lunedì 18 ottobre 2010

Il romanzo di Costantinopoli


"Costantinopoli è stata a lungo, nell’immaginario novecentesco, il luogo geometrico delle trame internazionali. La anomalia strutturale di una città capitale europea di una grande potenza asiatica contribuì a tale ruolo, che non fu solo leggenda. Lo schieramento assunto dalla Turchia imperiale accanto agli imperi centrali nella Prima guerra mondiale e la scelta di neutralità sorvegliata e insidiata dalle grandi potenze in lotta nel corso della Seconda guerra mondiale ha reso concreto e tangibile quel ruolo. Destinare proprio a Costantinopoli un abile diplomatico come Roncalli non era scelta casuale da parte di Pio XII, così come non lo fu, da parte di Londra (1941-1945) l’insediamento a Istanbul del sommo filologo e storico Ronald Syme. Nel potenziare la valenza simbolica di Costantinopoli, un ruolo lo ha svolto anche la sua caratteristica di «porta» dell’Europa. E si potrebbe seguitare, risalendo nel tempo, all’epoca in cui le varie rappresentanze diplomatiche occidentali a Istanbul erano uno dei siti attraverso cui passava la diplomazia europea, anche delle potenze minori. Come ad esempio il regno di Sardegna, che, per scelta di Cavour, aveva sistemato a Istanbul, come console, il barone Tecco: il quale di lì teneva d’occhio il grande gioco sfociato ben presto nella guerra di Crimea, mentre intanto non disdegnava (forse anche per creare un diversivo) di accordare la propria protezione ad interessanti avventurieri come il falsario greco Simonidis (che forse già allora godeva di protezioni inglesi).
Ma c’è un’altra «leggenda di Costantinopoli», quella dei viaggiatori di ogni epoca e provenienza che hanno visto e descritto la «seconda Roma» mettendo in salvo, con le relazioni di viaggio, l’immagine autentica della capitale. Ed è a questo immenso tesoro di testimonianze che ha attinto, dedicandovi molte energie in un momento non facile, Silvia Ronchey. È nata, così, una imponente antologia ragionata: Il romanzo di Costantinopoli. Guida letteraria alla Roma d’Oriente (Einaudi). È questo un sapiente repertorio che corona una lunghissima militanza dell’autrice (qui coadiuvata da Tommaso Braccini) come bizantinista, riconosciuta autorevole nella res publica litterarum.
L’impianto è per l’appunto quello di una «guida», che raccoglie i resoconti e le descrizioni di viaggiatori e storici da Procopio al tempo nostro. Ottimi indici agevolano la consultazione, di un libro che non solo si consulta ma assai piacevolmente si legge. È inerente al carattere obiettivo del libro il fatto che si tratti sempre di testimoni veri, non di viaggiatori immaginari, che pure — sull’onda dell’orientalismo — non sono mai mancati: basti pensare all’influentissimo Ingres, che — senza aver mai visitato terre d’Oriente — dipinge il bagno turco sulla base di una minuziosa, celebre, lettera di lady Montagu. Qui abbiamo, invece, testimoni diretti.
Frequentare quel mondo non era agevole. Ferma restando una sospettosità preventiva, tipica di chi avvertiva l’insofferenza «occidentale» nei propri confronti, spiccava anche — da parte dell’élite turca — una diversa percezione del tempo e, di conseguenza, una diversa organizzazione di vita, oltre allo sforzo di non piegarsi volentieri a parlare la «lingua degli altri». È l’esperienza fatta dal celebre falsario e cleptomane greco Minoide Mynas quando visita il monastero di Soumelà sul mar Nero (nei pressi di Trebisonda) e si trova davanti un elemosiniere di 110 anni parlante unicamente il turco (lo racconta nel suo diario, tuttora inedito, alla data del 14 novembre 1844). È l’esperienza di Karl Müller, il grande «dilettante» ed eccellente editore dei Geografi greci per Firmin Didot, inviato dal suo editore parigino a cercare nella Biblioteca del Serraglio un Tolomeo di cui si favoleggiava fosse «gonfio di aggiunte dei dotti bizantini», e che si scontra con l’immobilismo del bibliotecario, Ibrahim Efendi, e del suo entourage «talmente turco — protesta Müller in una lettera del 1867 — che non conosce neanche il francese»! Müller descrive anche la sua lenta «marcia di avvicinamento» ai manoscritti (rivelatisi, alla fine, deludenti): ha dovuto in primo luogo cercare l’ambasciatore francese, ma questi — ammalato di gotta — era in tutt’altra località; l’ambasciatore gli ha ottenuto un permesso di entrata, ma valido solo di lì a otto giorni; tempo prezioso è stato inoltre sprecato in stentate conversazioni e estenuanti bevute di té; per terminare la collazione ha dovuto prolungare il soggiorno tanto da spendere fino all’ultimo «napoleone». Una esperienza che non ha certo rafforzato la sua simpatia per quel mondo ...
Il viaggiatore competente non esiste a priori: lo diventa viaggiando, se ha stoffa e curiosità. Facciamo un esempio. Tra i molti protagonisti del libro vi è un memorabile e avventuroso Patrick Leigh Fermor, il cui racconto di viaggio in Grecia (Mani) — risalente al 1958 — è un modello di dottrina «militante», acquisita cioè sul campo. È celebre il suo exploit, il viaggio a piedi fino a Costantinopoli (dicembre 1933) con pochissimo danaro nello zaino. E altrettanto celebre è la cattura ad opera sua (era allora maggiore dei paracadutisti della RAF) del comandante tedesco a Creta, generale Kreipe (1941).
Ma torniamo al racconto Mani. L’arte bizantina attrae ripetutamente l’attenzione di Leigh Fermor. Nel brano incluso in questa silloge, tratto dal XV capitolo («Icone») e felicemente intitolato dai curatori L’estate di San Martino dell’arte bizantina, egli segnala quello scatto, «morto sul nascere», di indipendenza dai rigidi canoni tradizionali che l’arte bizantina tentò (egli ritiene) dopo il rientro del legittimo imperatore a Bisanzio e la fine dell’impero «latino» (1204-1261). Dei rigidi canoni bizantini egli discorre sin dal principio del capitolo «Icone», e ne attribuisce la «codificazione» — così si esprime — a un «monaco pittore del XVI secolo, Dionigi di Furnà». «Questo — soggiunge — formalizzò una tradizione di secoli in un dogma iconografico, deviare dal quale diventò per così dire sinonimo di scisma. Fu lui che rese gli stuoli di santi, martiri e profeti identificabili all’istante». E si spinge a sostenere che quell’arte si poneva, o pretendeva di porsi, in rigida continuità rispetto alle matrici greco-ellenistiche, allo stesso modo che il pensiero patristico rispetto alla filosofia greca.
Leigh Fermor era caduto in trappola. Dionigi di Furnà infatti non è un «bizantino»: è un monaco vissuto all’Athos al principio del ’700. Il suo trattato era stato riscritto da uno che all’Athos era di casa, Costantino Simonidis, il quale rese più antica e più «pura» la lingua in cui quel trattato era scritto e vi inserì frasi che fissavano la stesura del Trattato di pittura sacra (è questo il titolo) all’anno 1458. E teorizzò che l’arte bizantina era la prosecuzione, senza influenze «asiatiche», recta via dell’arte ellenistica. Leigh Fermor era anche un grandissimo autodidatta, che di sicuro avrà letto il trattato di Dionigi nella traduzione francese di Durand (1845), fondata sulla copia che Simonidis aveva venduto a Durand. E dunque, senza saperlo, si era fatto propagatore, nelle sue ammirevoli pagine, delle teorie «patriottiche» del grande falsario. (E a fortiori non poteva sapere ciò che si è constatato da ultimo, che cioè il primo rigo del Trattato di Dionigi riappare «miracolosamente» nel primo rigo del famigerato pseudo-Artemidoro!)." (da Luciano Canfora, Così gli europei scoprirono il fascino di Costantinopoli, "Corriere della Sera", 18/10/'10)

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