venerdì 22 ottobre 2010

La libertà ritrovata. Come (continuare a) pensare nell' era digitale


"Ci vuole dell'impegno, di questi tempi, per finire in un pessimo ristorante. Con tutte le recensioni che si trovano su Internet, ignorarle è masochismo deliberato e toglie diritto a ogni recriminazione. Lo stesso vale per libri, film, dischi e qualsiasi altro manufatto culturale. Il rischio vero, piuttosto, è finire tutti nelle stesse trattorie, leggere gli stessi romanzi e ascoltare musica identica perché lì convergono le raccomandazioni digitali. Che siano scritte da un essere umano e poi evidenziate in apertura di classifica dall'algoritmo di Google o invece assemblate da un software che deduce dai comportamenti web di una massa di persone che "se vi piace A allora vi piacerà anche B", non cambia granché. Il risultato è che ci vuole ormai una gran fortuna per trovare un ottimo ristorante dove non ci siano file chilometriche di avventori portati lì da uguali parole chiave. O, per dirla con l'allarme lanciato da Adbuster, rivista canadese di culto, che stiamo assistendo alla «scomparsa dell'infodiversità». Scrivono Kalle Lasn e Micah White: «L'informazione che consumiamo è sempre più piatta e omogeneizzata. Pensata per raggiungere milioni, spesso difetta di sfumature, complessità e contesto. Nel leggere gli stessi fattoidi su Wikipedia e guardare gli stessi video virali su YouTube facciamo esperienza del livellamento della cultura». Una standardizzazione nefasta perché «l'infodiversità è tanto cruciale per la nostra sopravvivenza di lungo periodo quanto la biodiversità». E va protetta, come specie in via di estinzione, reclamando un'«ecologia della mente» contro l'inquinamento del conformismo elettronico. Magari boicottando Google, il Leviatano telematico, come propongono in un'altra parte del giornale. Liquidarla come preoccupazione da babbioni, inguaribili nostalgici della «fatica del concetto», sarebbe stupido.
Qualche tempo fa Repubblica ha pubblicato l'appello di Jaron Lanier, tra i padri della realtà virtuale, a non scambiare i computer per oracoli. Contro la loro invasività crescente il tecnologo semi-pentito invitava alla resistenza: «La nostra esposizione all'arte non dovrebbe essere manovrata da un algoritmo che riteniamo in grado di anticipare con grande accuratezza i nostri gusti personali».
Su un filone analogo, a fine settembre uscirà per Codice Edizioni La libertà ritrovata. Come (continuare a) pensare nell'era digitale di Frank Schirrmacher, direttore del supplemento culturale della Frankfurter Allgemeine Zeitunge intellettuale pienamente contemporaneo che dopo dosi massicce di e-mail, web, social network e Twitter ha alzato bandiera bianca e proposto una tregua collettiva. Perché, sostiene, affidandosi sempre più al software e delegandogli il controllo di pensieri e azioni, non è più l'uomo a usare il computer ma piuttosto il contrario. Dunque, se non è pensabile uscire dalle autostrade dell'informazione, dobbiamo almeno rimetterci alla guida dell'auto prima che sia un motore di ricercaa dirci per quale concerto comprare i biglietti o quale donna sposare.
Se vi sembra uno scenario distopico, buono per l'immaginazione di emuli di Philip K. Dick, è perché non siete stati di recente in California. Lì la transizione dall'analogico al digitale, quanto ai suggerimenti nei settori più disparati, è già compiuta. Una volta per scegliere dove cenare si compulsava la guida Zagat, ora si digita Yelp, un sito di consigli dagli utenti. Per scegliere l'albergo ci si portava dietro mezzo chilo di Lonely Planet mentre oggi la si consulta sull'iPhone fermandosi generalmente ai «preferiti» dell'autore. Oppure, con un outsourcing decisionale ancora più spinto e indiscriminato, si recepiscono le indicazioni del navigatore satellitare dell'auto. Arrivati in un posto di cui non si sa niente basta premere «punti di interesse» sullo schermo tattile per ottenere una lista di destinazioni, turistiche e mercantili, spesso insieme appassionatamente. Non c'è più bisogno di «studiare» prima. Si può improvvisare, con la macchina che in teoria suggerisce e in pratica detta. In una relazione sempre più fiduciaria, quando non affettiva come quella di Maxwell Sim con la voce femminile del gps nell'ultimo romanzo di Jonathan Coe. E se pure la lista di opzioni è lunga, state sicuri che solo una minima quota di ardimentosi si spingerà oltre la prima schermata. I primi piazzati vincono tutto, per questo è tanto importante stare in cima. Lo stesso vale per le critiche letterarie o cinematografiche squadernate da Google. O per le raccomandazioni di acquisti simili che ci cuciono addosso i recommendation engines di Amazon (libri), Pandora (musica), Netflix (film). L'ultimo arrivato è anche il più ambizioso. Hunch, «sensazione», si chiama e punta a mappare i gusti di ogni utente di Internet per sussurrargli cosa gli potrà piacere prima ancora che quello apra bocca. A più domande rispondi, più il sistema potrà incrociare i tuoi dati con quelli degli altri, azzardando analogie e ricorrenze. Se finirete nel ristorante sbagliato è perché a quelli simili a voi era piaciuto molto. Prima si sbagliava per conto proprio, artigianalmente. Ora more geometrico, da professionisti." (da Riccardo Staglianò, Così il Web ci obbliga agli stessi gusti, "La Repubblica", 21/10/'10)

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