Biblioteca civica "MINO MILANI" bibliogarlasco@yahoo.it tel. 0382/801009 "Le paradis, à n'en pas douter, n'est qu'une immense bibliothèque" (Gaston Bachelard) SELEZIONE DI ARTICOLI SULL'UNIVERSO-LIBRO
giovedì 31 gennaio 2008
American Gangster di Mark Jacobson
"New York, primi Anni Settanta. La Grande Mela è sul punto di esplodere. La crisi economica si riflette nel degrado di quartieri come il Bronx, e un'intera generazione di giovani viene divorata dall'eroina. E' successo anche da noi, in
quegli anni, a Torino come a Roma. Ed è allora che al di là dell'Atlantico comincia a circolare una storia assai macabra, secondo cui la morte arriva in città con i morti. Già, perché intanto in Vietnam gli Stati Uniti stanno perdendo la guerra. E
l'eroina prodotta in Thailandia e negli altri Paesi del Sud-Est asiatico entra in America grazie a un vettore insospettabile, le 'body-bag' che contengono i corpi dei caduti rimpatriati via aerea dall'esercito Usa. Mark Jacobson parte da qui
per mettere assieme il suo American Gangster (American Gangster and Other Tales of New York), bel reportage newyorkese vintage oggi nei cinema per la regia di Ridley Scott, che quando si è trattato di trovare le facce dei protagonisti del libro ha scelto quelle di Russell Crowe e Denzel Washington. E all'ex re della malavita cittadina Frank Lucas, già fornitore di eroina in quel di Harlem e rintracciato a Newark a più di vent'anni di distanza dai fatti, chiede: 'Davvero hai fatto entrare la droga nelle body-bag?'. L'altro, piuttosto male in arnese, quasi si offende, e nega deciso. Macché body-bag, anche un gangster porta rispetto per i caduti al fronte. No, confessa il vecchio Frank, l'eroina arrivava a New York dentro le bare dei marines, fatte costruire con appositi sottofondi da artigiani in combutta con i trafficanti. E una volta, si lascia andare il vecchio gangster, venne usato perfino l'aereo su cui viaggiava Henry Kissinger. Un inizio folgorante, insomma.
Ma la Città Nuda, come Jacobson chiama New York, ha otto milioni di storie da raccontare. Il materiale a un cronista non manca. Così, dall'ex trafficante che un tempo metteva in circolazione la droga alle quattro del pomeriggio per approfittare del cambio di turno degli sbirri, Jacobson passa a raccontare le avventure degli aspiranti tassisti che, intorno alla metà dei Seventies, si trovano ogni giorno a fare la coda al Dover Taxi Garage numero 2. L'ambiente è quello usato da Paul Schrader per scrivere la sceneggiatura di un altro film, quel Taxi Driver che girato da Martin Scorsese vinse la Palma d'Oro a Cannes proprio nel 1976. Ma Jacobson si rifà esplicitamente a esperienze personali, anche perché all'epoca a New York tutti gli aspiranti tassisti avevano una laurea in lettere, non un'origine esotica come oggi, e lui il tassista l'ha fatto davvero, prima di mettersi a scrivere per Rolling Stone o per il Village Voice. E' in quel periodo che al volante delle famose auto gialle compaiono le prime donne, e il turno di notte per loro sarà una conquista, visto che le tariffe sono più alte e c'è meno traffico. Quanto alla Grande Paura che attanaglia gli aspiranti tassisti, è diventare professionisti, dover rinunciare per sempre alle loro ambizioni letterarie o teatrali, trasformarsi in una replica del Vero Tassista, quello che a priori odia il sindaco e s'ingozza di paste alla Bellmore Cafeteria. C'è poi Patty Huston, l'ultimo cowboy irlandese di Sunnyside, la cui faccia è conosciuta in tutti i bar di Queens Boulevard e della Quarantottesima: basta tirare fuori la sua foto segnaletica, è addirittura finito nella Top Ten dei grandi ricercati dell'Fbi. E ci sono Nicky Louie e la sua banda, i Ghost Shadows, giovani immigrati cinesi come lui, capaci di terrorizzare la Chinatown del 1977. Il cronista Jacobson racconta, e sotto i nostri occhi scorre una New York che non esiste più. Locali un tempo celebri che hanno poi chiuso i battenti, personaggi che dettavano legge in città e che oggi ricordano in pochi, o che proprio tutti hanno dimenticato. Bar, caffetterie, discoteche, posti frequentati da tipi di ogni genere, posti prediletti dalla mala e dalla gente di strada, come Natalia, in fondo, la donna da 2000 dollari l'ora, la migliore escort di New York, che come strada usa il sito della NY Confidential, l'agenzia messa in piedi dal pappone Jason Itzler. Ma con lei, recensita col massimo dei voti da quella guida Michelin del sesso che è il sito The-EroticReview.com, ci avviciniamo ai giorni nostri. Mentre la bellezza di un libro come American Gangster, che non è un romanzo e nemmeno una raccolta di racconti ma come si è detto un (appassionato) reportage, sta proprio nella sua capacità di evocare ciò che New York è stata appena pochi decenni fa, e che non è più se non nella memoria di chi l'ha vissuta, o in queste pagine intessute di storie di uomini comuni del XX secolo." (da Giuseppe Culicchia, New York ultima corsa, "TuttoLibri", "La Stampa", 26/01/'08)
