentazioni che solitamente circolano qui da noi, intervengono ora le immagini scattate da due fotografi italiani e raccolte in un libro appena pubblicato - Alberto Giuliani, Filippo Romano, Cina Tibet (Ega). Le foto sono state fatte in un arco di tempo che copre tutti questi primi anni del nuovo millennio e ci restituiscono quindi la più stretta contemporaneità. Con il loro sguardo partecipe e solidale (il volume si inserisce nella campagna di Amnesty International per i diritti umani in Cina, lanciata in occasione delle Olimpiadi di Pechino del 2008), i due fotografi hanno fermato infatti una realtà diversa (la prostituta cinese nelle strade di Lhasa, o il gruppo di contadini che lavora un terreno abbandonato, in un’area in via di riqualificazione di Guangzhou dove, a ridosso di campi incolti, sorge il nuovo distretto finanziario della città) e ci suggeriscono una contrapposizione meno rigida, un intreccio tra dinamismo e staticità, tra arcaismi e modernità che percorre entrambi i grandi Paesi. Certo, le immagini del Tibet si soffermano più a lungo su monaci e monasteri, su paesaggi sconfinati in cui si aggirano pastori nomadi, uomini, donne e bambini fatti piccoli, piccolissimi dalla maestosità di quei territori; quelle della Cina inseguono le gigantesche infrastrutture (ponti, autostrade, il treno ad alta velocità Maglev a levitazione magnetica), i nuovi centri commerciali, i simboli di uno stile di vita totalmente occidentalizzato (la Ferrari, gli aperitivi al bar ...). Pure, scorrendo tutte le pagine del libro, l’impressione più forte è che entrambe le realtà siano state scavate nel profondo delle loro identità dall’affermazione prorompente di un mercato, siano state scaraventate in una spirale di consumi, di mode, di comportamenti in cui bruciano, come in un falò, tutte le vecchie tradizioni, le antiche frugalità contadine, quasi che l’antica frattura tra nomadi e sedentari si ricomponga e si annulli nell’abbraccio con la contemporaneità. Così, alla fine, l’immagine con cui il libro si chiude (una donna tibetana che, a Lhasa, affida al vento le sue preghiere) sembra una sorta di congedo, velato di mestizia come se quel vento stia per portarsi via un mondo e una storia." (da Giovanni De Luna, Un filo rosso fra Cina e Tibet, "TuttoLibri", "La Stampa", 22/11/'08)

lunedì 24 novembre 2008

Chicago di Alaa al Aswany


"Dove non c'è libertà, sono spesso le opere letterarie a fare le veci del dibattito politico. I loro autori diventano dei simboli e la notorietà, locale e internazionale, che si sono guadagnati con i loro romanzi consente loro di dire cose scomode anche al di fuori del campo artistico. Nel mondo arabo il caso più recente e noto è quello dell'egiziano 'Ala a-Aswani, già autore del romanzo Palazzo Yacoubian (Feltrinelli) che ha avuto enorme successo di pubblico (oltre 40 mila copie solo in Italia) e dal quale è stato tratto un film altrettanto fortunato. Figlio di una famiglia aperta e formatosi nell'Egitto pluriconfessionale dell'epoca nasseriana, dopo gli studi all'estero e pur continuando la sua professione di dentista, egli si fa interprete del proprio Paese e dei destini della sua gente con un'immediatezza straordinaria. Nel secondo romanzo, Chicago (uscito sempre da Feltrinelli lo scorso maggio), trasferisce l'azione nella comunità di emigrati che dalle sponde del Nilo si sono stabiliti nella capitale dell'Illinois (come anch'egli ha fatto in gioventù) per completare gli studi. Molti dei temi già presenti nel primo libro si ripropongono, come la povertà, la corruzione, i disordinati comportamenti sessuali dei protagonisti, sempre privi di una valutazione morale ... Il fine dell'autore è quello di osservare e di fornire al lettore uno specchio nel quale vedere riflessa l'immagine della realtà, dolente e contraddittoria, come già altri grandi narratori arabi hanno fatto prima di lui. L'ambientazione americana gli offre però l'occasione di trattare con ancor maggiore spregiudicatezza alcuni delicatissimi problemi. Una società viva non può prosperare se si rifiuta di affrontare le proprie contraddizioni, celandosi dietro una cortina di reticenze radicate in un'intricata commistione di timori, interessi e rimozioni. L'espressione artistica si conferma una delle strade ancora percorribili perché nello stagno dell'impasse in cui si dibatte gran parte del mondo arabo venga almeno gettato un sasso che stimoli consapevolezza, riflessione e autocritica. Ma come vediamo dal coraggioso articolo recentemente pubblicato da al-Aswani su un giornale del Cairo, l'impegno di questo autore nel denunciare i mali della propria società, va ben oltre la fiction letteraria. Parlare del velo serve soprattutto per non parlare d'altro, l'ipocrisia di questa devozione puramente formale viene additata senza mezzi termini come un rozzo alibi dietro il quale nascondere realtà imbarazzanti. Non potendo più nascondere le notizie, può risultare molto comodo diffondere un senso di rassegnazione basato sul fatalistico abbandono alla volontà divina. Non significa banalmente riproporre lo slogan marxiano che bollava la religione come 'oppio dei popoli', ma smascherare la falsa coscienza con cui si continua a predicare bene e razzolare male: vizio antico dell'umanità, certamente, e difficile da estirpare, che se però è perpetuato in nome di Dio risulta ancora più sconcio, scandaloso e francamnete ributtante." (da Paolo Branca, L'ipocrisia dietro il velo, "Il Sole 24 Ore Domenica", 23/111/'08)
"Alaa Al Aswany: Why I Write" (da GuardianBooks)
"Where Alaa Al Aswany Is Writing From" (da NYTimesMagazine)

Evasori. Chi. Come. Quanto. L'inchiesta sull'evasione fiscale di Roberto Ippolito


"Un'evasione fiscale da record mondiale, che le stime più attendibili quantificano in almeno 100 miliardi l'anno. È la vera questione irrisolta, parte costitutiva e persistente dell'anomalia italiana, il vero macigno che pesa sul futuro delle nuove generazioni. Fenomeno tristemente noto, ampiamente documentato e scandagliato, e che ora ci viene riproposto grazie alla minuziosa inchiesta condotta da Roberto Ippolito, responsabile delle relazioni esterne della Luiss, nel libro Evasori, chi, come, quanto, pubblicato da Bompiani. Ne hanno discusso ieri sera al Tempio di Adriano in Piazza di Pietra, in occasione della presentazione del volume, Enrico Letta, ministro ombra del Pd, e il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti. 'Insieme al debito pubblico – ha osservato Letta – l'evasione è la vera zavorra che pesa sul nostro Paese, che ci impedisce di correre'. Del resto, la lotta all'evasione non può essere affrontata 'in modo diverso a seconda di chi è chiamato a governare. Avviene da noi, ma siamo gli unici al mondo. Una delle strade da percorrere è quella di provocare i conflitti di interesse in settori nodali, e ad alto tasso di evasione, come quello delle compravendite di immobili'.
L'aspetto più preoccupante della questione fiscale – ha aggiunto Angeletti – è il 'substrato culturale. L'aggettivo furbo è spesso vissuto dai cittadini italiani con ammirazione'. Il fenomeno dell'evasione va dunque visto all'interno del rapporto tra i cittadini e la cosa pubblica, e 'le classi dirigenti hanno una responsabilità molto seria ed estesa'. L'italica virtù si esercita con buona dose di inventiva nell'individuare, scovare, praticare forme di evasione ed elusione, scappatoie di ogni tipo 'incoraggiate' dalla pressochè totale assenza di un sano controllo sociale. Ne emerge un campionario surreale di giochi di prestigio e trucchi diffusi un po' ovunque, regione per regione. Del resto se la probabilità di subire un controllo fiscale è percepita come remota, non può che alimentarsi quella sorta di 'moltiplicatore sociale' dell'evasione, basato sull'emulazione di cui parlano Giulio Zanella e Roberto Galbiati ('se lo fa il tuo vicino ti senti quasi in dovere di farlo anche tu'). E così, scorrendo le pagine del libro, si apprende che nella provincia di Perugia vi sono 30.480 automobili di grossa cilindrata. Poco male, si potrebbe obiettare, vuol dire che in questa parte d'Italia si vive più che bene. Peccato che solo 2.271 contribuenti dichiarano al fisco un reddito superiore ai 100 mila euro. E gli altri? 'Dichiarano' – abbiamo infatti premesso – il resto va ad alimentare quell'immensa zona grigia, in cui accanto a piccole e grandi fughe dagli obblighi fiscali emergono redditi completamente occultati al fisco, realtà economiche che proliferano all'ombra del sommerso. Vizio atavico, l'equivalente sul piano fiscale della percezione che l'italiano medio ha dello Stato, altro da sé, entità sprecona e inefficiente, che restituisce servizi di modesta qualità, e che dunque va contrastata con scappatoie e sotterfugi di ogni tipo. Del resto – ricorda Ippolito – ci sarebbero duemila anni di storia da cancellare: dalla caduta dell'impero romano alla fondazione dell'Italia moderna nel 1860, l'Italia è stata occupata da arabi, austriaci, francesi e spagnoli. Eludere le tasse è stata una sorta di 'resistenza sociale'. Già, ma oggi? È da tempo, per fortuna, che non siamo occupati da potenze straniere! L'alta evasione fiscale – è noto – finisce per pesare soprattutto su chi le tassa le paga per intero. Ippolito cita una recente analisi del Centro studi di Confindustria, effettuata rielaborando i dati dell'Agenzia delle Entrate. Emerge che 'per chi fa correttamente il proprio dovere la pressione fiscale reale è pari al 51,8% nel 2008'. In sostanza un prelievo da Paesi nordici, in cambio però di servizi ben più scadenti. 'Resta la sensazione – si legge nel libro – che non solo tra i campioni olimpionici, ma anche all'interno di tutta la società, sia piuttosto scarsa la consapevolezza del perché si pagano le tasse'." (da Dino Pesole, La vera zavorra? E' l'evasione, "Il Sole 24 Ore", 21/11/'08)

