sabato 16 ottobre 2010

Meno letteratura, per favore!


"Oggi tutti- politici, giornalisti, pubblicitari, scienziati - raccontano storie. Le "narrazioni" sono ormai la forma egemone del discorso pubblico. Sembrerebbe dunque che la letteratura goda di ottima salute. E invece questa inflazione le fa perdere le sue caratteristiche proprie e ne svuota le funzioni utopiche e conoscitive».
Da una reazione insofferente verso il dilagare della "fiction" è nato l'ultimo libro di Filippo La Porta, intitolato appunto Meno letteratura, per favore! (Bollati Boringhieri), dove la visione critica del panorama culturale dominante si unisce a una sorprendente valutazione positiva della scena letteraria italiana. Un pamphlet dove La Porta, critico "militante" estraneo all'accademia, tiene insieme due dei suoi interessi preponderanti: da un lato un esame quasi da antropologo della cultura di massa, come aveva già fatto in L'autoreverse dell'esperienza e dall'altro la critica letteraria vera e propria in testi come La nuova narrativa italiana o Maestri irregolari.
La Porta, cos'è precisamente lo straripare della letteratura che denuncia nel libro? «È il politico che invece di rendere conto del suo operato di amministratore evoca non meglio precisate "narrazioni". È lo stile sempre più diffuso del cronista che invece di riportare un fatto nella successione degli eventi, lo racconta attraverso una storia esemplare. È lo scienziato che ricorre alla "fiction" per divulgare la sua materia. Insomma, la comunicazione avviene sempre più attraverso questo format».
E perché non le va bene? «Perché quella che prevale è la citazione colta, la letteratura esibita come decorazione, come status symbol, come consumo chic. E si perde il potenziale dirompente e perturbante di questa forma di conoscenza della realtà. Che in una concezione alta dovrebbe aiutarci a dare un senso al caos dell' esperienza».
Si potrebbe accusarla di una visione elitaria della cultura, poco democratica. «Bisogna intendersi su che cosa è democrazia. Così come in politica si basa su cittadini informati che sono in grado di formarsi un'opinione autonoma, lo stesso vale in letteratura. Mi pare invece che siamo di fronte a un pubblico che scambia la libertà per indifferenza, che non prende nulla sul serio, per cui una scelta vale l'altra. Una sorta di nichilismo estetico che va per la maggiore. Certo costruirsi una propria gerarchia di valori è frutto di un processo lungo e complicato».
Tutto ciò, secondo lei, è vero soprattutto per la rete. «Esistono siti web che pubblicano qualunque testo ricevano. Che senso, che valore ha? Non abbiamo piuttosto bisogno di qualità, di selezione? Nei forum letterari come quello di ANobii, prevalgono giudizi sbrigativi, lapidari, espressi in una lingua sciatta, dove l' interesse primario sembra l'esibizione di sé invece della comprensione dei testi. Manca completamente l'argomentazione, che è la base del giudizio "autorevole". Beninteso l'autorità è qualcosa che si conquista faticosamente, una competenza che poi ogni volta bisogna sottoporre alla valutazione del pubblico. È questa la responsabilità del critico».
La narrativa italiana è spesso accusata di essere distante dalla realtà, chiusa una sorta di autocontemplazione. Dal suo libro ne esce un ritratto diverso. «Mi sembra una questione che appartiene al passato. Oggi abbiamo narratori autentici come Niccolò Ammaniti, capace di rileggere in chiave pop i grandi archetipi dell' inconscio collettivo. O come Sandro Veronesi, che sa attraversare con un ritmo narrativo ammirevole la straordinaria babele dei linguaggi contemporanei. Penso anche a Walter Siti, narratore "omeopatico" che combatte la falsità sociale con i meccanismi della fiction più estrema. Ha saputo fare del trash televisivo un' allegoria della nostra epoca».
Il successo di Roberto Saviano con Gomorra ha dato nuova linfa al genere del reportage. «La qualità del reportage è riuscire a snidare la realtà che tende a nascondersi. Il punto di forza di Saviano sta in una potente immaginazione visiva, direi cinematografica, piuttosto che nella lingua, che mi sembra un po' troppo giornalistica. In questo somiglia più a Kapuscinski che alla tradizione italiana, penso a Parise, dove la lingua è il tratto distintivo».
Invece lei ha delle riserve sul New Italian Epic, la tendenza degli ultimi anni individuata dai Wu Ming. «Mi sembra una geniale idea di marketing, di autopromozione, piuttosto che una categoria interpretativa. I Wu Ming ci mettono dentro di tutto e l'onnicomprensività non spiega granché».
Ma lei ha una sua teoria della letteratura? «Una teoria no, direi un criterio. Credo che a distinguere l'opera letteraria autentica sia la lingua, non importa se sperimentale o tradizionale. Ma si deve sentire che lotta contro un limite, che fa attrito contro qualcosa che non controlliamo, sia la società fuori di noi o i demoni della nostra interiorità»." (da Leopoldo Fabiani, Filippo La Porta, "La Repubblica", 16/10/'10)

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