Esce martedì Centomila punture di spillo. Come l'Italia può tornare a correre il libro di Carlo De Bendetti e Federico Rampini (con la collaborazione di Francesco Daveri, Mondadori).
"Il geografo Joel Kotkin ha studiato gli ingredienti su cui è costruito il successo di alcune metropoli cosmopolite come New York e Londra, Parigi e Berlino. Tra le cause del loro dinamismo ha individuato la nuova centralità della cultura, un vero e proprio motore dello sviluppo. Quelle città sono ormai, secondo Kotkin, delle economie fondate sulla cultura. New York è sopravvissuta all'11 settembre e, più di recente, alla crisi delle grandi banche d'affari; ma non sopravviverebbe se scomparissero le sue università, i teatri e i musei, le sale da concerto, i villaggi artistici e creativi di Soho, Greenwich e Tribeca. Dalle giovani generazioni ai ceti professionali innovativi, le forze sociali propulsive tendono ad aggregarsi dove si offre loro l'esperienza di vita più intensa e stimolante. L'élite dei nuovi nomadi cosmopoliti ha sui suoi schermi radar anche l'Italia. Sta a noi elaborare strategie che liberino il nostro potenziale, unendo le forze di settori diversi e alleati: il turismo di qualità e la gastronomia, l'industria culturale, l'arredamento, la moda, il design e l'architettura. È il nostro paese la migliore vetrina di tutto ciò che sappiamo fare. Ha senso per noi affrontare le sfide dell'internazionalizzazione partendo dal basso, dalle piccole dimensioni delle comunità in cui viviamo? Gli italiani possono fare qualcosa per determinare il proprio futuro, se non sono guidati da un governo forte e lungimirante, con idee chiare e strategie unificanti? In altri termini: per tornare ad avere speranza dobbiamo aspettare prima di tutto una palingenesi nel ceto politico, la catarsi e il rinnovamento di un'intera classe dirigente, una svolta epocale con l'avvio delle grandi riforme che ridisegnino il paese da cima a fondo? A prima vista i 'progetti piccoli', elaborati in una dimensione territoriale ridotta, possono sembrare inadeguati. Il Mondo Nuovo, di cui abbiamo descritto alcuni tratti, colpisce per le grandi entità coinvolte. Una sola provincia cinese come il Sichuan ha 85 milioni di abitanti, cioè più dell'intera Germania. Un'altra provincia cinese, il Guangdong, ha una popolazione di 70 milioni di persone: assai più della Francia o della Gran Bretagna. La città di Pechino da sola ha più abitanti di tutta l'Olanda. L'indiana New Delhi, con oltre 12 milioni di cittadini, è popolata quanto l'Austria e l'Irlanda messe insieme. Di fronte a questi numeri le regioni e i comuni italiani appaiono poca cosa. Ma non bisogna fermarsi ai confronti sulle quantità. Anche nelle aree più dinamiche del mondo alcune efficaci strategie di sistema sono state pensate su scala ridotta. La città-stato di Singapore si è affermata come un polo di eccellenza mondiale nelle tecnologie avanzate, con soli 4 milioni di cittadini. La regione autonoma di Hong Kong (8 milioni di abitanti) è la vera capitale finanziaria della Cina. La stupefacente ascesa di Dubai è fondata non sul petrolio, bensì sulla capacità di diventare un centro di servizio logistico, immobiliare, turistico e finanziario per intere nazioni circostanti: eppure ha meno abitanti di Roma. Molto più vicino a casa nostra c'è l'esempio della Svizzera, un paese già piccolo e reso in apparenza ancora più frammentato da un sistema di governo risolutamente federalista, dove tante decisioni importanti si prendono nei cantoni anziché nella capitale. Eppure la Svizzera naviga nelle acque turbolente della globalizzazione con abilità: ha difeso le sue posizioni in alcuni settori tradizionali che sembravano condannati a morte (si pensi alla forza del gruppo Swatch-Omega, rilanciato dopo gli "assalti" degli orologi digitali giapponesi); riesce a unire vocazioni disparate - tra cui l'agricoltura, il turismo di qualità, la finanza - e ha multinazionali come la Nestlé presenti in ogni angolo del pianeta. Questo successo elvetico è stato ottenuto senza rinunciare a una tradizione civile che esalta la democrazia 'di vicinato', le piccole comunità, anche con l'esercizio frequente dei referendum cantonali. Altri casi di nazioni vincenti nella globalizzazione, la Finlandia e la Danimarca, hanno ciascuna la metà degli abitanti della Lombardia. Non si tratta di teorizzare il 'piccolo è bello', vecchio