Il Signore è grande e non si può disegnare (perché nel foglio non ci sta)


"Del sesso degli angeli si discute da sempre, per quanto invano. Ma il discorso non si ferma certo lì, anzi. Le grandi religioni monoteistiche si sono costruite
un’idea al maschile di Dio, però a tratti fa capolino anche il volto che ne rispecchia l’altra metà del cielo. Nella Bibbia ebraica, ad esempio, il Signore ha un nome impronunciabile, ma quando si avvicina alla terra diventa una parola femminile, Shekhinah. Dal testo sacro in poi, è padre. Ma anche madre, ogni tanto. E se non fosse invece né l’uno né l’altra? Nessuno aveva mai ventilato, sino ad ora, l’ipotesi di un Dio bambino, fanciullo. Ci ha pensato per tutti noi Susanna, prima elementare: 'Secondo me c’erano due mani nell’universo. Allora Dio ha preso due pianeti li ha uniti e così si è fatto da solo», come a dire che l’Eterno non è mica tanto più vecchio di noi bambini, anzi. E’ questa la confortante sensazione che accompagna la lettura de Il Signore è grande e non si può disegnare (perché nel foglio non ci sta) di Gualtiero Peirce (in uscita per Einaudi Stile Libero). Giornalista, autore e regista, Peirce ha trascorso giorni e giorni ad ascoltare gli alunni di tre scuole confessionali di Roma - una ebraica, l'altra cattolica e la terza islamica - mentre, insieme a maestre ed educatori, discorrevano dei massimi sistemi. E’ rimasto buono e zitto a sentire, Pierce, come i pali neri per le luci della ripresa televisiva. Ha imparato un sacco di cose su Dio e i bambini. Sul fatto che, perché no, Dio potrebbe essere anche un po’ bambino. Questa ipotesi diventa quasi una certezza di fronte alla confidenza e alla spontaneità con cui i bambini parlano di Lui. Teologi e atei professionisti avranno sicuramente una risposta per ciascuno, a tale questione: gli uni diranno che Dio è inciso nei nostri cuori, e per questo lo capiamo sin da piccoli. Gli atei incalliti rideranno sotto i baffi, perché la religione per loro è una bubbola buona giusto per l’infanzia. Probabilmente, proveranno entrambi un po’ di invidia per questa confidenza che i bambini, ebrei, cattolici o musulmani che siano, hanno con quel Dio che gli uni asseriscono e gli altri negano. Mentre il lettore curioso, possibilmente vaccinato contro pregiudizi di sorta e assestato su una salutare disposizione all’ascolto - proprio come quella di Peirce - , troverà in queste pagine materia di sorriso e riflessione, di divertimento e conoscenza. Le ore scolastiche di cui qui si fa una sorta di affettuoso verbale, infatti, sono quasi il contrario di quel che normalmente s’intende per 'lezione di religione'. Invece di dogmi, regnano dubbi e domande. Invece di una verità assodata, si impartisce la libertà di pensare ed esprimere. E’ lecito pensare che non sempre nelle nostre scuole si parli di Dio in questo confortante modo, ma qui è così: i bambini indagano sul perdono e la bontà, sul male e la legge. Sull’amore, persino, e sentire i bambini parlare di amore è sempre istruttivo. 'Tasnim sta riflettendo, non smette mai di farlo. Alza la mano. - Allora … quando amo Dio è una cosa bella. Ma anche quando ho paura di Dio è una cosa bella?'. La cosa bella, qui, è che se non ci si guarda bene intorno nella pagina, risulta praticamente impossibile capire dove siamo. Se nella scuola ebraica, in quella cattolica o in quella islamica, s’intende. I nomi dei bambini aiutano, ma non sempre. Loro, invece, che siano ebrei, cattolici o islamici, parlano un’unica lingua, in fatto di fede. Una lingua naturale e fors’anche ingenua. Ma mai disarmante quando pone le domande, mai arresa all’evidenza di ciò che noi adulti diamo purtroppo per scontato. Una lingua, insomma, che gli adulti farebbero bene a non dimenticare." (da Elena Loewenthal, Né padre né madre: e se Dio fosse un fanciullo?, "TuttoLIbri", "La Stampa", 22/11/'08)