"Sweet, Bloody Smell of Success" (da NYTimesMovies)
La scienza tra le nuvole di Giulio Giorello e P. Luigi Gaspa
"I fumetti nuova frontiera dei divulgatori. Il filosofo Giulio Giorello pubblica con il biologo Pier Luigi Gaspa La scienza tra le nuvole (Raffaello Cortina) e ha intenzione di usare l’ultima storia di Paperino vagante tra universi paralleli per il corso sui paradossi del Multiverso che tiene all’Università di Milano. Lo ha preceduto James Kakalios: all’Università del Minnesota, Usa, insegna fisica e astronomia con Superman e l’Uomo Ragno, lezioni trasformate nel libro La fisica dei supereroi (Einaudi). Non sono proprio fumetti, ma il filone è simile: Carlo Toffalori, logico matematico, ci presenta una lettura scientifica dei romanzi polizieschi (Il matematico in giallo, Guanda) e fa capire che dipanare l’intreccio di un delitto ha molte analogie con la dimostrazione di un teorema. Era il 1965, a Torino, quando il giovane Umberto Eco, ancora senza cattedra, teneva corsi liberi di estetica dei fumetti. Luigi Pareyson,suo maestro, forse era perplesso ma lasciava che l’enfant prodige, laureato su San Tommaso, giocasse all’eresia. E così Eco iniziò a sdoganare le storie a strisce. Le quali sono diventate la nona musa con La storia del fumetto (Utet) di Franco Restaino, docente di filosofia teoretica, e hanno conquistato un settore alla Fiera del libro di Torino uscendo dal giro per iniziati di Lucca Comics. L’Italia in declino dimentica facilmente i suoi punti di forza. Tra questi c’è la Disney Global Magazine, con sede in via Sandri a Milano. Sforna 220 milioni di copie all’anno esportandone i quattro quinti in Europa e nel mondo, 130 milioni sono le copie di Topolino, il periodico più diffuso tra i ragazzi sotto i 14 anni. Paperon de’ Paperoni, 60 anni appena compiuti, è in piena salute e se c’è un’industria che tira è quella delle nuvole.
Qualcuno sospetterà che occupandosi di fumetti Giulio Giorello faccia lo snob. Non è così. Nessun sussiego. Giorello non scherza con Pippo, Tex e Satanik strizzando l’occhio agli intellettuali. Giorello li prende sul serio e basta. Per 400 pagine. Ci sono fumetti esplicitamente didattici. Il Galileo di Luca Boschi e Giovanni Di Gregorio insegna il valore dell’esperienza contrapposta al principio di autorità. Altri fumetti raccontano le imprese di Linneo che classifica migliaia di specie viventi e di Darwin che ne scopre l’evoluzione. Esistono fumetti che spiegano le scoperte di Einstein e la meccanica quantistica in modo ineccepibile. Però hanno più fascino i comics che usano la scienza come semplice spunto. In Zio Paperone e un fiume di soldi del 1997 un solvente universale inventato da Archimede Pitagorico crea una polvere pesantissima in quanto sottrae agli atomi il vuoto: e in effetti gli atomi sono costituiti soprattutto di vuoto, tanto che se il nucleo fosse un’arancia gli elettroni gli girerebbero intorno alla distanza di un chilometro. Zio Paperone astronauta già nel 1960 esplora gli asteroidi tra Marte e Giove e li descrive come un residuo dei 'mattoni' che formarono i pianeti del Sistema Solare. In una storia del 1947, un anno dopo Hiroshima, Paperino inventa una improbabile bomba atomica mescolando meteore, polvere di cometa e succo di saetta, ma non è improbabile l’effetto dell’ordigno, che fa cadere i capelli alle sue vittime colpite dalle radiazioni. C’è il lieto fine: una lozione atomica li fa ricrescere e arricchisce Paperino. In una ristampa eticamente più corretta, Paperino mette gratis la lozione miracolosa a disposizione dell’umanità (incluso Berlusconi, si può supporre). Perché i fumetti, spiega Giorello, non sempre sono prigionieri dello scientismo. Pensate a quanta filosofia sul senso della vita c’è nello Snoopy di Schulz." (da Piero Bianucci, Con Paperone e Archimede a caccia di atomi, "TuttoLibri", "La Stampa", 26/01/'08)
mercoledì 30 gennaio 2008
Jon Krakauer, Nelle terre estreme (Into the wild di Sean Penn)
