venerdì 27 giugno 2008

Alberto Manguel: "Odissea, quale canzone cantano le sirene"


"Narra Svetonio che l'imperatore Tiberio quando si trovava tra professori di letteratura greca, rivolgeva loro tre domande, le quali, secondo l'imperatore, non avevano risposta. La terza era la seguente: 'Quale canzone cantavano le sirene?'. Domanda che, come osservò quindici secoli dopo Sir Thomas Browne, 'sebbene enigmatica, non va al di là di una qualunque congettura'. Per tentare una risposta, vediamo quali sono le caratteristiche di tale canto. In primo luogo, è pericoloso, dato che ci attrae irrimediabilmente, facendoci dimenticare il nostro mondo e le nostre responsabilità. In secondo luogo, è rivelatorio, giacché parla di quel che è accaduto e di quel che accadrà, di quello che conosciamo e di quello che non possiamo conoscere. E infine, può essere capito da tutti, gente del luogo e stranieri, greci e barbari, dato che la maggior parte degli uomini naviga in mare e nessuno sa se incontrerà le terribili sirene. In cosa consiste il pericolo di questo canto? Nella melodia o nelle parole? Nel suono o nel significato? E se tutto rivelano, le sirene conoscono il loro tragico destino, o come specchi di Cassandra alle cui parole nessuno crederà, sono esse stesse le uniche insensibili alla loro musica? E qual è quella lingua che dev'essere universale? Immaginiamo, come Platone, che non siano parole ma note musicali quelle che le sirene cantano, qualcosa di quella musica pura sarà sufficiente a dargli senso. Un qualcosa trasmesso dalle voci delle sirene (e che non può ridursi a puro ritmo o pura intelligenza) che chiama chi le ascolta come fa un animale in calore, emettendo un suono impossibile da tradurre se non come eco di se stesso. La Chiesa del Medioevo vide nelle sirene le tentazioni che provocano l'anima nella sua ricerca di Dio, e nelle loro voci l'eco dell'animale che ci allontana dal divino. Ma è forse per quella stessa ragione che il senso del canto delle sirene, a differenza del senso della volontà di Dio, 'non va al di là di una qualunque congettura'. La questione, credo, riguarda alcuni aspetti del problema centrale del linguaggio. Le lingue che si sviluppano nel mondo omerico e pre-omerico, sotto l'influenza di migrazioni e di conquiste, con tentativi di scrittura e di creazione letteraria, furono sempre lingue 'tradotte'. Ovvero, lingue che per ragioni di guerra o di commercio, servivano a stabilire contatti sia tra chi le condivideva sia con il forestiero, il barbaro, colui le cui parole risuonavano alle orecchie dei popoli della Grecia come un 'blabla' bestiale. Il passaggio da un vocabolario a un altro per comprendersi reciprocamente, è stato (ed è ancora) uno dei misteri essenziali dell'atto intellettuale. Se una comunicazione semantica, orale o scritta, colloquiale o letteraria, dipende dalle parole che la costituiscono e dalla sintassi che la governa, cos'è che preserviamo quando le sostituiamo con un'altra sintassi e con altre parole? Insomma, cosa resta quando cambiamo il suono, la strutura, i vocaboli, il peso culturale, le convenzioni linguistiche? Cosa traduciamo quando diciamo 'tradurre'? Né senso né suono allora, ma qualcosa che sopravvive alla trasformazione di entrambi, quel che resta quando togliamo tutto. Non so se quell'essenza può essere definita, ma forse per analogia, possiamo intenderla come il canto delle sirene. [...]" (da Alberto Manguel, Odissea, quale canzone cantano le sirene, "La Repubblica", 26/06/'08; parte dell'intervento di Manguel alla Biblioteca Classense di Ravenna)

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