La lunga attesa dell'angelo di Melania Mazzucco


"Melania Mazzucco ha scritto con La lunga attesa dell’angelo un seducente romanzo storico, dove la realtà e l’invenzione, che sono gli ingredienti canonici del genere, si confrontano all’interno dello stesso protagonista. E questo si chiama Jacopo Robusti, il Tintoretto, di cui il romanzo può anche essere definito la biografia. E’ lo stesso artista a raccontarsi, inchiodato al letto, nei quindici giorni di febbre - quasi stazioni di una Via Crucis - che precedono la sua morte, avvenuta nel maggio del 1594. Si tratta anzi di una confessione, come indica la ricorrente invocazione, la chiamata a testimone e perfino il sofferto contenzioso, con il Signore. Due sono i poli d’interesse che sollecitano la memoria di Tintoretto: la pittura e la numerosa famiglia. Si stampano nitide sullo sfondo della Venezia cinquecentesca, ricostruita nel suo vivido brulichìo - il fasto principesco e mercantile, la poveraglia rissosa e festante - con una aderenza che, per essere documentatissima, non è meno appassionata e affascinata. Tintoretto è tutto preso dall’arte, per acquistare stima e risonanza deve combattere con le ristrettezze del suo rango e l’ombra immane di Tiziano, senza venire meno a un temperamento indocile, alieno dai compromessi. La guerra contro i Turchi, la peste, l’impressionante incendio di Palazzo Ducale non intaccano la sua dedizione strenua al lavoro. Che si riverbera in modo contrastante, positivo e negativo, sui familiari. Due dei figli si ribelleranno con esiti dolorosi alla tirannia paterna, soltanto il remissivo Dominico raccoglierà la sua eredità, pur sapendo di non poterlo mai eguagliare. Quattro delle femmine sono costrette a monacarsi, non la figlia naturale Marietta, che diventa la deuteragonista del romanzo. Impone caparbiamente la sua presenza nella bottega, prima adoperandosi come garzone poi cimentandosi con la tela e il colore, fino a impadronirsi brillantemente del mestiere. Per superare i pregiudizi del temposi taglia i capelli a zazzera e si veste come un maschio. Diventa la prediletta del padre ma dall’ammirazione reciproca sprizza una amorosa scintilla che li avvince. Ed è qui che, al di là delle possibili insinuazioni delle fonti documentarie, scatta l’invenzione di Melania Mazzucco. Marietta diventa per Tintoretto una vera e propria ossessione, fonte di estatico turbamento. E’ l’angelo lungamente atteso, al quale sembra accennare il fantoccio alato appeso al soffitto che gli è servito da modello per le sue creazioni. Si compiace di ravvisare nel volto di lei qualche suo tratto, salvo augurarsi in altri momenti di riscontrarne una rassicurante estraneità. E’ un ingorgo che Tintoretto si risolve a superare imponendo alla ragazza il matrimonio, che risulterà freddo, con un gioielliere tedesco. Ma l’ombra dell’incesto appare di per sé scongiurata dall’assunzione di quel rapporto in una forma di amore assoluto, totalizzante. Che assume in Marietta una forza particolarmente rapinosa. Come riconosce il padre nei suoi vaneggiamenti: 'Non posso cercarla nei suoi quadri, perché li ha fatti alla maniera di me - per essere me. All’inizio gliel’ho chiesto io, poi glielo hanno chiesto i clienti, alla fine lo ha chiesto lei a se stessa'. Marietta, che pure ha avuto apprezzamenti principeschi, ha deciso di sublimare la sua passione annullandosi come pittrice, rinunciando infine al pennello. E’ un sacrificio che sembra vanificato, e reso tanto più doloroso, dalla morte straziante di un figlioletto che Marietta aveva generato idealmente per lui, per dare continuità di sangue e di viscere al suo inalterato affetto. 'La passione per la vittoria - può concludere amaramente Tintoretto - ha dominato la mia infanzia, illuminato la mia adolescenza, guidato la mia maturità. Ma ormai solo la sconfitta mi appassiona, Signore. Solo a essa riconosco grandezza e nobiltà. La sconfitta degli uomini e la tua'. Dove si allude agli straordinari teleri, alla struggente Crocifissione della Scuola di San Rocco.
Melania Mazzucco racconta di essersi imbattuta e familiarizzata con Tintoretto osservando la presentazione della Vergine al Tempio che si trova nella chiesa veneziana della Madonna dell’Orto, ammirando la fanciulla radiosa - ipotetica Marietta - che si incammina verso la lunga scalinata. Anche a noi è dato di incontrarlo in modo nuovo, di appagarci della sua arte e della sua umanità, leggendo questo libro. Dove colpisce il ricorso a una lingua che riesce a contemperare l’alto e il basso, la sapienza di una struttura che, superato il primo impaccio, ci cattura nel febbrile andirivieni del tempo e dello spazio, nei sottili raccordi evocativi, ritmati dai soprassalti della mente e della coscienza" (da Lorenzo Mondo, E Marietta fece arrossire Tintoretto, "TuttoLibri", "La Stampa", 22/11/'08)

sabato 22 novembre 2008

Venuto al mondo di Margaret Mazzantini


"Nel suo Ricordo di Lampedusa, il critico Francesco Orlando rammentava la bipartizione fatta propria dall'autore del Gattopardo, secondo il quale esistono due tipologie di scrittori: i 'grassi' e i 'magri'. C'è chi esplicita per filo e per segno 'tutti gli aspetti e tutte le sfumature' del proprio racconto. E chi invece procede per sottrazione, fidando soprattutto sull'implicito, il non detto. 'Grassi' sono Balzac, Thomas Mann, Proust; 'magri', Racine, Stendhal, Gide. E già citando tali colossi si intuisce come questa 'semischerzosa' classificazione non alluda ad alcun criterio di valore, ma sia piuttosto un'indicazione empirica. Per rimanere nel gioco, mi è venuto da pensare che il nuovo, fluviale romanzo di Margaret Mazzantini, Venuto al mondo (Mondadori), potrebbe rientrare nella tipologia capitanata da Balzac. Non solo e non tanto per la sua dimensione (più di cinquecento apgine), ma prima ancora per la dichiarata vastità dei temi trattati e per la scritura che li sostiene. Il libro, potente e temerario, racconta delle cose ultime e solo di quelle: la vita e la morte, la pace e la guerra. E lo fa animato da una lingua turgida, in uno stato di costante fibrillazione, che si alimneta di un flusso ininterrotto di immagini e riflessioni e metafore, in un crescendo di eccitazione attorno a eventi terrificanti. [...]" (da Franco Marcoaldi, Di dolore in dolore, "La Repubblica", 22/11/'08)

venerdì 21 novembre 2008

Zygmunt Bauman: un'agenda per il pianeta


"'Lo Stato sociale è finito, è ora di costruire il Pianeta sociale'. Solo così, spiega Zygmunt Bauman, si potrà uscire dalla crisi globale che il mondo contemporaneo sta vivendo. La politica deve avere la forza di reinventarsi su scala planetaria per affrontare l'emergenza ambientale o il divario crescente tra ricchi e poveri. Altrimenti è condannato alla marginalità in una dimensione locale, con strumenti obsoleti adatti a un mondo che non esiste più. L'inventore della 'società liquida' non crede in una capacità di autoriforma della politica, 'meglio costruire un'opinione pubblica globale e affidarsi a organizzazioni cosmopolite, extraterritoriali e non governative'. I nostri politici ce la faranno a cambiare paradigma, passando dal locale al globale? ' Io non conterei molto sui governi - di nessun paese, piccolo o grande che sia - e ancor meno sui loro tentativi di collaborazione, che finiscono regolarmente in una poesia di nobili intenzioni piuttosto che in una prosa di concreta realtà. I poteri che decidono della qualità della vita umana e del futuro del pianeta sono oggi globali e dunque, dal punto di vista dei governi, sono extraterritoriali ed esenti dalla loro sovranità locale. Finché non innalziamo la politica ai livelli ormai raggiunti dal potere, le probabilità di arrestare gli sviluppi catastrofici cui stiamo conducendo la nostra vita sul pianeta sono, quantomeno, scarse'. [...] La globalizzazione cancella anche lo Stato sociale. Professor Bauman, non lascia speranza per un briciolo di giustizia e di eguaglianza nel mondo del XXI secolo? 'Non esiste una maniera adeguata attraverso la quale uno solo o più Stati territoriali insieme possano tirarsi fuori dalla logica di interdipendenza dell'umanità. Lo Stato sociale non costituisce più una valida alternativa: soltanto un 'Pianeta sociale' potrebbe recuperare quelle funzioni che, non molto tempo fa, lo Stato cercava di svolgere, con fortune alterne. Credo che ciò può essere in grado di veicolarci verso questo immaginario 'Pianeta sociale' non siano gli Stati territoriali e sovrani, ma piuttosto le organizzazioni e le associazioni extra-territoriali, cosmopolite e non-governative, tali da raggiungere in maniera diretta chi si trova in una condizione di bisogno, sorvolando le competenze dei governi locali e sovrani e impedendogli di interferire'." (da Alessandro Lanni, Un'agenda per il pianeta, "La Repubblica", 21/11/'08)