Nelle terre estreme di Jon Krakauer (Corbaccio, 2008): "Ci sono storie dove i personaggi restano uguali a se stessi dall'inizio alla fine; altre, nel corso delle quali evolvono e, insieme, evolve l'opinione che ci facciamo di loro. Ricade nel secondo caso Into the wild, il 'film di formazione' diretto da Sean Penn che ci sorprese e ci emozionò alla Festa del Cinema di Roma. A partire da una vicenda autentica, trascritta nelle pagine del libro Nelle terre estreme di Jon Krakauer, Penn si confronta direttamente col mito originario americano: l'incontro tra l'uomo e la natura selvaggia. Crea, a sua volta, un mito contemporaneo nel protagonista, giovane uomo dalla personalità al confine tra eroismo e fragilità, nevrosi e ricerca della purezza; un 'picaro' dell'anima nipote elettivo dei cavalieri erranti della beat generation. Fa di più: osa realizzare un film sul valore della solitudine in un tempo che avverte la solitudine come il massimo pericolo, tanto da esorcizzarla di continuo con i telefonini, o con la 'rete'. All'inizio degli anni 90, il neolaureato Christopher McCandless dà quel che ha in beneficenza e parte per un lungo viaggio, autentica performance dell'anima per la quale assume un nome d'arte: Alexander Supertramp, il Supervagabondo. Oltreché dalle pulsioni di libertà e anarchismo, è spinto a partire dal rifiuto della famiglia d'origine: cellula di giudizio e controllo sociale, di odio latente, di perfetta infelicità; tanto più spaventosa perché accettata come norma e condizione naturale. Tra Nuovo Messico, Arizona, Sud Dakota, su su fino alle nevose solitudini dell'Alaska, l'itinerario marca una serie d'incontri con l'altro, occasioni di conoscenza e comprensione anche reciproca. Alex s'accompagna a una coppia di hippies, la cui vita non è tutta rose e fiori; lavora in un'azienda agricola, diventando amico di un tale ricercato dalla polizia; flirta con una giovanissima cantante folk; incontra un vecchio eremita, che vuole adottarlo. Già di per sé, intraprendere una tale pista equivale a confrontarsi con la mitologia fondativa della cultura americana, dai pionieri che affrontarono per primi le terre incognite a Thoreau, da London a Kerouac. Tappa dopo tappa, però, il viaggiatore s'immerge sempre più nella solitudine, fino a sfidare le stesse possibilità di sopravvivenza: la wilderness è libertà e verità, ma rappresenta anche il rischio e la minaccia ultima. In una scena ai limiti del sublime Alex, ormai stremato dalle privazioni, si trova di fronte un gigantesco orso bruno: forse affamato quanto lui, eppure non minaccioso. Qui Penn dà forma definitiva al mito dell'incontro tra due creature libere nel Paradiso Perduto, nostalgia lacerante di un'intera cultura tuttora in lutto per la perdita dell'innocenza e che, promotrice della 'civiltà', ad essa annette un irredimibile senso di peccato. Sereno e dolente, stoico e consapevole insieme, refrattario al 'nostalgismo' come al manierismo, lo sguardo della macchina da presa annette di diritto Penn - accanto a Clint Eastwood, Paul Haggis e pochi altri - alla pattuglia transgenerazionale di cineasti capaci di raccogliere la grande eredità del cinema classico americano. Appropriate le canzoni di Eddie Vedder dei Pearl Jam." (da Roberto Nepoti, 'Into the wild, il mito americano nell'incontro tra uomo e natura selvaggia', "La Repubblica", 25/01/'08)
Into the Wild (da Wuz)
"Film Captures Young Man's Journey Into the Wild" (da npr.org)
"Sessant'anni fa moriva per mano di un fanatico il Mahatma"
"'Il venerdì 30 gennaio 1948' - racconta Rajmohan Gandhi - 'cominciò come tutti gli altri giorni per mio nonno. Si svegliò alle tre e mezzo del mattino, recitò la sua preghiera preferita: Perdonami, o Dio misericordioso, per tutti i miei peccati. Non chiedo il paradiso né la mia liberazione ma la fine del dolore per tutti coloro che soffrono...'. A 78 anni, stremato dai ripetuti digiuni di protesta, Gandhi era ormai ridotto a uno scheletro: pesava 49 chili. 'Quel pomeriggio alle cinque uscì per andare al terreno di preghiera. Camminava appoggiandosi alle nipotine Abha e Manu, in mezzo a due ali di folla. Un giovanotto, Nathuram Godse, arrivò di corsa, diede uno spintone a Manu, si piazzò di fronte a Gandhi puntando una pistola. Tre colpi in rapida successione, uno allo stomaco e due al petto. Mio nonno si accasciò tra le braccia di Abha. Mormorò soltanto He Rama: oh Dio. Una macchia rossa di sangue sporcò il vestito di cotone candido. Con le mani giunte in un ultimo segno di saluto e di preghiera, si accasciò per terra'. Godse era un giovane giornalista militante, della corrente più fanatica del nazionalismo indù. Venne arrestato, condannato a morte e giustiziato. Membro della casta braminica, odiava in Gandhi il fautore della riconciliazione con i musulmani. Molti come Godse avevano giurato di eliminare il Mahatma. L´inventore della resistenza passiva, il leader del più grande movimento di liberazione nella storia umana, il padre dell´India indipendente che aveva messo in ginocchio l´impero britannico, era ormai da tempo