lunedì 18 ottobre 2010

Knausgard, La mia lotta


"Ci vogliono coraggio e una certa dose di megalomania, oltre a una specie di devozione mistica allo scrivere, per affrontare un'impresa sterminata e sprezzante di ogni consuetudine letteraria come La mia lotta, del quarantaduenne norvegese Karl Ove Knausgard. È "semplicemente" la cronaca della sua vita: un'esistenza comune, senza speciali avventure né manifestazioni anomale o perverse o prodigiose. Ma ciò che fa la sostanza del libro è l'accuratezza dell'esplorazione di quella vita, compiuta attraverso la raccolta di un fiume mastodontico di dati. È il modo di osservarlae accumularne la memoria che la fa "diversa", in una dimensione che oscilla tra resoconti esteriori di minuziosità ossessiva (luoghi, caratteri, fisionomie, routine comportamentali, atteggiamenti gestuali) ed ampi squarci di meditazioni sull'essere, il divenire, l'amare, il generare, il sentire e la morte. Soprattutto la morte. Con furia masochistica e invischiante (il lettore ne viene come risucchiato), La mia lotta espone la consapevolezza radicale che l'esistere equivalga a una corsa ineluttabile verso la propria fine. Una fine che abbraccia lo spazio del principio, ovvero gli scenari colmi di ambiguità dell'infanzia, le ombre delle relazioni familiari, l'enigma irrisolto del padre. Se il tempo si gonfia nella memoria, le emozioni e le sensazioni possono dilatarsi a dismisura. Il ricordo merita una durata soggettiva, come in Proust (e come nel suo corrispettivo filosofico Bergson), non a caso citatissimo dai molti recensori entusiasti de La mia lotta. Ma mentre la Recherche realizza (anche) uno straordinario affresco sociale, riflettendo genialmente un tempo e un contesto, qui il relativismo dell'operazione è categorico: ciò che conta è ricostruire la complessità e la vulnerabilità di un unico individuo offrendolo al nostro sguardo senza pudori né riserve. È un annullarsi nella scrittura, un suicidio letterario. Alla follia dell'atto corrisponde la vastità di dimensioni dell'opera che lo contiene: sono sei i volumi di quest'archivio dell'io, tutti intitolati nello stesso modo, con l'esito di una spirale compulsiva che ha provocato un plauso fenomenico in Norvegia, dove il progetto ha trovato la strada del grande pubblico grazie ad Aschehoug, l'editore de Il mondo di Sofia di Jostein Gaarder. I quattro tomi iniziali di La mia lotta hanno dominato la lista dei bestseller per trenta settimane, scalando le classifiche dei libri più venduti non solo del momento, ma dell'intera storia norvegese. E l'autore, venerato dai connazionali come una rockstar, ha vinto i massimi premi letterari del mondo scandinavo. Nel frattempo la serie è stata venduta agli editori di tredici Paesi tra cui l'Italia, dove la puntata di partenza esce giovedì 21 da Ponte alle Grazie. Arduo rendere conto della trama. Più che consegnarci una storia, Karl Ove ci lancia nei paesaggi spettacolari e impervi di un bosco labirintico (norvegese anche nel freddo dell'esposizione), fitto di avvenimenti registrati in modo dinamico e personalissimo: nel senso che azioni, ambienti e persone appaiono sempre legati intimamente, proprio come fusi, ai moti interni e alle memorie del narrante. In lui il ricordo edifica, tormenta, infligge punizioni, delinea immaginie modella pensieri. È granitico, precisissimo e potente. Più reale del reale. Il ricordo che incombe sul primo libro de La mia lottaè il padre. Uomo lontanoe insondabile, che non perdona. La madre invece è trasparente: presenza fluida, dolce fantasma. Guidati dalla memoria maniacale di Karl Ove, riusciamo a spiare i movimenti dei genitori nella casa come assistendo a un Grande Fratello proiettato nelle sfere bergmaniane del tragico. Il padre riempie le stanze di corposa inquietudine, la madre le cosparge di una malinconia senza peso. Il resto s'intreccia e procede: Karl Ove vaa scuola, legge Dracula, gioca con l'insignificante fratello Yngve, suona la chitarra elettrica, parla di sesso con gli amici, s'innamora di Hanne. La naturalezza che scandisce il racconto delle sue giornate fa pensare a Heimat. Ma al di là di tutto questo è l'amaro e spietato padre che percepiamo come cardine della narrazione. Il padre che il giorno in cui Karl Ove si buca entrambi gli orecchi si vergogna di lui. Il padre che beve e piange seduto da solo in cucina. Il padre che una mattina gli dice: io e la mamma abbiamo deciso di divorziare, senza commenti di conforto. Il padre alcolizzato che perde dignità diventando flaccido e grasso, con la pancia enorme. Il padre che muore, e quando succede Karl Ove non sente nulla dentro di sé, e si risolve a prepararsi un tè, più assorbito dalla contemplazione del bollitore che dalla notizia. Il padre che gli spunta di continuo in testa mentre scrive, non come sofferenza, ma come tenace constatazione del padre. Il padre che pulsa nelle riflessioni che lo invadono - ora che è adulto e romanziere e abita a Stoccolma con la moglie Linda e i loro tre bambinidurante il volo in aereo verso la sepoltura del padre, e si sente piangere nell'atterraggio, come se le lacrime sgorgassero altrove. Il padre che è assenza di vita, corpo vuoto steso su un tavolo e ridotto a forma, perché il mondo ripete all'infinito le sue forme non solo in quanto vive, ma anche disegnando nella sabbia, nella roccia e nell'acqua. Così, davanti a quell'involucro che è il padre, Karl Ove scopre che la morte non è che una forma inanimata tra le tante, «niente di più di un tubo forato che spruzza, un ramo che si spezza al vento, una giacca che scivola da una gruccia e cade a terra»." (da Leonetta Bentivoglio, Tra Proust e i boschi fatevi conquistare da una vita norvegese, "La Repubblica", 16/10/'10)

Combatte con i fantasmi il Proust dei ghiacci ("La Stampa")

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