giovedì 20 novembre 2008

Festa italiana alla fiera del libro di Guadalajara


"Proprio mentre la letteratura messicana ricompare all'orizzonte dell'editoria internazionale grazie alla penna di piccoli, nuovi, talenti (Sandra Cisneros, autrice di Caramelo, Salvador Plascencia che ha scritto Gente di Carta, Luis Alberto Urrea con il suo L'Autostrada del diavolo), a Guadalajara, per la prossima Fiera del libro, si prepara una festa tutta italiana. L'Italia è ospite d'onore alla ventiduesima edizione del più importante evento editoriale in lingua spagnola nel mondo: un invito che rinsalda i rapporti con tutti i paesi ispanici del continente americano e offre al nostro paese l'opportunità di mostrare il meglio della propria produzione artistica e culturale. Soprattutto in ambito editoriale: in quest'occasione il libro sarà veicolo di una nuova politica culturale, un innovativo strumento di diplomazia. Così i Ministeri degli Esteri, dei Beni culturali, dello Sviluppo economico, insieme all'Istituto per il commercio estero e l'Associazione italiana degli editori hanno messo a punto un fitto programma che nei nove giorni della manifestazione, a partire dal 29 novembre, mostrerà l'essenza del Belpaese: 'Per il mondo intero non siamo altro che cultura, i padri della modernità occidentale', sottolinea Federico Motta, presidente dell'Aie. L'invito è stato accolto con entusiasmo e interesse: il 7% del totale della cessione di diritti da parte di case editrici italiane interessa il Centro e il Sud America, pari al 30% dei contratti verso editori extraeuropei. In Messico sono in aumento le traduzioni di libri italiani e pure le tirature, nonostante manchi un rapporto diretto con il paese sudamericano. Gli scambi editoriali, traduzioni comprese, passano attraverso la Spagna. L'obiettivo è di penetrare direttamente nel mercato latinoamericano anche con la creazione di joint venture fra case editrici italiane e società editoriali locali. Libri principalmente, ma anche musica, arte, spettacolo, cinema, design. Per rivelarsi a un pubblico così vasto "Italia e italianidad" vanno sul sicuro. Si ispira a Calvino e alle sue città invisibili il percorso letterario che guida i visitatori attraverso le direttrici della memoria, degli scambi, degli occhi, del desiderio: incontri, convegni, dialoghi, reading animati da narratori, poeti, filosofi, storici come Niccolò Ammaniti, Maurizio Cucchi, Vincenzo Cerami, Paolo Giordano, Melania Mazzucco, Valerio Magrelli, Elisabetta Rasy, Sandro Veronesi, Beppe Severgnini. Realizzato dall'Ice, come gli antichi campi Maya e Atztechi del "Juego de la pelota", il padiglione Italia presenterà anche interessanti percorsi espositivi, curati dalla Direzione per la promozione e la cooperazione culturale della Farnesina, per offrire attraverso la pittura un assaggio della nostra multiforme creatività: dalla Madonna con Bambino di Paolo Veneziano del 1357 fino agli artisti contemporanei, come quelli della mostra Cento opere della collezione Farnesina firmate da Carla Accardi, Mimmo Paladino, Sandro Chia. Italiaidea parte invece dalle radici storiche della creatività e dell'imprenditorialità made in Italy per presentare in chiave multimediale l'eccellenza italiana nel design come nella comunicazione, nella moda, nella tecnologia. Musica italiana con i nuovi talenti del jazz (Paolo Fresu), con i miti delle orchestre popolari (Renzo Arbore, Ambrogio Sparagna) con Daniele Silvestri, Carmen Consoli e Marina Rei. E cinema. in programma film tratti da libri di grande successo: Caos Calmo, Gomorra, La bestia nel cuore." (da Donata Marrazzo, Festa italiana alla fiera del libro di Guadalajara, "Il Sole 24 Ore", 14/11/'08)

Online Europeana, la Babele Ue. Una biblioteca da due milioni di libri


"Microsoft si ispirava alla biblioteca di Alessandria, ma fallì. L'Unione europea si rifà invece alla Biblioteca di Babele di Borges. E lancia la sfida ai grandi dell'informatica, Google in testa: mettere insieme il sapere custodito dalle biblioteche di tutta Europa nel pieno rispetto dei diritti d'autore e sfruttando le potenzialità di Internet. Nasce così Europeana, la biblioteca online di Bruxelles che da domani sarà liberamente accessibile a studenti, ricercatori, professori e semplici amanti di letteratura e arte. Perché Europeana non conterrà solo libri, ma anche musica e quadri. Una vera e propria sfida al mastondontico progetto di Google di raccogliere tutto il sapere dell'umanità. Si comincia, dunque, domani con circa due milioni di opere, tra cui la Divina Commedia, i manoscritti e le registrazioni di Beethoven, Mozart, i quadri di Vermeer, la Magna Charta e le immagini della caduta del muro di Berlino. Ma anche opere altrimenti introvabili, perché custodite in diversi musei del Vecchio Contiente. Come il Codice Sinaitico, antichissima traduzione in greco dell'Antico e del Nuovo Testamento oggi sparpagliato in quattro diverse bilbioteche: ebbene per la prima volta sarà liberamente consultabile nella sua versione integrale. Grazie a Internet e alle tecniche di digitalizzazione, 'uno studente italiano potrà consultare le opere della British Library senza andare a Londra', ha detto a Repubblica Viviane Reding, commissario Ue responsabile del progetto. 'E' un sogno antico che diventa reale - ha aggiunto - chiunque può avere libero accesso alla nostra cultura, l'eredità che accomuna ogni europeo'. 'Se un taxista di Roma - spiega Reding - sente casualmente in radio un brano di Chopin può andare su Europeana e capire chi era l'autore, leggere le sue lettere d'amore, vedere la casa dove viveva quando ha composto l'opera e vedere gli spartiti originali'. Così come uno studente, o un esperto, può guardare le mappe dei Conquistadores o scoprire le diverse espressioni dell'art nouveau nelle varie città d'Europa. L'obiettivo è di arrivare a 10 milioni di opere entro il 2010. Significherebbe superare Google Book Search, lanciato nel 2004, che oggi conta circa 7 milioni di volumi più una vasta serie di cause per la violazione dei diritti d'autore. Ma la Ue vorrebbe aggirare l'ostacolo ottenendo il copyright dagli enti e dagli istituti europei che lo hanno già acquistato per sé. E il compito più arduo sarà proprio la digitalizzazione dei testi, un'impresa che portò la Microsoft ad abbandonare il suo progetto di biblioteca alessandrina in formato Pdf lanciato nel 2006. In un anno e mezzo il colosso di Bill Gates aveva importato in formato elettronico solo 750.000 volumi. Ma la Ue non si scoraggia: 'Abbiamo dei progetti pilota per accelerare la copia in digitale e un nuovo traduttore automatico', spiega la Reding. Che si richiama alla Biblioteca di Babele: 'Nel racconto di Borges la gente impazziva perché si trovava di fronte ad una infinità di lingue e contenuti. Noi facciamo il contrario: selezioniamo il materiale giusto, lo ordiniamo e lo corrediamo di critica e interpretazione certificata dai massimi studiosi del Continente'. Insomma, niente a che vedere con il normale caos delle ricerche su Internet e con le spiegazioni spesso date da esperti improvvisati." (da Alberto D'Argenio, Online Europeana, la Babele Ue. Una biblioteca da due milioni di libri, "La Repubblica", 19/11/'08)

lunedì 17 novembre 2008

Storia del riso, quando il teatro incontra la cucina


Venerdì 21 novembre alle ore 21.15 presso la Biblioteca civica "Mino Milani" di Garlasco, incontro con Francesco Mastrandrea. Il teatro è servito. Quando il teatro incontra la cucina. STORIA DEL RISO: serata dedicata all'alimento più conosciuto e consumato dall'umanità, il riso. La storia, il mito, le leggende, la lunga marcia dall'Estremo Oriente. Storie di monda e di mondariso.

La difesa della razza. Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista di Francesco Cassata


"Fu una settimana terribile, quella che trascorse fra il 10 e il 17 novembre di settant'anni fa. Per gli ebrei, ma forse ancora prima per l'Europa tutta e quell'idea di civiltà che il Vecchio Continente s'era fatto, lungo un cammino di millenni. Fra il 9 e il 10 novembre del 1938 la Notte dei Cristalli in Germania fece quasi cento vittime, rase al suolo centinaia di sinagoghe e distrusse migliaia di negozi. Qualche giorno dopo, proprio il 17 di novembre, in Italia entrano in vigore nella loro interezza le leggi razziali. Ma quella buia settimana non fu solo una casuale coincidenza sfavorevole, un incrocio di episodi nefasti. Quei due eventi erano carichi di conseguenze ma anche di radici. Fanno parte della storia ebraica, ovviamente, perché i figli d'Israele ne sono chiamati in causa come vittime designate. Ma fanno soprattutto parte della storia d'Europa. Di tutti. A settant'anni di distanza, quella vicenda così violenta sembra remota. Le commemorazioni, del resto, paiono fatte apposta per allungare il passo dallo scenario evocato, rendono tutto un po' astratto. Eppure, nel panorama geografico e culturale dell'Europa, quel passato è ancora presente. Brucia, eccome. Forse proprio i libri sono il modo migliore per calibrare distanze, ragionarci su. Partendo da lontano, come fa Francesco Cassata, un giovane storico torinese, in La difesa della razza. Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista (Einaudi). Si tratta di un ampio saggio dedicato alla rivista 'promotrice' di quella pulizia etnica che fu la ragion d'essere delle leggi razziali, e che uscì dall'agosto del 1938 fino al giugno del 1943. Lo studio ripercorre la vita di questo periodico e i suoi rapporti con il potere, presenta le firme che 'contribuirono' alla battaglia dichiarata nel titolo. E' un lavoro di grande interesse. Mentre Cassata propone un'interpretazione del fenomeno storico attraverso l'analisi di un caso specifico, Simon Levis Sullam in L'archivio antiebraico. Il linguaggio dell'antisemitismo moderno (Laterza) tenta un'analisi generale, non tanto dei fatti, quanto di ordine 'filologico' e lessicale. Anche in questo caso, gli spunti di riflessione sono notevoli. Da una sponda all'altra di questa storia, in Testimoni del non-provato. Ricordare, pensare e immaginare la Shoah nella terza generazione (Carocci) Raffaella di Castro (formazione filosofica) prova a declinare l'appartenenza 'riflessa' dei figli dei sopravvissuti. E' un testo interessante anche questo, denso di materiali e pensieri. Solo un po' cauto nell'esporre se stessi, il proprio vissuto con il suo non detto, travolto da troppa bibliografia." (da Elena Loewenthal, Settant'anni fa le leggi razziali, "TuttoLibri", "La Stampa", 15/11/'08)

