lunedì 25 ottobre 2010

La vita non si può spiegare, allora la raccontiamo


"Le parole contengono spesso, anche inconsciamente, dei pregiudizi; se si chiama «villano» uno screanzato, è perché si è depositata in noi, nelle generazioni passate, l’idea che rozzezza e maleducazione siano legate al mondo contadino. Così «giornalista » e «giornalistico» indicavano sdegnosamente, per gli austeri cattedratici di un tempo, superficialità frettolosa e ricerca di effetto, mentre «professore», «professorale» o «accademico» evocano oggi per alcuni, altrettanto sdegnosamente, una vasta ma arida e libresca erudizione lontana dalla vita.
I pregiudizi sono diversi da Paese a Paese. Diversamente che in Inghilterra, in Francia o in Spagna, in Germania o in Italia un professore, magari di letteratura o di altra disciplina umanistica, che scriva racconti o poesie è visto con preconcetto scetticismo. Naturalmente essere un eccellente critico letterario non dà alcuna garanzia di essere un bravo narratore o poeta, ma nemmeno lo esclude a priori. Non si vede perché un secondino, un dirigente industriale, un sindacalista, un banchiere o un bagnino dovrebbero essere considerati, a priori, più capaci di venire ispirati dalle Muse. Ovviamente sarebbe altrettanto insensato considerarli, a priori, meno capaci di poesia.
Alberto Asor Rosa è da molti anni un protagonista della vita culturale italiana quale professore universitario, storico della letteratura, critico militante e intellettuale politicamente impegnato, figura di rilievo della sinistra culturale e politica italiana. Le sue numerose e celebri opere - particolarmente originale Scrittori e popolo - hanno destato, come accade ai libri di forte impatto scritti da autori che esercitano un ruolo culturale egemone, entusiasmi, dissensi e giudizi anche feroci.
Quando ha esordito nella narrativa con L’alba di un mondo nuovo (2002) ha avuto non solo, come era ovvio a priori, grande attenzione ma anche critiche calorose. Ma ciò non è bastato, credo, a farlo considerare semplicemente uno scrittore tout court, da citare - per lodarlo o criticarlo - insieme agli altri nomi d’obbligo che ricorrono quando si parla di letteratura italiana contemporanea. A ciò concorre forse pure la pigrizia latente in ciascuno di noi; una volta inquadrati un’opera o un autore in una certa casella, si rilutta a considerarli da un altro punto di vista.
Così, quando si parla della narrativa contemporanea, non vedo spesso ricordato quel notevolissimo racconto che è Storie di animali e altri viventi (2005), un racconto amabilmente lieve e inquietantemente ma serenamente profondo, che dice l’irriducibile unicità di ogni esistenza ma anche ciò che la lega al tutto della vita, storica e umana ma non solo storica e umana bensì universale unità dell’amare, invecchiare, desiderare, dormire, generare, essere concepiti, intrappolarsi nelle banalità di tutti i giorni, fondersi con gli altri e separarsi. Un libro che forse può aiutare a vivere un po’ meglio, permeato com’è dal sentimento classico che la felicità è impossibile ma che questo vivere, perdersi e amarsi insieme, uomini e donne ma anche cani e gatti e altri ancora, è quasi già essere felici.
Il libro - in cui quella polvere degli umili che forma la terra e la vita, presente negli aforismi del tuo L’ultimo paradosso, diventa racconto - è stato debitamente lodato, ma non salutato come una nuova pagina della narrativa italiana. Quando si fanno i nomi di quest’ultima, sono ben più presenti gli autori delle «molte fiction minimali», come le chiama Rossana Rossanda. Sospetto che anche il critico Asor Rosa, se gli fosse capitato fra le mani quello stesso libro scritto da un suo collega, ne avrebbe colto i pregi, ma lo avrebbe inconsciamente e banalmente considerato un’opera occasionale e laterale, come se non appartenesse alla categoria degli scrittori da lui stesso, a torto o a ragione, consacrati.
Ora è uscito un altro suo romanzo, Assunta e Alessandro, «romanzo familiare - ha scritto sul "Corriere" Pierluigi Battista, in un articolo straordinariamente acuto e partecipe - pieno di senso, ricchezza umana e pathos» che si confronta con lucida tenerezza con l’intensità degli affetti fondamentali, quali il rapporto fra i genitori e tra figli e genitori, con la solitudine di chi sopravvive, con l’assenza e insieme con la perenne presenza di chi ha oltrepassato l’ultima soglia.
MAGRIS - Come hai vissuto e vivi il rapporto tra la tua scrittura critica, quella politico-ideologica e quella narrativa? Ti ha creato imbarazzi, oggettivi e/o soggettivi? La familiarità con tanti inarrivabili grandi che hai studiato ti ha aiutato o scoraggiato?
ASOR ROSA - È verissimo che, almeno in Italia, è ampiamente diffuso il pregiudizio secondo cui, se uno è saggista, storico della letteratura, critico, passare all’invenzione narrativa, alla creazione di fantasmi, appare sempre un po’ strano, per non dire disdicevole. Mi pare che tu ne abbia già ragionato in un articolo apparso qualche mese fa sul medesimo "Corriere", a proposito, fra l’altro, del bel libro di Guido Davico Bonino, Figlia d’arte. Per me il passaggio dall’una all’altra scrittura è stato non programmatico, e al tempo stesso ordinato, riflessivo e senza traumi. Attingevo al serbatoio della memoria, che del resto, almeno da L’ultimo paradosso, mi sta sempre dietro le spalle. La scrittura narrativa, rispetto a quella saggistica o ideologico-politica è stata davvero «un’altra cosa», emersa quando non ha più potuto restar dentro. D’altra parte, tu sei uno dei primi e principali protagonisti di questo doppio registro della scrittura. I tuoi Microcosmi - per non parlar d’altro - che risalgono al 1997, rappresentano un modello del genere (forse anche le mie modeste Storie di formiche vi appartengono). E a te come è capitato? E perché?
