domenica 20 gennaio 2008

Intellettuale a Auschwitz di Jean Améry

"In Patrimonio, il suo ultimo libro apparso da Einaudi, Philip Roth racconta che il sopravvissuto dei Lager 'il cui numero mi aveva fatto più impressione a vederlo' era stato Primo Levi, da lui intervistato a Torino nel 1986 per il "New York Times". Erano stati insieme quattro interi giorni diventando così intimi che al momento di salutarsi Primo disse: 'Non so quale di noi due è il fratello minore e quale il fratello maggiore'.

Il tema del numero riappare, come un invincibile dolore, nel libro Intellettuale a Auschwitz di Jean Améry, che Bollati Boringhieri ripropone con presentazione di Claudio Magris. Letterato viennese, il cui vero nome era Hans Mayer, membro della Resistenza in Belgio, arrestato nel 1943, internato a Auschwitz, Améry scrive: 'Essere ebrei è paura. Ogni mattina, alzandomi, scorgo sul mio braccio il numero di Auschwitz: è un fatto che tocca i più profondi grovigli della mia esistenza'. Nel '78, dopo aver scritto libri sul suicidio e sulla vecchiaia, si uccise a Salisburgo. Sempre da Bollati Boringhieri, sta per uscire, con un po' di ritardo, un altro testo dedicato all'universo concentrazionario dei Lager: Discesa all'Ade di Günther Anders, filosofo tedesco anch'egli di famiglia ebrea (1902-1992, vero nome Günther Stern) che all'avvento del nazismo scelse l'esilio negli Stati Uniti. Famoso anche al grande pubblico per l'epistolario con Eatherly, il pilota di Hiroshima, nell'estate del 1966 decise di visitare i luoghi dell'orrore da cui era scampato emigrando: andò a Auschwitz, quindi a Breslavia, la città dove era nato, diventata ormai la polacca Wroclaw, senza tracce della sua storia. Nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere un viaggio che teneva insieme mondi opposti: l'uno all'insegna della tragedia, l'altro a quella degli affetti. Ma il bilancio finale è d'una mancanza: 'Ciò che spaventa non è quello che non c'è più, non il vuoto, ma al contrario le cose che, casualmente, continuano a esserci nel vuoto che in realtà ci aspettiamo'. I due libri ripropongono la questione del rapporto fra gli intellettuali e la Shoah, già cautamente sondata (vedi per esempio Auschwitz e gli intellettuali di Enzo Traverso, il Mulino, 2004, o in parte anche La strada per Auschwitz di Giovanni Gozzini, Bruno Mondadori, 2006) ma è ancora aperta come una ferita, basta pensare al nodo dei suicidi: quello di Levi, quello di Améry, anche quello di Bruno Bettelheim, lo psicanalista internato a Dachau e a Buchenwald. Dietro questo rapporto giacciono problemi aspri, come la polemica sulla passività degli ebrei che vide coinvolti Hannah Arendt e lo stesso Bettelheim. Améry affronta il tema di petto, sulla scorta della propria esperienza a Auschwitz. La pietra angolare della sua tesi è l'idea che nel Lager l'intellettuale è un soggetto più debole, più incapace. Per tre ragioni. In primo luogo le professioni intellettuali erano a rischio, perché non facilitavano l'inserimento al lavoro, fondamentale per sopravvivere: era meglio (molto meglio!) essere un fabbro che un avvocato o un insegnante. In secondo luogo, il Lager richiedeva 'qualità che i lavoratori dell'ingegno raramente possedevano', come la forza fisica, il coraggio, una certa dose di brutalità. Infine gli intellettuali non riuscivano nemmeno a farsi degli amici, erano isolati, secondo Améry, perché i loro interessi non sarebbero stati condivisi. L'intellettuale vorrebbe parlare delle abituali letture d'un tempo, ma lascia perdere quando il compagno di letto gli dice per l'ennesima volta 'Che merda!'. Su questo punto, come si sa, la visione di Primo Levi era diversa.
Il tema chiave del libro di Anders è invece quello della Heimat, che si ritrova anche in Intellettuale a Auschwitz. In fondo tutto il viaggio di Anders è un pellegrinaggio alla ricerca d'una Patria dello spirito. Il passo decisivo di questo francofortese è stabilire un collegamento fra Auschwitz e Hiroshima, il che significa che l'Heimat non è più possibile perché l'umanità è sulla strada dell'autodistruzione. C'è un'affinità tra la barbarie delle camere e gas e quella delle bombe atomiche: 'Hitler non faceva una "guerra" contro gli ebrei, gli zingari o altri sottouomini, ma li annientava. E questo principio ha ora trovato un prolungamento'. Qui si riconosce una convergenza con Améry, dove argomenta che se la Heimat è sicurezza, è tradizione, è conforto, gli ebrei di Auschwitz non l'hanno mai posseduta. Questa è anche l'amara scoperta di Stern-Anders che ritornando nel passato vi trova solo spaesamento, estraneità e le ombre dell'atomica." (da Alberto Papuzzi, Intellettuali nel lager vittime due volte, da "TuttoLibri", "La stampa", 19/01/'08)

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