Il concerto dei pesci di Halldor Laxness


"Nella mia testa l'Islanda è un luogo letterario. Ha cominciato Leopardi a farne la patria del suo infelice interlocutore con la natura, poi è stata la volta delle saghe con un repertorio di personaggi di grande suggestione, e infine gli scrittori del '900, da Gudmundsson a Laxness, a Bill Holm. Quest'ultimo, radici islandesi e nascita americana, ha dedicato all'isola dei ghiacci un capitolo di un suo libro Isole, tradotto da Guanda nel 2002: ne esce il quadro attraente di un tenace, ruvido mondo di qualità. Tale universo isolato e battagliero è oggi individuato come il 'canarino delle miniere' relativamente alla crisi economica che sconvolge il mondo. La definizione, che ricopio pari pari da un giornale, mi sembra a sua volta suggestiva, in linea con l'idea letteraria che continuo a farmi del paese nato da una costola della Scandinavia e diventato uno stato dall'invidiabile qualità di vita; almeno fino a quando la tempesta magnetica della finanza l'ha squassata più delle tante scosse di terremoto che periodicamente allargano il paese di qualche millimetro. Non so come sia l'islandese di oggi, se e quanto omologato al sistema mondo, se corrisponda più all'idea che ne ho tratto dai romanzi di una letteratura tra le più interessanti in cui mi sia imbattuta. Se devo dare credito a Holm, questa società è così anticamente democratica da dare dei punti alla civiltà ateniese; radunava infatti a Pingvellir, la Piana del Parlamento, cinquanta chilometri a Est di Reykjavìk, un popolo meno discriminato dei concittadini di Pericle; le donne per esempio, qui mai emarginate. È la prima storia d'Islanda, nata nel 900 e fatta di pochi emigranti dalla Norvegia che hanno azzardato qui un insediamento su cui non ci sarebbe stato molto da scommettere.
Ma parliamo anche delle figure che popolano la storia letteraria del secolo scorso, quelli su cui Laxness, l'autore maggiore in questa lingua, ha cesellato il capolavoro Gente indipendente e il successivo Il concerto dei pesci. Le invenzioni dello scrittore, premio Nobel nel 1955, sono lo specchio di una cultura del narrare di bel respiro, che non appartiene solo a pochi intellettuali, è piuttosto un patrimonio condiviso. Dobbiamo pensare alla tradizione dei rimatori toscani che si cimentavano in gare in rima per trovare una affinità di passione e abilità. Su un terreno così fertile la qualità più alta fameno fatica a sbocciare e ancor meno ad essere riconosciuta. Quando, nel 1998, morì Laxness novantaseienne, lo pianse l'isola intera e gli rese omaggio trasmettendo alla radio il suo capolavoro letto dall'attore Arnar Jonson. Così, osserva Holm, si celebrarono insieme le prime caratteristiche di questo popolo: scrivere storie e ascoltarle. È davvero una questione di silenzio e una condizione di silenzio ad aver permesso la nascita del racconto nella forma che assume dal tempo della tradizione scaldica fino a oggi, o dovrei dire ieri, perché anche qui qualche autore dell'ultima generazione scrive e soprattutto pensa in inglese piuttosto che in islandese, e questo cambia le carte in tavola. Più facile per noi l'orientamento, certo, ma quanto meno denso e intenso il viaggio! Penso a Laxness: c'è da spaesarsi nei suoi romanzi, di che perdere il filo, e nondimeno ci si affeziona a un linguaggio che risveglia la potenza dell'epos e conosce il disincanto della modernità. E penso al romanzo pubblicato quest'anno da Iperborea, Il concerto dei pesci. Impossibile leggerlo e non domandarsi: dove mi sta portando? Eppure lo si segue nel concertato a due voci soliste e coro che racconta in rapsodia la storia di una casa alla periferia di Reykjavìk, della strana gente che la abita e che transita di lì, dell'educazione morale e musicale di un ragazzo alla ricerca della nota pura, della misteriosa personalità del cantante lirico diventato famoso nel mondo, mentre la sua patria si raccoglie nell'attesa vana del ritorno del grande figlio. Dentro questo romanzo c'è l'Islanda che racconta e ascolta, c'è il passato su cui si è depositato il presente senza schiacciarlo. Questo fino a ieri." (da Marta Morazzoni, Isola di ghiacci nella tempesta della finanza, "TuttoLibri", "La Stampa", 15/11/'08)

Il gioco dell'angelo di Carlo Ruiz Zafon


"Ecco due romanzi, profondamente diversi tra di loro che, rappresentano, entrambi, tuttavia, due aspetti della grande vitalità della narrativa e, diciamo pure, dell'editoria spagnola di oggi: si tratta di Il vento della luna di Antonio Muñoz Molina e di Il gioco dell'angelo di Carlos Ruiz Zafón. Muñoz Molina, nato nel 1956 a Úbeda, nella provincia andalusa, è scrittore di vari e vivaci interessi: ben noto per alcuni dei suoi romanzi precedenti quali Beltenebros e, soprattutto Sefarad, ha diretto per due anni l'Istituto Cervantes di New York, collabora regolarmente da alcuni mesi al supplemento letterario di El País, Babelia, e dal 1995 è membro della Real Academia Española. Fu soprattutto Sefarad a rivelare quello che il grande critico Claudio Guillén, deceduto l'anno passato, indicò come sua caratteristica principale, vale a dire 'l'angoscia dello spaesamento'. In Sefarad era tutta la storia del ventesimo secolo a mostrarci l'estraneità e l'alienazione degli esseri umani di fronte alla propria vita. Qui, ne Il vento della luna, il campo visivo sembra molto più ristretto e, tuttavia, non esiterei a dire che è altrettanto profondo. In apparenza, c'è soltanto un adolescente di famiglia contadina, nella Spagna ancora franchista: nel fatidico 20 luglio 1969, egli si immedesima totalmente nella missione dell'Apollo 11, quando l'uomo posa per la prima volta il piede sulla Luna. La grande trovata del libro sta nello scarto tra la famiglia che circonda il ragazzo, ancora radicata nella sua povertà, ma anche nella ricchezza della sua saggezza, e le fantasie di un'adolescenza lanciata sulla venerazione per i libri di avventura e la trepidazione per il rivelarsi dell'incognito. In questo scarto, attraverso ritratti, allusioni, salti temporali, Muñoz Molina riesce a includere tutto: non solo la sua passione personale per la cultura, che lo porterà così avanti nella vita, ma una storia compressa, di pochi personaggi rivelatori della Spagna verso la fine del franchismo. Ed è questo, come sappiamo, uno dei grandi, ineludibili temi della narrativa e anche della vita spagnola.
Il protagonista de Il gioco dell'angelo è anch'esso giovane e vive in una Barcellona precedente al franchismo, già anticipata, però, dalla dittatura di Primo de Rivera. Alle spalle non ha famiglia: padre morto in circostanze misteriose, madre che non lo vuol conoscere. Anche lui nutre una grande passione per i libri e l'inizio delle sue mirabolanti avventure, in gran parte librarie, si trova proprio nella redazione di un giornale e nella benevolenza di un misterioso e pericoloso editore. Di libri aveva già parlato Carlos Ruiz Zafón nel suo super best-seller L'ombra del vento che, uscito nel 2004, ha venduto milioni di copie in tutto il mondo. Quest'ultimo romanzo, Il gioco dell'angelo, pubblicato nell'aprile di quest'anno in Spagna, nello scenario gotico del Liceo di Barcellona, non è né il presequel né la continuazione dell'altro. Tuttavia ha ottenuto quaranta traduzioni in cinquanta paesi diversi. Anche qui troviamo il Cimitero dei libri Dimenticati, anche qui i riferimenti sono alla maledizione di Faust e al romanzo gotico, anche qui si compie un bellissimo viaggio in una Barcellona affascinante e oscura. Ma qual è la chiave di tanto successo editoriale? E' mia impressione personale, e per questo certamente discutibile, che stia nel dono particolare che ha Zafón di far srotolare gli avvenimenti, attraverso dialoghi non particolarmente pregnanti, anzi semplici e, perciò, avvincenti. Sembra, qualche volta, che da cosa nasca cosa, da una morte nasca una vita, da un incontro nasca amore o morte, su uno sfondo misterioso si trovi una torre, oppure, in cima alle scale, ci possa essere il vuoto o un incendio. Il lettore è portato per mano, da rivelazione a rivelazione, un po' come al cinema, con la differenza che il libro e anche le testimonianze erudite sono lì in forma permanente a dare lo stesso piacevole senso di cultura e di novità che hanno oggi i tanti viaggi organizzati e che non rassomiglia assolutamente più alle emozioni del Grand Tour. Anche Il gioco dell'angelo rassomiglia al feuilleton, persino nelle sue ascendenze storiche di romanzo nero e di antecedenti dickensiani. Non a caso uno dei primi libri scritti dal protagonista si chiama I misteri di Barcellona. Ma l'abilità, assolutamente considerevole di Carlos Ruiz Zafón sta nell'adoperare tanti ingredienti da creare un vero e proprio romanzo popolare, sempre condito, però, amabilmente dalla soverchiante passione per i libri." (da Angela Bianchini, Tra angeli e lune, la Spagna spaesata, "TuttoLibri", "La Stampa", 15/11/'08)

