sabato 2 ottobre 2010

Peregrin d'amore


"L'idea è bella, assieme semplice e ambiziosa: mettersi sulle tracce di alcuni dei più grandi scrittori italiani che si sono succeduti nel corso dei secoli (da san Francesco a Pasolini); raggiungere i luoghi dove quegli scrittori sono nati, vissuti e morti - in Italia o in giro per il mondo - e magari rileggere le loro pagine più belle proprio laddove sono state create. Anche se ovviamente quei luoghi non sono più gli stessi. Anche se la loro fisionomia, il più delle volte, è stata sovvertita, stravolta, addirittura cancellata. Anche se sono abitati da un'umanità smemorata e confusa, poco o punto interessata all'arte e alla poesia. Se quelle tracce vengono ripercorse con tenacia, passione e pazienza, si scoprirà comunque che la parola letteraria vi risuona ancora in tutta la sua potenza, precisione, forza, commozione. Eraldo Affinati non cerca facili corrispondenze, non si illude che il genius loci sia rimasto integro, intatto. Naturalmente si emoziona, e molto, quando un edificio, un albero, un'atmosfera di cui parla la pagina che sta leggendo, gli si ripresenta tal quale davanti agli occhi. Ma se possibile si emoziona ancora di più quando si creano dei cortocircuiti imprevedibili, del tutto inattesi. E certi incontri rivelatori e fantastici finiscono per mostrare come un verso, un giro di frase, un' immagine, possono rinascere a nuova vita in un contesto completamente diverso, irriconoscibile rispetto a quello originario. Cosa impedisce, ad esempio, che la bellezza del Cantico delle creature di san Francesco venga apprezzata da una prostituta nigeriana incrociata soltanto per un attimo sulla via del ritorno da Assisi a Roma? E non sarà che l'uditorio ideale per ascoltare i racconti di viaggio di Marco Polo è rappresentato proprio da quegli adolescenti afghani incontrati nella Città dei Ragazzi fondata da monsignor John Patrick Carroll-Abbing, visto che quegli adolescenti, quanto ad avventure e traversie, sono senz'altro più vicini di noi all'autore del Milione? Ancora: perché non pensare al fantasma del padre morto, che si esprime in un verace dialetto romanesco, quale tramite ideale per far pervenire a Gioachino Belli un messaggio di ammirazione sconfinata? E quello strambo uomo sulla cinquantina che gira in moto per l'isola di Lampedusa distribuendo il pane ai disperati che arrivano qui in cerca di fortuna, non potrebbe incarnare il Doppio contemporaneo del paladino Orlando cantato dall'Ariosto? Se la parola poetica e letteraria è per sua natura immaginaria e immaginifica, va da sé che un viaggio alle fonti della nostra lingua e della nostra identità, non potrà che essere assieme reale e fantastico. Reale, realissimo, perché l'autore quei luoghi li visita per davvero. Affonda nelle loro crepe e nei loro incanti. Ce ne restituisce i profumi, gli odori, i tagli di luce, le facce, i sapori. A San Mauro di Romagna come a Varanasi, a Trezzo sull'Adda come a Stoccolma, a Motta di Livenza come a Los Angeles.
Al contempo, però, sarà anche un viaggio fantastico, addirittura allucinato. Quando ad esempio si ritrova in campo San Bartolomeo, a Venezia, sotto la statua di Carlo Goldoni, Affinati ascolta un cacofonico mishmash di dialetto veneziano, inglese, spagnolo, romanesco, cinese. Si parla di tutto e di niente, si parla di quella vita sfuggente e ordinaria che Goldoni seppe catturare in modo inarrivabile. «Gli hanno rubato il testo. Qualcuno ha svuotato i suoi cassetti. Saranno entrati di soppiatto, nell'oscurità, hanno portato via tutto. Adesso, cambiando lingue e costumi, lo stanno mettendo in scena proprio nella sua città, senza neppure citare la fonte. Mascalzoni!». Sì, nessuno meglio di Goldoni potrebbe scrivere una commedia sull' Italia odierna. Per questo bisogna tornare a lui e ai giganti come lui, se vogliamo capire l'imbuto doloroso in cui siamo precipitati. Perché la fisionomia di un Paese si delinea attraverso la catena delle generazioni. E niente come la grande letteratura è riuscita a tenere viva quella catena che oggi invece sembra sul punto di spezzarsi. Di questo, in fondo, si occupa Peregrin d'amore (Mondadori), un libro che finisce per squadernare i generi: essendo assieme reportage, analisi critica dei testi, autobiografia di sguincio, riflessione morale, divagazione pedagogica. Anche se poi tutto ruota attorno a un' unica questione: cercare «il punto esatto in cui ciò che si vive incontra ciò che si scrive». Se ne parla nelle pagine su Gozzano e Varanasi, e ancora di più in quelle su Pavese e l'America. Lo scrittore di Santo Stefano Belbo non ha mai varcato l'oceano, ma attraversando il deserto americano Affinati tocca con mano tutta la potenza trasfiguratrice del suo sguardo letterario. Del resto, è stato proprio Pavese a insegnarci che la vera maturità coincide con il passaggio dall'esperienza all'espressione: «L'espressione senza esperienza è sterile. L'esperienza senza espressione è vuota, muta, cieca, sorda», chiosa Affinati. A questo serve la letteratura: a conservare, per rimetterli in circolo, i semi di pregresse esperienze. A farci sentire parte integrante e attiva di una catena vitale, in mancanza della quale è difficile, se non impossibile, trovare un senso nel nostro stare al mondo." (da Franco Marcoaldi, Sulle strade d'autore così il pellegrinaggio diventa letterario, "La Repubblica", 02/10/'10)

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