lui stesso un condannato a morte in attesa di esecuzione. Il calvario di Gandhi comincia almeno un anno prima del suo assassinio. Già all´inizio del 1947, mentre gli inglesi devono rassegnarsi all´inevitabile indipendenza indiana, accettano anche il diktat della comunità musulmana: il leader Mohammed Ali Jinnah vuole la secessione delle regioni settentrionali a maggioranza islamica. L´indipendenza deve coincidere con la spartizione e la nascita del Pakistan. Ma la fondazione di uno Stato islamico, che Gandhi ha avversato fino all´ultimo, non sarà indolore. In tutte le zone del subcontinente le comunità religiose sono mescolate da sempre. Rancori ancestrali che covano da secoli tornano a galla, i leader integralisti soffiano sul fuoco della tensione. Ha inizio la più vasta tragedia di 'pulizia etnica' mai accaduta: un esodo di milioni di persone in preda al panico, tra regolamenti di conti, vendette e massacri. Profeta dell´amore, Gandhi si aggira per il paese cercando di placare gli animi. Spende il suo enorme carisma rivolgendosi soprattutto alla maggioranza induista perché cessi il genocidio. Nell´agosto 1947, proprio mentre a New Delhi il premier Nehru si appresta a celebrare la 'mezzanotte della libertà', il Mahatma si dirige dall´altra parte del paese, nel Bengala, dove la popolazione islamica è numerosa. Arriva a Calcutta dove le autorità sono latitanti, le strade sono in mano a bande armate. Inizia un digiuno che grazie alla diffusione della radio viene seguito con trepidazione da tutta l´India. Sembra che gli riesca un nuovo miracolo, Calcutta vive sospesa in una calma irreale grazie alla sua presenza. I leader delle diverse comunità indù, musulmana e sikh vengono in pellegrinaggio al suo capezzale. S´impegnano solennemente a mantenere la pace, iniziano a disarmare le loro milizie. Lo supplicano d´interrompere il digiuno che lo sta riducendo a un cadavere.
Lord Mountbatten, l´ultimo viceré inglese che nell´interregno comanda ancora l´esercito locale, in quei giorni scrive: 'Nel Punjab ho 500 mila soldati eppure ci sono disordini gravi. Nel Bengala le nostre forze sono fatte di un uomo solo, e non ci sono disordini. Gandhi ha ottenuto con la persuasione morale ciò che quattro divisioni militari non avrebbero ottenuto con la forza'.
Ma quella vittoria è effimera, i focolai di violenza continuano a moltiplicarsi in tutto il paese, il terrore dilaga. Gandhi decide di rientrare a Delhi dove il conflitto religioso imperversa. La capitale è invasa dai campi profughi dove si accalcano gli induisti e i sikh sfollati dal Pakistan: gonfi di risentimento, premono per 'ripulire' il vecchio quartiere islamico e impadronirsi di quelle abitazioni. I musulmani in fuga verso il Pakistan sono a loro volta bersaglio di rappresaglie atroci. I treni degli sfollati vengono assaltati nottetempo dalle bande che li aspettano al varco e macellano orrendamente i passeggeri. Interi convogli silenziosi arrivano di giorno nelle stazioni offrendo uno spettacolo macabro: sono carichi di soli cadaveri.
A Delhi il 13 gennaio 1948 Gandhi comincia un nuovo digiuno. 'Sarà il più grande', confida ai suoi cari. Sarà l´ultimo. Ancora una volta è verso i fratelli di fede induisti che rivolge tutta la sua forza di pressione, la stessa arma della non violenza che per decenni ha usato per piegare gli inglesi. 'Metto Delhi alla prova' - dichiara - 'quali che siano i massacri che avvengono nel resto dell´India o nel Pakistan, imploro il popolo della capitale di non lasciarsi fuorviare dal suo dovere. Anche se tutti gli indù e i sikh del Pakistan dovessero essere sgozzati, la vita del più miserabile bambino musulmano che abita nel nostro paese deve essere salvata'. Aggiunge un'invocazione urgente al governo Nehru: deve versare subito al Pakistan la quota che gli spetta delle riserve della banca centrale che gli inglesi hanno lasciato a Delhi. Sono richieste dure, impopolari. Alimentano la rabbia e i complotti contro di lui. Mentre una parte della popolazione segue con trepidazione il bollettino medico del suo ultimo digiuno, i gesti di ostilità si fanno più frequenti. Un giorno che giace sul letto sfinito dalla fame, un corteo vociferante sfila davanti a casa sua. «Non sento bene», chiede al suo segretario Pyarelal, 'cosa dicono?'. L´assistente esita a lungo prima di rivelargli la verità: 'Urlano: lasciamo che muoia Gandhi'. Le forze sembrano abbandonarlo, i medici perdono ogni speranza, il Mahatma è ormai un moribondo. Dal suo letto di dolore con un filo di voce fa giungere ogni giorno i suoi messaggi alla nazione. La commozione sale di nuovo nel paese, che assiste al sacrificio supremo del leader spirituale.