sabato 15 novembre 2008

Orgoglio di classe di Margherita Oggero

"TuttoLibri" ("La Stampa", 15/11/'08)): anticipazione da Orgoglio di classe di Margherita Oggero (Mondadori)


"Primo giorno di scuola in una qualunque classe di prima media: per i professori è il giorno dell’esame. Ventitré, venticinque (a volte anche di più) preadolescenti che valutano lo sconosciuto che hanno di fronte non in base a quello che dice, ma secondo altri parametri che vanno dall’aspetto fisico e dall’abbigliamento (in una parola tanto di moda: dal look) sino al linguaggio non verbale, di cui sono acuti intenditori. Se il docente non è un figone abbronzato dai muscoli scolpiti, secondo la discutibile estetica del nostro tempo, se la docente non presenta i segni esteriori della contemporaneità - abbigliamento tutto firmato o del tutto smandrappato, almeno un tatuaggio in un punto visibile e/o un piercing - il giudizio immediato è che l’uno o l’altra sono davvero degli sfigati. Già lo sapevano prima, i ragazzini, perché nella percezione collettiva i prof sono figure tra il patetico e l’indisponente. Patetici, perché nessuno di loro ha un Suv, né una villa con piscina in Costa Smeralda; indisponenti perché cominceranno subito a pretendere questo e quello, a sciorinare affermazioni assurde, tipo che non si debbono passare troppe ore davanti alla tv, che non è il caso di smanettare tutto il pomeriggio sui videogiochi e poi, poveri fessi, vieteranno l’uso dei cellulari in classe. Divieto ridicolo, perché loro, i ragazzini, conoscono benissimo il modo di aggirarlo. Ma come mai questi ragazzini sono passati da una tiepida fiducia nei confronti del maestro a un atteggiamento di cinica e supponente indifferenza se non di vera insofferenza davanti ai professori? La preadolescenza e l’adolescenza sono età difficili e spesso dolorose, in cui l’incertezza su di sé e sulle proprie capacità, l’indeterminatezza dei progetti di vita, lo smarrimento di fronte alla caduta della rete infantile di protezioni generano un atteggiamento di strafottenza, di violenza verbale e gestuale, di diffuso rancore nei confronti degli adulti, percepiti come presenze ostili, come alieni cui nulla li lega. Lo sbozzolamento produce quasi sempre delle ferite che passano inavvertite anche agli occhi degli adulti più accorti e sensibili, e la fragilità, il senso di inadeguatezza si trasforma nell’arco di pochi mesi in aggressività immotivata o in rifiuto di comunicare. Silenzi cupi o infastiditi durante il pasto serale con i genitori, porte sbattute, gelosa difesa della propria privacy, disordine esibito come segno di autoaffermazione: tutto questo a casa. A scuola invece il bisogno di fare branco, di trovare un nemico contro cui misurarsi, o un capro espiatorio su cui esercitare la propria volontà di sopraffazione. Intanto la tempesta ormonale provoca sconquassi, con pulsioni spesso mal interpretate e gestite, con malesseri fisici inaspettati, mentre d’altro lato nascono le prime vere attrazioni sentimentali, che non sempre sono corrisposte. Le ragazzine che, fino a qualche decennio fa, erano più disponibili all’ascolto e più aperte dei coetanei maschi, hanno via via assunto atteggiamenti di spavalderia e aggressività sempre più marcati, sia nel linguaggio sia nel comportamento, tanto che oggi, come strascico negativo di un femminismo stravolto, il bullismo non è più una prerogativa prettamente maschile. In questo quadro complesso di trasformazioni, cui bisogna aggiungere la molteplicità di stimoli offerti dai media e i relativi bisogni indotti, il nuovo tipo di scuola, anziché incuriosire, viene respinto quasi a priori come una pizzosa perdita di tempo, come un impedimento alla libera realizzazione dei propri interessi e della propria personalità, come uno scotto da pagare all’assurda civiltà degli adulti. Allora è proprio qui che deve scattare l’orgoglio della professione, è nei confronti di questo segmento di umanità giovane e confusa e irrisolta e ostile ma potenzialmente 'catturabile' che le prof. e i prof. devono abbandonare gli atteggiamenti rinunciatari o di routine e rimettersi invece in gioco. [...]
In questo primo incontro-scontro con la classe ogni professore mette una pesante ipoteca - positiva o negativa - sull’efficacia del suo lavoro nell’anno in corso e nei due anni a venire: se riesce a essere coinvolgente e persuasivo, se riesce a dimostrare con le sue azioni che non è un nemico o un secondino, ma una guida autorevole, se ha la forza di scoraggiare subito ogni tracotanza, gli allievi finiranno con l’affidarsi a lui, percependo, magari in modo confuso e controvoglia, che proprio di un sostegno di questo tipo hanno bisogno per crescere. E in questa 'tenzone' i prof. non devono dimenticare che i ragazzi di oggi hanno modalità di percezione e di apprendimento assai diverse rispetto al passato: sono più intuitivi, più pronti nell’afferrare le varie facce di un concetto o di un problema, ma incontrano maggiori difficoltà nei processi logico-deduttivi, spesso non riescono a fissare a lungo l’attenzione su un dato argomento e soprattutto hanno assimilato la convinzione che si possa imparare senza fatica. Il che talvolta può essere vero, ma nella maggior parte dei casi non lo è affatto. Il processo di apprendimento ha molto in comune con una seria pratica sportiva, che non può prescindere dalla fatica degli allenamenti, dai tentativi di migliorare le prestazioni correggendone gli errori, dalla ripetitività di certi esercizi, dalla disciplina nel seguire orari, diete appropriate, giusti ritmi di lavoro e di riposo.
E come l’acquisizione di una abilità fisica apporta non solo autostima ma anche veri momenti di felicità, così pure dall’apprendimento si possono trarre motivi di soddisfazione e autentici sprazzi di gioia quando finalmente si riesce a padroneggiare certi concetti, a capire certe poesie, si arriva a scoprire l’eleganza e la pregnanza di certe formule matematiche, chimiche o fisiche. Contro l’opinione largamente condivisa che il sapere non conti, perché non regala soldi facili o visibilità mediatica, i prof. devono recuperare l’orgoglio di ciò che sono, di ciò che amano, della professione che hanno scelto, se l’hanno scelta con convinzione e non solo come ripiego in mancanza di meglio. Ma anche in quest’ultimo caso, visto che sono arrivati a una laurea, un certo rispetto e fiducia nella cultura devono pure averceli e, volendo, possono comunicarli ai loro allievi. (Sebbene io abbia smesso di insegnare da parecchi anni, non me ne sento ancora fuori, e l’orgoglio della professione, che è una tra le più belle e gratificanti, continuo a provarlo)." (da Margherita Oggero, Cari prof., ci vuole orgoglio di classe!, "TuttoLibri", "La Stampa", 15/11/'08)

Alfabeti di Claudio Magris

"Una volta, in Cina, una studentessa dell’università di Xi’an mi ha chiesto cosa si perde scrivendo. Ardua domanda kafkiana. E leggendo? Una volta Borges ha detto che lasciava ad altri di gloriarsi dei libri che avevano scritto e che la sua gloria erano invece i libri che aveva letto."

