Paranoid Park (Paranoid Park) di Gus Van Sant: "All'origine c'è un romanzo di Blake Nelson (stesso titolo, Paranoid Park, appena tradotto in Italia da Rizzoli), che sembra scritto apposta per lui. I suoi elementi ci sono tutti, quasi un leitmotiv di cui non si riesca a fare a meno: Gus Van Sant ci parla ancora di adolescenti, di solitudine, di violenza.
Ma non si ripete: a ogni tappa sembra aggiungere un tassello al puzzle, mettendo a fuoco un po' di più il disagio in cui crescono i teenager contemporanei, il vuoto riempito di immagini virtuali, musiche assordanti che scandiscono grandi silenzi, l'incapacità di comunicare. L'ambientazione è ancora Portland, Oregon, il rifugio che il regista si è scelto da molti anni, ma potrebbe essere qualsiasi città della provincia statunitense. Paranoid Park esiste davvero, ma è uno di quei luoghi limite, che nascono in ogni periferia, dove si sperimentano emozioni forti, e ci si perde, senza freni. Un posto 'per cui nessuno è mai pronto', come dice uno dei ragazzi del film, ma che attira proprio per l'aria di pericolo, trasgressione. La storia, girata in parte in Super8 mescolato ai 35 mm, ha un percorso narrativo un po' più concreto e lineare rispetto a Elephant (Elephant, 2003) e ad altri suoi film precedenti: al centro c'è Alex, quindici anni, uno skateboarder che una notte, per un incidente, provoca la morte di una guardia ferroviaria. 'Una specie di Delitto e castigo sullo skate', l'ha definito l'autore del romanzo. Tutto in effetti ruota attorno al senso di colpa del ragazzo, all'ingigantirsi delle sue paure, dell'isolamento, allo sforzo di tenersi dentro quel terribile segreto. E intorno, niente cui aggrapparsi: belle case ricche ma vuote, genitori che si stanno dividendo, una ragazza superficiale, ansiosa solo di bruciare le tappe, di consumare in fretta una 'prima volta'. [...]" (da Liana Messina, Gus Spirito Indie, "La Repubblica delle donne", 08/12/'07)
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