"La littérature en péril. Il libretto che Tvetan Todorov ha stampato qualche mese fa a Parigi ci dice che la letteratura e la critica sono in pericolo, e lo sono non perché soccombano all'informazione globale (Tv, Internet, etc.), ma perché di giorno in giorno vanno smarrendo il loro fine autentico, cioè la conoscenza dell'uomo. Una letteratura e una critica che si disgiungano dall'umanità che devono rappresentare, o riscontrare nell'opera stessa, diventano 'jeux formels', formalismi lontani anche dal loro originario assunto filosofico. Di fatto, al celebre dogma di Mallarmé - il mondo esiste per approdare a un libro - Todorov contrappone l'idea che un libro, per essere davvero un libro, debba contenere, comprendere, riconoscere più mondo possibile, più umanità possibile. In particolare, il critico, che qualcuno potrebbe scambiare per un formalista al quadrato, nell'ottica di Todorov è invece un umanista al quadrato, un 'connaisseur de l'être humain': 'se chi fa letteratura ha per oggetto la condizione umana, chi legge e interpreta letteratura, cioè il critico, sarà due volte uno specialista, un conoscitore di umanità' [...].
Ma, confesso, leggendo La littérature en péril, nonostante o forse grazie alla sua 'simplicitas', ho pensato che Todorov, in generale, avesse ragione. E che la critica, in particolare, abbia rischiato per anni di perdersi in una lontananza 'disumana', in un esercizio d'autoriferimento, in una piccola babele distaccata al tempo stesso dall'opera e dai lettori. Ora questo allarme, e insieme questo impulso a riumanizzare la critica, che Todorov lancia come un vessillo inattuale oltre la sua trincea, è lo stesso di alcuni recenti e decisivi discorsi di critici italiani. Massimo Onofri, in La ragione in contumacia, parla di una destinazione civile e comunitaria della critica, di un apporto di ragione (nel senso, kantiano, di ciò che conduce l'uomo alla sua propria libertà) nella critica. Il tono di Onofri, che discende egualmente da De Sanctis e dai grandi moralisti classici, è veemente ed emozionato, come se il critico dovesse farsi carico del dolore, della vanità della vita degli uomini, e come se la stessa critica dovesse indicare una soluzione. Il suo libro è 'critica' nel senso di meditazione e ricerca, non solo e non innanzitutto nel senso di analisi: 'C'è un limite oltre il quale la critica letteraria diventa, tout court, critica della vita? C'è un punto in cui, per chissà quale metamorfosi, 'interpretazione di un'opera può diventare, in quanto tale, notizia del mondo, di un mondo abitabile, ben oltre la letteratura?'. La critica è costruzione del senso della vita di chi legge più che giustificazione di un sistema-testo chiuso in sé. [...] La 'critica della vita' di cui parla Onofri ha a che fare con questo indefinito protrarsi dell'umano nell'opera d'arte, nel libro, e non ha nulla a che fare con le ideologie della vita e neppure con le filosofie della vita, che pongono al centro della riflessione la vita in quanto 'eccitata melodia', eccezionale passaggio 'da un impulso a un movimento'. [...] Inoltre: la critica di cui parla Onofri è una critica che si schiera e si indigna. Nemico di quelle ideologie e teorie (il primo Barthes, ad esempio) secondo cui l'autore, la realtà, lo stile sono puri feticci, e l'interpretazione non è che una modalità della citazione, Onofri punta, hic et nunc, alla definizione del vero in letteratura e alla liquidazione del falso e del mercato che lo sostiene: è uno 'stroncatore' lucido, barettiano, civile, 'ecologico', 'uno che s'incarica di dire ad alta voce che manca l'aria, che l'acqua è sporca, che l'odore è insopportabile, che il paesaggio è degradato, che la musica è troppo alta, che il cibo è pessimo e costoso, che i vestiti sono sguaiati, anche quando tutti affermano che, invece, il divertimento è assicurato e lo spettacolo va avanti e bisogna esserci'. Il 'pericolo' di cui parla Todorov è anche questa 'degradazione' che impedisce al critico di orientarsi tra vero e falso, cioè, per quanto riguarda la letteratura, tra bello e brutto. Masi potrebbe dire che, grazie a libri come quello di Onofri (e quelli, recenti, di Raffaele Manica, Exit Novecento; Filippo La Porta, Maestri irregolari; Alberto Casadei, Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo; Alessandro Piperno, Il demone reazionario), la letteratura in Italia resiste oggi - al disorientamento - innanzitutto per mezzo della critica, della saggistica. Nella forma del saggio, che contiene rischiosamente soggettività e umanità, accanto all'oggetto della conoscenza in sé, la letteratura anche oggi fa un piccolo passo avanti. Alfonso Berardinelli, teorico e storico della forma-saggio (da Praz a Garboli, da Longhi a La Capria), con Casi critici ha perfettamente realizzato le sue stesse intuizioni. Nelle ammirevoli pagine dedicate ad Adorno, Berardinelli dimostra innanzitutto che, scegliendo il saggio come 'forma espositiva' e come 'metodo', Adorno evita di 'ambientare nel vuoto i processi conoscitivi'. Che cosa significa? Che l'autore di un saggio, come Charles Lamb, pare che divaghi, su tazzine di caffè, tramonti, sedie Regency, e invece non smette di avvicinarsi al suo centro? Che la sua tergiversazione nell'umano coincide con il suo fine interpretativo? Ad ogni modo, Berardinelli scrive i suoi saggi per restituire, con le sole divagazioni previste dalle leggi dell'essai, la profondità etica in cui si afferma la perfezione o la catastrofe estetica, cioè, ancora una volta, il vero o il falso. Nel capitolo su Calvino, ad esempio, il pregiudizio di un Calvino razionalista - diderotiano - lungimirante è rovesciato in una clausola - metafisica - di marinismo: l'autore di Palomar 'è certo di una cosa: che la realtà pietrifica di spavento chi osa guardarla in faccia' e moltiplica indefinitamente gli specchi e i riflessi nella sua opera. E' possibile che l'esperienza del terrore, non della felicità, abbia prodotto Gli antenati e Marcovaldo? O per dir meglio: è possibile che il terrore abbia prodotto la (falsa) felicità di quei libri? Non una sola pagina di Casi critici ci lascia inerti o apatici: non la 'stroncatura' di Umberto Eco, che sa tutto e non sa che cosa scrivere; non l'elogio di Montale, che vede nella neoavanguardia 'l'imborghesimento di tutte le avanguardie'; non il bellissimo discorso su Pasolini. Certo, qualcuno (come Cortellessa su queste pagine) ha detto che Berardinelli è un dandy. Forse lo è, dopotutto, ma nel senso - umanistico - che Montale attribuiva alla parola (e Todorov oggi approverebbe): d'un 'individuo' disarmonico, il cui gesto di sfiducia contiene ottimismo, la cui disperazione contiene fede nel 'destino individuale dell'uomo'." (da Giorgio Ficara, La critica dica che manca l'aria, "TuttoLibri", "La Stampa", 22/12/'07)
Todorov nel catalogo Garzanti
Nessun commento:
Posta un commento