sabato 22 dicembre 2007

L'indifferenza, il saggio di Adriano Zamperini dedicato alla desensibilizzazione del nostro tempo (U. Galimberti)

"Quando la politica non decide e dà l'impressione che nulla potrà mai cambiare perché il conflitto tra le parti mette in ombra il bene comune, quando la scuola, sfiduciata, rinuncia non solo all'educazione ma anche all'istruzione perché troppi sono gli studenti che non capiscono il senso di quello che leggono, quando le imprese e le organizzazioni lavorative e burocratiche danno l'impressione di non amare la novità e di preferire la routine, il freddo ingranaggio ben sincronizzato con i movimenti che scandiscono un tempo senza passioni, quando i morti sul lavoro sono consuetudine quotidiana che più non scuote le coscienze e non promuove interventi, quando i vecchi, i malati di mente e quelli terminali sono solo un problema che non suscita neppure commozione, quando lo straniero è solo un estraneo con cui è meglio non avere a che fare,

quando persino i giovani devono inghiottire una pillola di ecstasy per provare, almeno al sabato sera, una qualche emozione, allora siamo all'indifferenza, vera patologia del nostro tempo, che Adriano Zamperini nel suo bel libro dedicato a questo non-sentimento, descrive come distacco emozionale tra sé e gli altri, mancanza di interesse per il mondo, alimentata dal desiderio di non essere coinvolti in alcun modo, né in amore né in lotta, né in cooperazione né in competizione, in una società popolata d passanti distratti e non curanti, affetti dall'indifferenza dell'uomo verso l'uomo, dove ciascuno passa vicino al suo prossimo come si passa vicino al muro. Alla bse dell'indifferenza troviamo una speranza delusa circa la possibilità di reperire un senso, un'inerzia in ordine a un produttivo darsi da fare, a cui si aggiungono sovrabbondanza e opulenza come addormentatori sociali, noncuranza di fronte alla gerarchia dei valori, noia, spleen senza poesia, incomunicabilità, non solo come fatto fisiologico tra generazioni, ma come pratica di vita, dove i ruoli, le posizioni, le maschere sociali prendono il posto dei nostri bei volti ben protetti e nascosti, perciò inconoscibili. Tutti questi fattori scavano un terreno dove prende forma quel genere di solitudine che non è la disperazione, ma una sorta di assenza di gravità di chi si trova a muoversi nel sociale come in uno spazio in disuso, dove non è il caso di lanciare nessun messaggio, perché non c'è anima viva in grado di raccoglierlo, e dove, se si dovesse gridare 'aiuto', ciò che ritorna sarebbe solo l'eco del proprio grido. L'invito a coltivare la razionalità, peraltro mai diluita nell'emozione, la difesa delle buone maniere, che ormai, persino a propria insaputa fanno tutt'uno con l'insincerità, la noia che come un macigno comprime la vita emotiva impedendole di entrare in sintonia col mondo, formano quella miscela che inaridisce ciascuno di noi, a cui non è stato insegnato come mettere in contatto il cuore con la mente, e la mente con il comportamento, e il comportamento con il riverbero emotivo che gli eventi del mondo incidono nel nostro cuore. Queste connessioni che fanno di un uomo un uomo non si sono costituite, e perciò nascono biografie capaci di gesti tra loro a tal punto slegati da non essere percepiti neppure come propri. Per effetto di questa atrofia emotiva e con un buon allenamento nella palestra gelida della razionalità, finiamo col sostituire alla responsabilità, alla sensibilità morale, alla compassione, al senso civico, al coraggio, all'altruismo, al sentimento della comunità, l'indifferenza, l'ottundimento emotivo, la desensibilizzazione, la freddezza, l'alienazione, l'apatia, l'anomia e alla fine la solitudine di tutti nella vita della città" (da Umberto Galimberti, Fenomenologia del non-sentimento, "Almanacco dei Libri", "La Repubblica", 22/12/'07)

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