Il 17 gennaio accade ancora una volta il miracolo. Centotrenta rappresentanti delle diverse comunità religiose votano una mozione per ristabilire la pace sociale. Una delegazione raggiunge la capanna di Gandhi e gli legge 'il desiderio sincero espresso da indù, musulmani, sikh, di vivere a Delhi nell´amicizia perfetta'. Al sesto giorno Gandhi interrompe il suo digiuno. Paradossalmente i festeggiamenti sono più forti in Pakistan: Nehru ha ceduto alle richieste del Mahatma, lo Stato islamico è salvato dalla bancarotta. Ma il 20 gennaio una bomba esplode proprio sul terreno di preghiera dove Gandhi si reca quotidianamente. Lui si salva per caso dall´attentato. Sa che i suoi giorni sono contati, le trame per eliminarlo si moltiplicano: 'Alla fine sarà quel che Rama comanda. Io danzo come un burattino, lui tira i fili'. Sul giornale dell´estremismo indù dove scrive Nathuram Godse il pacifismo gandhiano è accusato di 'evirare la nazione'.
Rajmohan Gandhi ricorda il giorno della morte citando il poeta-sarto Kabir: cinque secoli prima aveva paragonato l´anima umana a una chadariya, un panno di cotone tessuto a mano secondo la tradizione indiana. 'Per più di 40 anni, prima in Sudafrica e poi in India, questa chadariya che è l´anima di mio nonno guidò eserciti di donne e uomini disarmati verso la conquista della dignità. Le pallottole non uccisero quel Gandhi. Lo consegnarono all´eternità dei tempi e ai popoli di tutti i continenti'." (da Federico Rampini, Gandhi, la lezione che l'Occidente ignora, "La Repubblica", 29/01/'08)
Libri su Gandhi
martedì 29 gennaio 2008
La notte di Elie Wiesel
La notte (Night) di Elie Wiesel (Giuntina, 2006): "[...] Quella mattina, il giovane israeliano che mi interrogava per conto di un giornale di Tel Aviv mi ispirò una simpatia dalla quale non dovetti difendermi molto a lungo, perché il nostro discorso prese quasi subito una piega personale. [...] Quel giorno credo di aver toccato per la prima volta il mistero d'iniquità la cui rivelazione avrebbe segnato la fine di un'era e l'inizio di un'altra. Il sogno che l'uomo occidentale ha concepito nel XVIII secolo, del quale credette veder l'aurora nel 1789, e che, fino al 2 agosto 1914, si è rafforzato col progresso dei lumi e con le scoperte della scienza, questo sogno ha finito di dissiparsi per me davanti a quei vagoni carichi di bambini. E tuttavia ero lontano le mille miglia da pensare che andavano a rifornire le camere a gas e i crematori. Ecco ciò che dovetti confidare a quel giornalista, e siccome sospirai: 'Quante volte ho pensato a quei bambini!', lui mi disse: 'Io sono uno di loro'. Era uno di loro! Aveva visto scomparire sua madre, una sorellina adorata e tutti i suoi tranne suo padre, nel forno alimentato da creature viventi. In quanto al padre, doveva assistere al suo martirio, giorno dopo giorno, alla sua agonia e alla sua morte. Che morte! Questo libro ne riferisce le circostanze e lo lascio scoprire ai suoi lettori, che dovrebbero essere così numerosi come quelli del Diario di Anna Frank Così come riferisce per quale miracolo lo stesso bambino riuscì a salvarsi. Ma ciò che affermo è che questa testimonianza, che viene dopo tante altre e che descrive un abominio del quale potremmo credere che nulla ci è ormai sconosciuto, è tuttavia differente, singolare, unica. Ciò che succede agli ebrei di questa piccola città della Transilvania chiamata Sughet, la loro cecità di fronte a un destino che avrebbero avuto il tempo di fuggire e al quale con una inconcepibile passività essi stessi si consegnano, sordi agli avvertimenti, alle suppliche di un testimone scampato a un massacro, che riferisce loro ciò che lui stesso ha visto con i suoi propri occhi, ma a cui rifiutano di credere e che prendono per un demente, ebbene questi fatti sarebbero certamente bastati a ispirare un'opera alla quale nessuna, mi sembra, avrebbe potuto essere comparata [...]". (dalla prefazione di Francois Mauriac)
I libri di Wiesel
Elie Wiesel, Nobel Pace 1986
The Elie Wiesel Foundation for Humanity
"The Story of Night" (da NYTimesBooks)
lunedì 28 gennaio 2008
E poi siamo arrivati alla fine di Joshua Ferris
