lunedì 11 ottobre 2010

Séraphine


"Sotto l'occupazione nazista, in Francia, morirono di stenti e abbandono migliaia ricoverati negli ospedali psichiatrici: tra loro c'era Séraphine Louis, e un suo quadro fiammeggiante, "l'albero rosso", occupa la copertina di un vecchio saggio che indaga su quella tragedia. La pittrice muore, dimenticata nel manicomio di Clermont, probabilmente di fame, (anche Antonin Artaud, ricoverato altrove per sindrome paranoica, scrive lo stesso anno, «Ho fame ...») la sera dell'11 dicembre 1942. Ha 78 anni, e nei dieci di internamento, non ha mai più dipinto: lei che desiderava una bella pietra tombale con la scritta «Qui riposa Séraphine che non ha rivali, aspettando la sua felice Resurrezione», viene sepolta nella fossa comune.
Quei suoi lunghi anni ancora oscuri di sofferenza e abbandono, concludono una vita di privazione ed esaltazione pittorica: ma il troppo è troppo, anche nel ramo genio e follia, umile serva grande artista, e si tende quindi ad accennarne frettolosamente, concentrandosi sul lato Cendrillon, il tempo in cui questa donna solitaria e scontrosa, povera e stramba, di giorno sfregava i pavimenti delle case dei notabili di Senlis, e di notte, a lume della lampada a petrolio, dipingeva forsennatamente; su tavolette di legno, sottraendo l'olio dei lumini in chiesa, usando terree sangue di animali e frutti come colori, cantando lodi alla Madonna che le aveva ordinato di diventare artista, bevendo abbondanti goccetti di vino.
Nel 2008, all'improvviso, Séraphine de Senlis, che si era data il nome della nobile città medievale non lontana da Parigi in cui viveva, esce dall'oblio: una mostra dei suoi quadri al museo Maillol di Parigi, due biografie, Sèraphine, de la peinture à la folie di Alain Vircondelet (da noi conosciuto soprattutto per una biografia di Giovanni Paolo II), e Sèraphine, la vita sognata di Séraphine de Senlis, della psicoanalista e artista Françoise Cloarec, che ha scritto anche di Camille Claudel, un'altra artista, contemporanea di Séraphine, pure lei morta in manicomio: e un film, Séraphine, di Martin Provost, 7 premi César compreso quello alla sua protagonista, la geniale Yolande Moreau. Dopo due anni di dubbi, (un libro che parla di una pittrice a noi sconosciuta, un film su una vecchia via di testa e senza una storia d'amore?) in Italia finalmente si osa, e arrivano contemporaneamente il film di Provost (dal 22 ottobre) e il libro della Cloarec (Archinto).
Il film racconta la vita chiusa di questa donna semplice, nata contadina nel 1864, intrisa di fede, votata a lavare i panni nelle acque gelide del fiume e a sgrassare le pentole degli altri, invisibile nelle case dei padroni, che si immerge nella grandiosa natura come in un suo privato regno segreto. Quelle sue sensazioni, e quella sua felicità, e l'inespressa superbia, e la silenziosa follia, li riversa nelle sue tavole: mai decorative, mai domestiche, mai graziose: non un volto, non un corpo, non un oggetto, non un paesaggio, ma intrichi di fiori minacciosi, di frutti che paiono avere occhi nemici, di foglie che serpeggiano annunciando pericoli, di alberi che nascondono chissà quali atrocità. Allucinazioni, tribolazioni, incubi, rivelazioni. Provost vuole mantenere speranza e bellezza e non allarmare lo spettatore, perciò termina il suo incantevole film prima che l'orrore travolga Séraphine. La donna è sì nell'ospedale psichiatrico, ma in una linda cameretta, come fosse in un sogno: le sbarre si aprono su un giardino sconfinato, lei lo percorre lentamente e si ferma, lontana, sotto un grande albero, finalmente pacificata. Cloarec invece non teme di accompagnare il lettore oltre la soglia della follia, o di quella che comunque fu ritenuta tale dai medici nel marzo del '32: «Affetta da psicosi cronica con manie di grandezza; è un'artista pittrice; deve andare in Spagna per sposarsi con un ex capitano - Delirio di persecuzione: veleno, topicida, un notaio vuole abusare di lei ... Allucinazioni uditive: sente la voce della sorella morta, di Dio e della Madonna ... Da ricoverare».
In questa vita desolata, è entrato da tempo un personaggio importante, il collezionista tedesco Wilhelm Uhde: è nato nel 1874, dieci anni dopo Seraphine, vive a Parigi dal 1904. Di lui, interpretato da Ulrich Tukur, il film racconta soltanto l'incontro con la serva Séraphine, mentre il libro di Françoise Cloarec ricorda l' intensa avventura della sua vita. È per esempio il primo a comprare, nel 1905, un quadro dello sconosciuto Picasso, il piccolo nudo di una donna dai capelli gialli. Per pochi franchi compra Braque, Dufy, Derain, Vlaminck, Puy, Picasso gli fa un ritratto, organizza la prima mostra del Doganiere Rousseau. È omosessuale, ma nel 1908 sposa una geniale ragazza russa, Sonia Terk: le nozze non vengono consumate e dopo un anno lei se ne va, diventando, col cognome del nuovo marito, pure lui pittore, Sonia Delaunay. Nel 1912 Uhde si rifugia a Senlis per scrivere, in una casa dove si muove silenziosa una domestica che si chiama Séraphine. «Ignoravo .... che in quel luogo il cuore santificato di una serva sentiva la vocazione di resuscitare il Sublime del Medio Evo e creare opere potenti impregnate di spirito gotico ...». Finalmente la serva ha trovato chi crede al suo talento di artista, ma con la guerra mondiale, la prima, il tedesco deve lasciare la Francia, e la sua ricca collezione di capolavori verrà confiscatae dispersa. Uhde torna nel 1924 con la sorella Anne-Marie e il giovane amante pittore, Helmut Kolle: con il suo aiuto la strana silenziosa artista di provincia sta diventando una celebrità anche a Parigi. Séraphine è sempre stata povera, ignorata, ma c'erano le voci della Madonna e la meravigliosa natura a illuminare la sua invisibilità e sottomissione, a spingerla a dipingere tutti quei doni segreti. Quando il mondo la scopre, e comincia a darle fama e denaro, le voci si attenuano, l'amata natura si offusca, e il suo fragile equilibrio si sfalda del tutto. Il dolore e la libertà la spingevano a dipingere, il delirio e lo sbrigativo internamento spengono per sempre il suo talento." (da Natalia Aspesi, La donna che sussurrava ai quadri, "La Repubblica", 11/10/'10)

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