"Per chi suona la campana di Claudio Magris? Per coloro che imbrattano la parola, che la umiliano, che le tolgono il respiro. La sua nuova avventura intellettuale, la zattera che impavidamente sospinge nelle acque limacciose, tenebrose, del nostro tempo, non a caso è denominata Alfabeti. E non a caso l’unico scritto in cui il vocabolo alfabeto ricorra (nel titolo) è un omaggio alla Bibbia, allo scrigno della Parola, 'un testo - come sapeva Brecht - che dice brutalmente e senza indorare la pillola la nuda verità della vita e della morte, l’eros e la violenza, l’incanto e il sapore di cenere'. Alfabeti, una raccolta - avverte Magris - di 'saggi di letteratura'. Ogni saggio una porzione di debito sciolto nei confronti della letteratura. Ossia della dimensione che consente al timoniere di Danubio di scoprirsi 'persuaso'. Se c’è un’opera che riconosce come cardinale, questa è la tesi di laurea del filosofo goriziano Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica. Lì a significare l’aspirazione massima: raggiungere l’occhio del ciclone, l’angolo, la zona, a prova di tempesta, di stordimento. Dove forzare la sorte se non sulla pagina? Dove, se non sulla pagina, evitare l’annientamento del presente, affermarne l’unicità, la signoria, la fecondità, sottraendolo ai richiami, ai vincoli, del passato come del futuro? Vivere, per Magris, è possedere gli 'alfabeti', le parole che, montalianamente, aprono, disserrano, smascherano, spalancano l’agone. Calvino attribuiva alla letteratura la missione di legiferare il caos, la voce triestina sembra rifuggire o considerare secondariamente il fattore normativo. Il bricoleur di Se una notte d’inverno un viaggiatore qui è appena sfiorato. Opposto, tra gli altri, a Camus e a Sábato, che nel loro sottoscala non esitano a scendere, scoprendo cose 'oscure o dimenticate'. Quando ciò non accade o accade con speciale sorveglianza, quando dal sottoscala emergono troppo poche di quelle cose, 'qualcosa manca nella pur alta scrittura, come per esempio in quella di Calvino», avverte l’argonauta degli Alfabeti. Il vello della 'parola', la sua ricerca, è l’infinito viaggiare di Magris, un destino inoculatogli dalla città natale, 'città di carta' per eccellenza. Consapevole, radicalmente consapevole, 'di vivere in un tempo in cui bisogna riportare le parole alla solida e nuda nettezza di quando l’uomo le creava per servirsene', come auspicava Cesare Pavese, fra gli assenti negli Alfabeti, eppure - le segrete corrispondenze della letteratura - ombra vividissima. Di frammento in frammento, raccolto nell’officina di questo o di quell’artigiano della parola, da Omero a Salgari ('Per i greci, il mondo era abbracciato e racchiuso da un fiume, Oceano; per me, il fiume che circonda la Terra è il Gange, col cui grande fluire cominciano I misteri della giungla nera, il primo libro che io abbia letto e dunque destinato a rimanere in qualche modo per sempre il Libro»), da Musil a Borges, da Thomas Mann a Biagio Marin, al - pare - prediletto Kafka, l’evangelico suo paradosso, perdere la vita per trovarla, che in Dietro le parole Magris innalza: 'Perde la vita perché tutto teso a scoprire la verità che dovrebbe giustificarla'. Perché che cosa ne è del Verbo se non si fa carne? Che cosa ci 'giustifica' se non il buon combattimento per restaurare il filo del discorso?" (da Bruno Quaranta, Magris, L'oro è nel sottoscala, "TuttoLibri", "La Stampa", 15/11/'08)

Jean Staronbinski: "Un testo è una voce che ci parla una critica troppo tecnica lo uccide"


"'Avevo sedici anni quando mio padre mi regalò pe ril compleanno la Pléiade degli Essais di Montaigne con la prefazione di Albert Thibaudet. Fu un "incontro" che lasciò un segno profondo. Da allora la letteratura mi ha accompagnato per tutta la vita'. Jean Starobinski, una delle voci più importanti e originali della critica letteraria contemporanea, festeggerà lunedì il suo ottantottesimo compleanno. In sessant'anni di febbrile attività, i suoi celebri saggi su Montaigne, Baudelaire, Rousseau, Montesquieu, Diderot gli hanno procurato prestigiosi premi (Institut de France, Balzan, Goethe) e numerose lauree honoris causa (l'ultima, il prossimo 19 dicembre, dall'Orientale di Napoli). [...] 'L'insegnamento - conclude il critico - mi manca. Ma i progetti da portare a termine riempiono tutta la mia giornata. Sto risistemando una serie di saggi su Diderot e Rousseau. E poi vorrei realizzare un libro su un tema che mi attrae tantissimo: la descrizione nei testi letterari di una giornata tipo." (da Nuccio Ordine, Un testo è una voce che ci parla, una critica troppo tecnica lo uccide, "Corriere della Sera, 15/11/'08)

venerdì 14 novembre 2008

Atto di Stato. Palestina-Israele, 1967-2007. Storia fotografica dell’occupazione di Ariella Azoulay


"Moshe Dayan, affiancato da Yitzhak Rabin e Uzi Narkiss, varca la Porta dei Leoni nella città vecchia di Gerusalemme. E’ appena finita la guerra del 1967. I tre vincitori sono consapevoli della presenza dei fotografi (è stato lo stesso Dayan a convocarli) ma non guardano verso l’obiettivo; i loro occhi spaziano lontano, abbracciano tutto l’orizzonte: è uno sguardo da padroni, ma il loro sorriso è anche quello di chi si sente finalmente a casa. Comincia così, con questa immagine, l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi nella striscia di Gaza e in Cisgiordania, un’immagine che la studiosa israeliana Ariella Azoulay ha scelto come foto-simbolo per il suo libro Atto di Stato. Palestina-Israele, 1967-2007. Storia fotografica dell’occupazione (a cura di Maria Nadotti, Bruno Mondadori). Si tratta di 700 scatti che provengono dagli archivi di oltre 70 fotografi, quasi tutti israeliani (nelle strade dei Territori furono affissi cartelli con il divieto di fotografare). Azoulay è consapevole della loro intenzionalità, sa benissimo cosa significhi che siano gli israeliani a fotografare e i palestinesi a essere fotografati e del complesso intreccio che si stabilisce tra gli uni e gli altri. Ma proprio questa consapevolezza segnala il suo libro come uno degli esempi più efficaci di come si possano usare le fotografie per raccontare la storia. Non sono immagini che illustrano il testo, che servono da contorno alla narrazione: parlano da sole, ci restituiscono una realtà altrimenti destinata alle nebbie dell’incertezza e dell’ignoranza. A seconda dei punti di vista i Territori sono considerati 'occupati', 'liberati', oppure - ed è questa la terminologia ufficiale israeliana - 'sotto custodia'. Quale che sia la definizione da adottare, le immagini ci mostrano un’esistenza collettiva scandita dalla violenza e dalla brutalità (scontri, demolizioni di case, scioperi del commercio, arresti di massa), ma anche punteggiata da oasi di irreale normalità, da momenti di serenità inaspettati. Nonostante la censura, la propaganda, spesso a dispetto delle intenzioni di chi le ha scattate, quelle fotografie creano uno spazio di relazione tra vincitori e vinti, consentono a chi è stato ridotto alla condizione di apolide e privato della cittadinanza di trovare uno spazio pubblico in cui emergere dall’invisibilità e dalla rimozione. 'Atti di Stato' sono quelli che in altre circostanze sarebbero definiti come crimini e che invece possono essere impunemente commessi da individui a cui lo Stato garantisce la piena immunità. Ce ne sono molti nel libro. Due per tutti, non cruenti e proprio per questi esemplari: la famiglia cacciata dalla propria casa perché i soldati israeliani possano assistere ai mondiali di calcio; il piccolo sciuscià palestinese che lucida gli scarponi di un civile israeliano, travestito da ufficiale. Una domesticità infranta, un’infanzia abbandonata: la riproposizione, per noi italiani, degli incubi di un passato non ancora cancellato." (da Giovanni De Luna, Vivere sotto custodia, "TuttoLibri", 08/11/'08)

Tutto Rodari


Venerdì 14 novembre alle ore 17 presso la Biblioteca civica "Mino Milani" di Garlasco, "Tutto Rodari": Favole al telefono, Il libro degli errori, Filastrocche in cielo e in terra, Novelle fatte a macchina (animazioni a cura della Compagnia teatrale ErbaMil).