"Ventimila copie e tre edizioni in Italia, un grande successo nel resto del mondo e infine la consacrazione del New York Times, che lo ha messo tra i cinque migliori romanzi del 2007. E poi siamo arrivati alla fine (Then We Came to the End) di Joshua Ferris, uscito da noi un po' in sordina un anno fa e giustamente rilanciato in questi giorni dalla Neri Pozza nella buona traduzione di Katia Bagnoli, è uno di quei romanzi-sorpresa che ridanno fiducia nella possibilità che siano i lettori a scegliere i successi, e non le logiche del marketing e degli anticipi milionari, che spesso inquinano gli orientamenti degli editori. Tutto questo senza rinunciare alla sfida della sperimentazione che è il sale delle novità letterarie autentiche. Infatti, così come ai tempi di Le mille luci di New York, Jay McInerney aveva intuito che scrivere il romanzo in seconda persona (tu vai, tu fai, al posto di io vado, io faccio) avrebbe reso nel modo più efficace lo straniamneto di una giovane vita nel turbine edonistico della New York degli anni Ottanta, allo stesso modo l'esordiente americano Joshua Ferris è riuscito ai nostri giorni nell'impresa di scrivere un romanzo in prima persona plurale - il 'noi' al posto dell''io' - per rendere attraverso una voce narrante collettiva il mondo di un'agenzia di pubblicità americana, dove gli impiegati sono addestrati a lavorare in gruppi e a confrontarsi in infinite riunioni. E in questo modo ha saputo coinvolgere in modo seduttivo sia quei lettori giovani che si misurano con gli stessi valori e navigano come i personaggi del libro in un mondo di 'brochure' e 'gadget' e 'meeting' e 'briefing', sia i letterati che soppesano le virgole e sanno quando è il caso di inchinarsi al cervello unito alla buona scrittura (non a caso due sponsor del romanzo sono Zadie Smith e Nick Hornby). Dov'è la novità, direte. Dal coro della tragedia greca a Le vergini suicide di Jeffrey Eugenides (altro scrittore americano generazionale, altro newyorkese d'adozione), il 'noi' era già stato sperimentato. Ma dove il 'noi' di Ferris stupisce e convince è nella sua perfetta resa del clima di pettegolezzo, ossessione e angoscia, di un momento cruciale nella recente storia della società americana: quel momento degli anni Novanta in cui si passa dall'euforia del 'dot com boom' alla fase in cui la bolla informatica scoppia e il mercato crolla e tutte le certezze di un momento fa svaniscono nella precarietà. 'Vi state già annoiando?', ironizza Joshua Ferris. 'Noi ci annoiavamo tutti i giorni. La nostra noia era sempre in corso, una noia collettiva, e non sarebbe mai morta perché noi non saremmo mai morti'. Cos'è questa se non la voce dell'onnipotenza giovanile? La voce di chi scrive 'eravamo giovani e strapagati' e intanto nuota in un acquario lontano dall'oceano della vita vera, prima che i licenziamenti arrivino come l'inizio della fine, e in fondo in fondo, coem una liberazione." (da Livia Manera, Il mondo precario di Joshua Ferris, "Corriere della sera", 27/01/'08)
Nine to five (da GuardianUnlimietdBooks)
Writers' rooms: Joshua Ferris (da GuardianUnlimietdBooks)
Il matematico in giallo di Carlo Toffalori
"Chi ama i racconti polizieschi, o 'gialli', sa che la visione del mondo che raccontano è fondamentalmente laica, intendo dire terrena. Alla fine della storia, il delitto si deve spiegare con il solo aiuto della ragione. La tecnica del poliziesco infatti esclude ogni intervento di forze soprannaturali, di fenomeni che non siano comprensibili alla luce della sola analisi razionale degli eventi.
Un libro appena uscito fa sua questa tesi sviluppandola nel modo più conveniente: Il matematico in giallo di Carlo Toffalori (Guanda). L'autore, che insegna Logica matematica a Camerino, mette sotto la sua lente vari investigatori classici esaminandoli proprio dal punto di vista del comportamento logico. Una storia che comincia con il primo (anche se non il più famoso) della serie, quel Monsieur Auguste Dupin creato da Edgar Allan Poe, che contro ogni apparenza e in base alla sola concatenazione del ragionamento è in grado di scoprire l'assassino. Anche pensando a Dupin, il filosofo tedesco Konrad Krakauer scrisse a suo tempo che il modus operandi dell'investigatore ricorda la mente kantiana, che analizza la realtà per illuminare il mondo.