MAGRIS - Ogni argomento impone la forma con cui affrontarlo; ci sono realtà che si possono e debbono analizzare e altre che si possono e devono raccontare; l’una forma non è di per sé più o meno creativa dell’altra. Forse la necessità di raccontare l’ho incontrata la prima volta quando, ripercorrendo la storia dei cosacchi alleati dei tedeschi che per qualche mese, alla fine della Seconda guerra mondiale, si erano installati in Friuli, ho scoperto che molti si ostinavano a credere a una falsa versione della morte di Krasnov, il capo cosacco, anche quando la verità storica era stata inequivocabilmente messa in chiaro, e che anch’io, inconsciamente, avrei voluto che Krasnov fosse morto come diceva la falsa versione. Quale verità umana, esistenziale, poetica - mi sono chiesto - c’è in quel desiderio di credere a una versione chiaramente falsa? Su quei fatti non c’è nulla da ricercare, perché sono assodati; ma per capire come gli uomini li hanno vissuti si può solo raccontare, immaginare, fare illazioni. E così è nato il mio primo romanzo breve. La tua vocazione a narrare è nata tardivamente o era sempre latente, magari frenata dalla timidezza? Ha a che fare con l’invecchiare, con un senso più acuto della complessità della vita che non si lascia spiegare, ma che si può comprendere solo raccontandola? Ha a che fare col senso che l’uomo è sì storia, ma inserito in una più grande natura non solo umana?
ASOR ROSA - Non so se questa «necessità di raccontare » fosse in me già latente in passato: certo era ben nascosta; nella mia storia culturale italiana dell’ultimo secolo, una mia allieva ha visto una sorta di racconto autobiografico. Da storico della letteratura (di nuovo!), non andrei però a cercare tanto lontano. L’alba di un mondo nuovo, che inaugura questo modo nuovo della scrittura, è del 2002: ci ho lavorato intensamente nei due-tre anni precedenti. Dunque, il narrativo mi si è presentato come una nuova (da allora imprescindibile) opportunità della scrittura quando avevo più di sessantacinque anni. Difficile non pensare che non abbia a che fare, come tu dici, con «l’invecchiare»; direi con il senso e il timore (l’angoscia, anche) della perdita, con il desiderio di trattenere la memoria, i ricordi, dunque quel che resta a un certo punto della vita; forse anche con il lungo e sofferto disinganno della milizia politica e politico-culturale, come ha già osservato Battista nella sua recensione (bella, sì, davvero bella). È per queste strade che si arriva ai miei genitori, ad Assunta e Alessandro, ma anche alla «polvere degli umili» de L’ultimo paradosso, persino al gatto e alla cana di Storie di animali e altri viventi, anche loro parti della mia memoria incorporate profondamente nella mia vita.
MAGRIS - Il disinganno c’è, ma non può avere l’ultima parola. La nostra vita, personale e collettiva, è fatta di vittorie e di sconfitte, entrambe transitorie. Guai credersi vincitori, ma nemmeno vinti, neanche in questo indecente momento del nostro Paese, che passerà. Il tuo, fra le altre cose, è un libro sulla malinconia, la resistenza e la dignità del vivere e del morire; sull’amore e sulla lontananza che si scava pure tra persone che si amano e continuano tacitamente ad aiutarsi anche quando sono reciprocamente lontane, con un senso semplice e sacro forse sempre più raro; un libro su ciò che significa l’oscura avvertenza di questa lontananza per un figlio. Un romanzo che narra cose e persone vere con i loro veri nomi, consapevole che la vita è originale, come scriveva Svevo, e che la verità, diceva Melville, è più bizzarra dell’invenzione. Libro di spirito classico, lucreziano, scritto in forma tradizionale ma che non ha nulla a che vedere con quelle «fiction minimali» ora imperanti che sembrano ignorare la grande narrativa sperimentale del Novecento. Come giudichi questa regressione?
ASOR ROSA - Anche qui condivido in pieno il tuo giudizio e la tua prospettiva. Forse dobbiamo rassegnarci, caro Claudio, ad essere fra gli ultimi rappresentanti di un mondo che sparisce: quello in cui la letteratura e la scrittura, anzi la parola, si ponevano il problema di «rappresentare» (e non solo dal punto di vista narrativo) il senso della vita, i suoi movimenti profondi, le sue dinamiche universali. Oggi la maggior parte dei narratori (meno i poeti) sembra ipnotizzata dalle increspature più superficiali del cosmo, dalle sue apparenze più seduttive e ingannevoli (quando faccio il critico letterario, mi sforzo sempre, nei testi giovani, di far emergere gli aspetti durevoli, le consonanze, magari involontarie, con la tradizione). Ci vorrà un lungo lavoro perché «la malinconia, la resistenza e la dignità del vivere e del morire», tornino a essere dominanti. E forse qualcosa noi due, e altri, possiamo ancora fare proprio in questo senso." (da Claudio Magris, La vita non si può spiegare, allora la raccontiamo, "Corriere della Sera", 24/10/'10)

Magris nel catalogo Garzanti

Nessun commento: