venerdì 8 ottobre 2010

Mario Vargas Llosa


"«Che cos'è un maestro? Fra i grandi scrittori ci sono quelli che, a un certo punto, hanno cambiato la direzione della narrativa», quelli che non solo aggiungono una nuova tecnica o nuove tecniche all'arte della narrazione, ma «mettono in luce aspetti della realtà che non comparivano nel romanzo tradizionale perché non esisteva una tecnica in grado di inserire quell'esperienza umana nell'esperienza letteraria». Parole di Mario Vargas Llosa. Parole che, evidentemente, l'Accademia svedese delle Lettere ha voluto riferire anche a lui, conferendogli il Nobel vent'anni dopo l'ultimo scrittore latinoamericano premiato, Octavio Paz, e a ventotto anni di distanza dal riconoscimento ricevuto dal suo ex amico Gabriel García Márquez.
Eppure, nonostante i rapporti tra il Nobel colombiano e Mario Vargas Llosa si siano malamente interrotti nel 1976, addirittura a suon di pugni in un cinema messicano, i due scrittori condividono il merito, insieme agli altri esponenti del cosiddetto boom, di averci ricordato (in tempi in cui il massimo brivido letterario veniva dalle minuziose descrizioni del nouveau roman francese o dagli sperimentalismi dell'avanguardia) che si potevano, e si dovevano, raccontare storie senza rinunciare a sperimentare linguaggi e a inventare mondi, a mescolare culture. Che il romanzo, a certe condizioni, poteva tornare alla pienezza delle sue funzioni e della sua godibilità, tenendo insieme la complessa architettura dei plot con la politica, la storia, la società, il sogno, la passione, l'etica.
Fin dagli inizi degli anni Sessanta, infatti, con I capi o La città e i cani, "Varguitas" aveva iniziato quella «cartografia delle strutture del potere» di cui parla la motivazione del premio: cartografia riuscitissima, se i militari peruviani accusarono i suoi romanzi di essere «l'opera di un degenerato mentale che vuole compromettere il prestigio dell'esercito». Ma non riuscirono a fermarlo: la sua opera di cartografo preciso, acutissimo ed elegante, è proseguita con Conversazione nella Catedral, passando per La guerra della fine del mondo, per Storia di Mayta o per La festa del caprone, arrivando infine a Il sogno del celta, il nuovo libro che uscirà in Spagna a novembre e che racconta gli orrori della colonizzazione belga in Congo. Insomma, gli accademici svedesi hanno ragione da vendere: sia che lo racconti dal punto di vista delle relazioni interpersonali, sia che lo indaghi nel pieno del suo fulgore pubblico o incarnato in dittatori barbari e tirannici, il potere è al centro di ogni romanzo di Vargas Llosa e perfino in molti dei suoi saggi apparentemente "letterari". I suoi, perciò, sono romanzi politici nel senso migliore, nobile, della parola. «La mia vocazione di scrittore», ha detto infatti in più di un'occasione, «è nata con l'idea che il lavoro letterario sia una responsabilità che non si esaurisce nell'àmbito artistico, ma è legata a una preoccupazione morale e a un'azione civile».
Del resto, anche adesso che le sue posizioni politiche sono passate dall'antico castrismo a un liberalismo a oltranza, lo scrittore di Arequipa continua ad affermare che «la letteratura ha una radice sovversiva, sempre, anche se l'autore lo ignora», che «lo scrittore è un dissidente che crea vita illusoria perché non accetta la vita e il mondo così come sono», che «la sua opera è sempre un deicidio segreto, un atto di rivolta contro la realtà».
Le polemiche sulla sua scelta di candidarsi alla presidenza della repubblica peruviana contro Fujimori o sui suoi progressivi spostamenti sulla destra dell'asse politico sono state intense e accesissime. E tuttavia, quando Vargas Llosa si spoglia degli abiti del politico e torna a indossare quelli del narratore, si spengono di colpo tutti i dibattiti, gli scontri verbali, i feroci scambi di accuse. Tutti (o quasi) zitti, a bocca aperta, ad ammirare i suoi romanzi dall'architettura complessa come una cattedrale gotica, nati da un'ambizione di totalità ormai quasi scomparsa, da un desiderio di mettere ordine nel caos della realtà per renderla più comprensibile. "Varguitas" è infatti un illuminista cocciuto che non ha paura di paragonare il narratore a un demiurgo, a un Dio che, sulla scia di Flaubert, si aggira in ogni cunicolo dell'universo romanzesco che ha creato, ma senza mai manifestarsi, senza mai scoprirsi, amando allo stesso modo tutti i suoi personaggi.
Come per gli altri autori del boom, nei suoi libri si fondono l'amore per il plot del grande romanzo borghese e del feuilleton ottocenteschi con il gusto per lo sperimentalismo linguistico e la ricchezza sintattica e lessicale del Siglo de Oro spagnolo. Di qui, il relativismo prospettico e la moltiplicazione dei punti di vista nella narrazione, le spericolate architetture temporali e la prosa possente, mai disgiunta dall'imperativo collante della storia, che insieme descrive e inventa il mondo e la realtà. Di qui l'aggressione, tutta barocca, al tempo e allo spazio, narrativi ma non solo, in una destrutturazione continua delle nostre più stupide certezze. Ma bisogna essere Vargas Llosa per dominare in maniera così completa le tecniche che rendono possibili quelle spericolate architetture. Ogni romanziere degno di questo nome gli invidia la sua capacità di costruire dialoghi che avvengono in spazi diversi e ad anni di distanza senza far perdere mai la bussola al lettore, o la sua abilità nel costruire personaggi usando i dialoghi, i tic verbali, le sfumature più sottili della personalità; e ogni scrittore mediamente intelligente studia e ristudia le sue tecniche per raggiungere l'invisibilità, per fare in modo che quelle stesse tecniche scompaiano agli occhi del lettore e che nessuno si accorga della loro esistenza.
Nobel meritatissimo, dunque, che riconcilia con l'Accademia svedese. Perché pochi come Mario Vargas Llosa sanno narrare e vivere il presente come figlio del passato, pochi sanno indagare come lui nei nostri dolori e custodire le nostre passioni. Perché la storia, la politica, l'etica, sono lì, nelle sue storie, e ci riguardano tutti da vicino." (da Bruno Arpaia, Vargas Llosa professione dissidente, "Il Sole 24 Ore", 08/10/'10)

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