Mentre non molti mesi fa la scrittrice E. J. Wagner ha pubblicato un intero libro dedicato a La scienza di Sherlock Holmes (Bollati Boringhieri) per spiegare quale bagaglio scientifico il famoso detective adoperava nelle sue indagini. Il punto di vista adottato da Carlo Toffalori mette bene in luce come il racconto poliziesco sia un figlio spurio, potremmo dire un mutante, rispetto al romanzo gotico inglese da cui deriva. Nel gotico fanno la loro apparizione fantasmi e altre creature, si verificano fenomeni riconducibili all'intervento di forze ultraterrene. Nel giallo questo non accade come nell'ampia casistica brillantemente esposta, fa capire. Un caso su tutti, quel mostro di ingegneria cerebrale rappresentato dal 'ciccione' Nero Wolfe. Ma Toffalori racconta perfino colui che appare il meno matematico tra gli investigatori, cioè il parigino commissario Maigret. Che ha a che fare con la matematica quel bonario dirigente di questura? Lui e la sua placida moglie, le minestrine, le pantofole, la pipa? Invece 'Le stesse atmosfere delle indagini di Maigret si respirano spesso anche nella ricerca matematica, ove pure si genera un rimuginio lento, talora ossessivo' scrive non a torto l'autore. Chiude questo itinerario la conferma che, anche nel caso dei 'gialli', la logica matematica un difetto lo ha: nella sua neutralità serve altrettanto bene l'investigatore quanto l'assassino". (da Corrado Augias, La soluzione dei gialli? E' sempre la matematica, "Il venerdì di Repubblica", 25/01/'08)
Un libro appena uscito fa sua questa tesi sviluppandola nel modo più conveniente: Il matematico in giallo di Carlo Toffalori (Guanda). L'autore, che insegna Logica matematica a Camerino, mette sotto la sua lente vari investigatori classici esaminandoli proprio dal punto di vista del comportamento logico. Una storia che comincia con il primo (anche se non il più famoso) della serie, quel Monsieur Auguste Dupin creato da Edgar Allan Poe, che contro ogni apparenza e in base alla sola concatenazione del ragionamento è in grado di scoprire l'assassino. Anche pensando a Dupin, il filosofo tedesco Konrad Krakauer scrisse a suo tempo che il modus operandi dell'investigatore ricorda la mente kantiana, che analizza la realtà per illuminare il mondo.
Mentre non molti mesi fa la scrittrice E. J. Wagner ha pubblicato un intero libro dedicato a La scienza di Sherlock Holmes (Bollati Boringhieri) per spiegare quale bagaglio scientifico il famoso detective adoperava nelle sue indagini. Il punto di vista adottato da Carlo Toffalori mette bene in luce come il racconto poliziesco sia un figlio spurio, potremmo dire un mutante, rispetto al romanzo gotico inglese da cui deriva. Nel gotico fanno la loro apparizione fantasmi e altre creature, si verificano fenomeni riconducibili all'intervento di forze ultraterrene. Nel giallo questo non accade come nell'ampia casistica brillantemente esposta, fa capire. Un caso su tutti, quel mostro di ingegneria cerebrale rappresentato dal 'ciccione' Nero Wolfe. Ma Toffalori racconta perfino colui che appare il meno matematico tra gli investigatori, cioè il parigino commissario Maigret. Che ha a che fare con la matematica quel bonario dirigente di questura? Lui e la sua placida moglie, le minestrine, le pantofole, la pipa? Invece 'Le stesse atmosfere delle indagini di Maigret si respirano spesso anche nella ricerca matematica, ove pure si genera un rimuginio lento, talora ossessivo' scrive non a torto l'autore. Chiude questo itinerario la conferma che, anche nel caso dei 'gialli', la logica matematica un difetto lo ha: nella sua neutralità serve altrettanto bene l'investigatore quanto l'assassino". (da Corrado Augias, La soluzione dei gialli? E' sempre la matematica, "Il venerdì di Repubblica", 25/01/'08)
"Vietato non toccare: bambini a contatto con Bruno Munari"
"'Un Peter Pan di statura leonardesca'. Così il critico Pierre Restany definì Bruno Munari. Tutto vero: Munari leggeva e ridisegnava il mondo con l'idea che l'unico modo corretto di osservarlo fosse abbandonare ogni certezza adulta. Per l'adorata infanzia il geniale artista e pedagogo milanese spese molta parte del proprio lavoro, soprattutto negli ultimi anni, durante i quali elaborò strumenti e attività di quello che è a tutti gli effetti un modello didattico.