Corpi di pietra di Luigi Garlaschelli


Venerdì 14 novembre ore 21.15, presso Biblioteca civica "Mino Milani", incontro con Luigi Garlaschelli: investigatore del mistero e membro del CICAP, presenta alcuni dei casi che ha indagato e i libri frutto di tali esperienze tra i quali Corpi di pietra. "La spada nella roccia": esiste sulla faccia della Terra una sola vera spada conficcata in una roccia: è quella di San Galgano. Dal 2001 una serie di indagini scientifiche e multidisciplinari cerca di acquisire ulteriori conoscenze certe. Un’avventura della scienza tra cavalieri, eremiti e spade. Analisi col georadar, datazioni di reliquie, tombe nascoste, mani mummificate e altro ancora …

giovedì 13 novembre 2008

Mondi al limite


"Nove scrittori vanno nei luoghi terribili in cui operano i 'medici senza frontiere' e raccontano. Non riportano - i loro non sono reportages, inchieste giornalistiche. Inventano comunque: si affidano alla capacità di costruire storie attraverso uno sguardo incline alle fantasie, mai 'oggettivante', attraversato com'è dall'immaginazione. Eppure, alle prese con una materia reale - realissima - fatta di crudezze, orrore e povertà quasi sempre estrema, è inevitabile come qui la 'finzione letteraria' serva a contenere sentimenti forti: li recinta, traccia un confine forse anche solo allo stupore, senz'altro alla pietà, al disgusto, alla nausea di fronte a quanto di più miserabile c'è sul pianeta. Si intitola Mondi al limite, quest'antologia di brevi racconti corredati dalle vignette di Giannelli (esce oggi da Feltrinelli). E' un libro singolare, col linguaggio di una volta si direbbe 'militante', ma ha un'indubbia qualità, per gli scrittori che hanno scelto di fare da testimoni - più che da testimonials - a Medici senza Frontiere, la più grande organizzazione umanitaria indipendente di soccorso medico, fondata a Parigi nel 1971 e insignita nel '99 del premio più prestigioso: il Nobel per la Pace. Gli autori che si sono prestati alla causa umanitaria sono firme ben note ai lettori: Alessandro Baricco, Stefano Benni, Gianrico Carofiglio, Mauro Covacich, Sandrone Dazieri, Silvia Di Natale, Paolo Giordano, Antonio Pascale, Domenico Starnone. [...]" (da Luciana Sica, Se nove scrittori raccontano gli ultimi, "La Repubblica", 13/11/'08)

mercoledì 12 novembre 2008

Il mondo meraviglioso di Walt Disney e le sue radici nell'arte europea


"E il topolino partorì la montagna. Con l'invenzione di Mickey Mouse ottant'anni fa Walt Disney (1901-1966) cavò infatti dal cilindro della sua fantasia il primo e più noto - anche se non il più simpatico - dei personaggi con cui poi crebbero milioni di bambini, conferendo alla sua società quello slancio che la rese un colosso dell'intrattenimento mondiale. Ma se per molti l'inconfondibile firma rotondeggiante del creatore di Topolino rimane innanzitutto legata all'omonima striscia settimanale, fonte di ispirazione in Italia anche per uno scopiettante spettacolo teatrale di Claudio Bisio, gli esordi e le fortune dell'impero Disney poggiano innanzitutto sulla settima arte. Sebbene Plane Crazy, il cortometraggio in cui Mickey Mouse apparse per la prima volta, raccolse sopratutto perplessità tra gli spettatori, tale fu l'entusiasmo di pubblico e stampa per il successivo e tecnicamente più complesso Steamboat Willie, in cui si introduceva il sonoro, che Walt si convinse negli anni seguenti a compiere il salto e impegnarsi nella realizzazione di elaborati lungometraggi a cartoni animati. Opere popolarissime e trasmesse ancor oggi in televisione, diventate classici della cultura pop americana eppure impensabili senza l'apporto della tradizione europea, a cui Walt Disney attinse in maniera copiosa, come dimostra un'esposizione a Monaco di Baviera dedicata alle radici della sua arte. Perché se già Walt negli anni Venti, quando muoveva i primi passi espresse curiosità per le celebri sequenze di persone e animali in movimento scatatte dal fotografo inglese Eadweard Muybridge, a metà degli anni Trenta egli si imbarcò in un tour di esplorazione culturale nel Vecchio continente da cui tornò ricco di spunti e carico di libri, quasi 350 volumi di artisti europei del XIX e XX secolo che confluirono nella biblioteca allestita per i suoi dipendenti. Tra i motivi di ispirazione più importanti le fiabe tedesche dei fratelli Grimm, da cui Disney trasse la storia per il suo primo lungometraggio, Biancaneve e i sette nani, senza dimenticare le illustrazioni a quelle stesse fiabe dipinte dall'artista di Dresda, Ludwig Richter e trovando spunti anche nelle incisioni di Gustav Doré. Da Esopo in poi tipico delle fiabe è d'altronde quell'antropomorfismo che caratterizza i mondi disneyani. Nel suo caso l'interesse risale a una precisa esperienza biografica: i quattro anni trascorsi dal giovane Walt tra le bestie di una fattoria del Missouri, un periodo di scoperte che segnò profondamente quel ragazzino di città. La passione per il mondo animale è anche alla base della stima di Walt Disney per il disegnatore tedesco Heinrich Kley, oggi più noto negli Usa che da noi, i cui elefanti e ippopotami danzanti sono alla base delle celebri sequenze di Dumbo e Fantasia, un lungometraggio a episodi per altro impensabile senza l'apporto della musica classica. Ma oltre ai Grimm la stessa pellicola di Biancaneve a ben guardare è davvero una cornucopia di influssi europei: le voci dei nani riecheggiano la tradizione del Vaudeville francese, mentre la tenebrosa regina capace di trasformarsi in una vecchia raccapricciante è un misto tra Lady Macbeth e il lupo cattivo con i poteri metamorfici narrati da Robert Louis Stevenson in Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde. anche il fatto che molti dei disegnatori impiegati da Disney fossero immigrati dall'Europa contribuì a caratterizzare con toni nostrani le sue pellicole. La trasposizione su grande schermo del Pinocchio di Collodi venne ad esempio curata dallo svedese Gustaf Tenggrens che le conferì dei toni nordici e grotteschi tipici di film espressionisti come Il Gabinetto del dottor Caligari. La bottega di Geppetto è un ricordo del laboratorio del nonno di Gustaf, mentre il villaggio dove nasce il burattino di legno è una reminiscenza di Rothenburg ob der Tauber, un idilliaco paesino bavarese consigliato a tutti gli amanti dei mercatini natalizi, che se inoltre visiteranno il castello di Neuschwanstein ritroveranno quello di La bella addormentata nel bosco. Data l'importanza della Baviera per Disney non deve quindi stupire che all'italiano Pinocchio capiti di indossare nel cartone animato i pantaloni corti di pelle amati in quelle valli. La bella fatina invece è una pura american girl disegnata con le fattezze dell'attrice Jean Harlow." (da Alessandro Melazzini, La biblioteca di Topolino, "Il Sole 24 ore Domenica", 09/11/'08)