slogan che diventò un alibi per il nanismo di certe imprese italiane. Semplicemente è dimostrato che 'piccolo è possibile'. Quando il municipio di Pechino ha cercato nel mondo intero un modello da imitare per le sue scuole di formazione professionale, lo ha trovato a Trento, e da questa provincia autonoma ha acquistato un servizio di consulenza permanente per formare generazioni di giovani tecnici industriali. Trento ha a malapena la popolazione di un piccolo quartiere di Pechino. Si può osservare che è un'oasi in Italia, anche grazie all'eredità dell'impero austroungarico, ma di oasi, tutte uniche per ragioni diverse, l'Italia ne ha tante. Forse dovremmo chiamarle laboratori. Anziché contemplare sconfortati le nostre debolezze, è più utile partire dai nostri punti di forza, andandoli a cercare là dove si trovano, e costruire su quelli. Gli italiani possono affrontare subito con vigore e dinamismo le sfide della globalizzazione, senza attendere ricette dettate dall'alto. Questo non implica il disimpegno politico né la rinuncia a cambiare il modo in cui il paese è governato. Ma un buon governo si costruisce anche attraverso le scelte quotidiane della società civile. Ciascuno di noi ha possibilità e responsabilità che lo attendono ogni giorno, può agire e imprimere un segno sull'andamento del paese, cominciando dalla comunità in cui vive e lavora. Per questo la dimensione piccola - il luogo di lavoro, l'università, la città, la regione - è quella in cui si può agire immediatamente. Riconquistare un senso di padronanza del nostro destino è una risposta alle tendenze populiste, che trasformano la società civile in audience televisiva. Una riforma dal basso, che ciascuno può promuovere, è quella che riguarda i valori della società italiana, i principi di responsabilità, di merito, di competenza, di dovere civile. La valorizzazione dei talenti, la costruzione di una società più aperta e più giusta, la guerra alle mafie e ai clan di ogni tipo sono impegni che durano una generazione. Hanno tempi assai più lunghi di una legislatura e di un governo. Ma è proprio su quel terreno che l'opera di cambiamento ha gli effetti più reali, profondi e durevoli. Dalla fine della Seconda guerra mondiale fino agli anni Sessanta alcune generazioni di italiani furono capaci di imprese eccezionali. Non miracoli, che sono ultraterreni: la ricostruzione e il decollo dell'Italia moderna furono l'opera di uomini e donne normali, delle loro idee, generosità, costanza, lavoro di squadra, anche quando il paese era ideologicamente diviso dallo 'scisma religioso' della Guerra Fredda. Poi vennero i decenni di un illusorio galleggiamento, di una sopravvivenza fasulla che in realtà distruggeva talenti e scaricava debiti sulle nuove generazioni. La Cassa per il Mezzogiorno e le cattedrali nel deserto, Tangentopoli e le sue continue riedizioni, gli sprechi immensi, le appropriazioni private e le distruzioni di beni pubblici, il tradimento dell'establishment che depredava la nazione. Una classe dirigente, che non è solo politica ma include vaste élite, affondava nella mediocrità egoista e restava cieca di fronte alle svolte della storia. La caduta del Muro di Berlino, l'avvento dell'euro, l'ingresso delle potenze emergenti nella globalizzazione, i nuovi scenari geostrategici dell'era postamericana, la grande crisi finanziaria e lo shock deflazionistico del 2008: tutto questo ha colto impreparati, distratti e rissosi gli esponenti di un piccolo mondo italico dominato da leader provinciali e autoreferenziali. Possiamo ritrovare l'ispirazione di un passato non tanto remoto. I nostri genitori e i nostri nonni furono negli anni Cinquanta i 'cinesi d'Europa': stupirono il mondo per la grinta con cui risollevarono un paese stremato e umiliato. I loro valori non sono scomparsi: li abbiamo dentro di noi. Per affrontare il futuro occorre riscoprire la parte migliore del nostro passato. È così che si comportano le potenze emergenti, quelle che oggi dominano la scena mondiale e appena pochi decenni fa sembravano prigioniere di una decadenza interminabile. La storia non è una prigione, tocca a noi scrivere la nostra. Ci riusciremo: smentiremo i profeti della paura." (da Carlo De Benedetti e Federico Rampini, Contro la paura, "La Repubblica", 10/10/'08; anticipazione dal capitolo conclusivo)
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