giovedì 12 giugno 2008

Artists in Exile: how refugees from twentieth century war and revolution transformed the american performing arts di Joseph Horowitz


"Il grande esodo di artisti e intellettuali europei avvenuto in America nella prima metà del ventesimo secolo è diventato il soggetto di un interessante libro pubbblicato negli Stati Uniti con il titolo Artists in Exile: how refugees from twentieth century war and revolution transformed the american performing arts (Harper). Lo ha scritto Joseph Horowitz, ex critico musicale del New York Times e autore, tra gli altri, di un libro molto apprezzato su Arturo Toscanini. Sono numerosi i testi che analizzano e celebrano l'America nella sua essenza di terra di emigranti e di opportunità, ma ciò che rende particolarmente stimolante Artists in Exile è il racconto del rapporto creativo tra personaggi diversi per tradizione, cultura, personalità e talento con la realtà artistica, prima ancora che sociale, del mondo nuovo. Horowitz sa di avere di fronte a sé una galassia sconfinata che tuttora continua ad arricchirsi, e preferisce quindi soffermarsi su personalità emblematiche, alternando l'aneddoto all'analisi sociale e culturale. L'autore si chiede cosa sia rimasto della rispettiva cultura d'origine nel momento in cui questi artisti hanno cominciato a lavorare negli Stati Uniti, e cosa abbia significato l'americanizzazione da un punto di vista artistico, sia in termini positivi che negativi. Equivale necessariamente ad una commercializzazione, e quindi alla perdita dell'ispirazione più pura, in altre parole dell'anima? O invece il confronto con una realtà governata dal mercato ha esaltato i talenti, portando gli artisti a risultati che non avrebbero mai potuto conseguire nelle rispettive terre d'origine? Questa riflessione porta ad un'analisi che prescinde il dato puramente creativo: la capacità di adattamento è intrinsecamente legata anche al momento storico in cui gli artisti in questione si sono trasferiti, e persino all'età in cui sono arrivati nel nuovo mondo. Solo per rimanere in ambito cinematografico è evidente la differenza di approccio e risultati tra i registi che sono arrivati ancora giovani in America e quelli che invece sono emigrati in età più matura. Non solo: coloro che sono arrivati in gioventù hanno finito per rimanere negli Stati Uniti, realizzando pellicole di grande bellezza, che hanno consentito di comprendere in maniera illuminante l'America dall'interno. Si pensi a Billy Wilder, Fred Zinnemann, Otto Preminger, Douglas Sirk, William Wyler (ma si possono includere anche Ernest Lubitsch e Michael Curtiz). Diverso il caso di registi di straordinaria qualità come Jean Renoir, Fritz Lang, Max Ophuls e Victor Sjostrom, che riuscirono certamente a dirigere dei film notevoli e a volte anche affascinanti sugli Stati Uniti, ma non si sentirono mai a casa, e raccontarono l'America da stranieri. Non è un caso che dopo alterne vicende decisero tutti di tornare in Europa. In un lungo saggio pubblicato sulla "New York Review of Books" l'ex direttore del "New Yorker" Robert Gottlieb rileva come il titolo del saggio sia fuorviante: molti dei personaggi che hanno trasformato lo spettacolo americano, analizzati nel libro di Horowitz, non sono affatto dei rifugiati. E' il caso di due dive di primissima grandezza quali Greta Garbo e Marlene Dietrich: la prima si trasferì a holliwood nel 1925 quando fu messa sotto contratto dalla Metro Goldwyn Mayer e decise di rimanere a New York anche dopo il definitivo ritiro dallo schermo. La seconda scelse l'America nel 1930, prima dell'avvento di Hitler. E' assolutamnete vero che la Dietrich testimoniò pubblicamnete la sua netta ostilità al nazismo (Horowitz scrive che negli anni della guerra divenne la 'tedesca buona'), e si rifiutò di tornare in patria, nonostante le ripetute offerte da parte del Regime. Ma è anche vero che scelse di diventare cittadina americana, vivendo quella nuova realtà più come una opportunità che come un rifugio. [...]" (da Antonio Monda, Artisti in esilio, "La Repubblica", 12/06/'08)

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