Poetica della semplicità, libera interpretazione, educazione dei sensi, invenzione. I piccoli 'nipoti' di Munari nel 2008, pur di poter imparare così, si mettono in coda. Lunedì il Muba (Museo del bambino), la fondazione dedicata all'allestimento di mostre itineranti dedicate ai bambini, porterà alla Triennale "Vietato non toccare: bambini a contatto con Munari", un percorso per giovanissimi, dai due ai sei anni, ispirato da una delle idee più innovative dell'artista. I famosi prelibri, pubblicati per Danese nel 1980 e oggi riproposti dalle edizioni Corraini. Dodici libretti da dieci centimetri quadrati 'adatti a piccole mani', forme e materiali diversi, nemmeno una parola, per avvicinare i piccoli all'oggetto-libro prima della scoperta dell'alfabeto. Soprattutto prima che le noiose pubblicazioni scolastiche possano annoiare i giovani lettori allontanandoli da quello che Munari considerava il più potente mezzo di trasmissione culturale. Massimi cinquanta centimetri di altezza lungo tutto il percorso, tutor a seguire i piccoli ma senza disturbarli, l'allestimento del Muba parte da dieci scatole con sorpresa. Dentro, sassi che somigliano a isole, pietre da riordinare, oppure nasi, occhi, bocche da ricomporre a piacere in visi di fantasia. Ancora sorprese: ci si intrufola in tane senza luce e per scoprire in ognuna la sensazione di un materia diversa. Quella dura del capitonné, morbida e costosa del cashmere, fredda della pelle, esilarante della plastica da imballaggio con le palline. Usciti, su lavagne e tavoli retroilluminati i bambini possono sovrapporre a piacere i lucidi più diversi. Cieli, mari, animali, cani uno sopra l'altro. E infine, nell'ultima sezione, ecco i prelibri che sbocciano da un enorme prato verde, come fiori. Ci si può fermare a sfogliarli oppure servirsi degli strumenti a disposizione - fogli, bucatrici, plastiche e veline - e costruirne di propri. Per chi volesse continuare a produrne, è a disposizione al termine della visita un volume gratuito stampato per l'occasione che spiega come. Non solo Triennale. Il fenomeno della scuola alla Munari ha dato vita anche a un laboratorio permanente che replica quello originale del 1977 presentato a Brera. Il Munlab è una sorta di atelier per infanti in cui si incoraggia la libertà creativa secondo i canoni delle 'regole regolabili' e della 'fantasia esatta'. Si maneggia di tutto. Sabbie, tessuti, carta, plastica, legno. E ancora: la mostra su Munari alla Rotonda della Besana (fino al 10 febbraio). " (da Simone Mosca, Nonno Bruno è in cielo ma gioca ancora con noi, "La Repubblica", 26/01/'08)
Munlab.it
Poetica della semplicità, libera interpretazione, educazione dei sensi, invenzione. I piccoli 'nipoti' di Munari nel 2008, pur di poter imparare così, si mettono in coda. Lunedì il Muba (Museo del bambino), la fondazione dedicata all'allestimento di mostre itineranti dedicate ai bambini, porterà alla Triennale "Vietato non toccare: bambini a contatto con Munari", un percorso per giovanissimi, dai due ai sei anni, ispirato da una delle idee più innovative dell'artista. I famosi prelibri, pubblicati per Danese nel 1980 e oggi riproposti dalle edizioni Corraini. Dodici libretti da dieci centimetri quadrati 'adatti a piccole mani', forme e materiali diversi, nemmeno una parola, per avvicinare i piccoli all'oggetto-libro prima della scoperta dell'alfabeto. Soprattutto prima che le noiose pubblicazioni scolastiche possano annoiare i giovani lettori allontanandoli da quello che Munari considerava il più potente mezzo di trasmissione culturale. Massimi cinquanta centimetri di altezza lungo tutto il percorso, tutor a seguire i piccoli ma senza disturbarli, l'allestimento del Muba parte da dieci scatole con sorpresa. Dentro, sassi che somigliano a isole, pietre da riordinare, oppure nasi, occhi, bocche da ricomporre a piacere in visi di fantasia. Ancora sorprese: ci si intrufola in tane senza luce e per scoprire in ognuna la sensazione di un materia diversa. Quella dura del capitonné, morbida e costosa del cashmere, fredda della pelle, esilarante della plastica da imballaggio con le palline. Usciti, su lavagne e tavoli retroilluminati i bambini possono sovrapporre a piacere i lucidi più diversi. Cieli, mari, animali, cani uno sopra l'altro. E infine, nell'ultima sezione, ecco i prelibri che sbocciano da un enorme prato verde, come fiori. Ci si può fermare a sfogliarli oppure servirsi degli strumenti a disposizione - fogli, bucatrici, plastiche e veline - e costruirne di propri. Per chi volesse continuare a produrne, è a disposizione al termine della visita un volume gratuito stampato per l'occasione che spiega come. Non solo Triennale. Il fenomeno della scuola alla Munari ha dato vita anche a un laboratorio permanente che replica quello originale del 1977 presentato a Brera. Il Munlab è una sorta di atelier per infanti in cui si incoraggia la libertà creativa secondo i canoni delle 'regole regolabili' e della 'fantasia esatta'. Si maneggia di tutto. Sabbie, tessuti, carta, plastica, legno. E ancora: la mostra su Munari alla Rotonda della Besana (fino al 10 febbraio). " (da Simone Mosca, Nonno Bruno è in cielo ma gioca ancora con noi, "La Repubblica", 26/01/'08)
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domenica 27 gennaio 2008
Dodici giorni al mare di Cesare Pavese
"Erano i giorni del ritrovamento del cadavere di Giacomo Matteotti, si consumava l'estate del 1922 che di lì a poco, in ottobre, sarebbe culminata nella marcia su Roma. Ma per il giovane Cesare Pavese, che a settembre avrebbe compiuto quattordici anni, fu davvero una bella estate. Insieme a un gruppo di compagni, il 12 agosto partì dalla stazione ferroviaria di Torino per raggiungere Celle Ligure e trascorrere nel borgo rivierasco poco meno di due settimane in un campo scout. La vacanza segnò l'incontro del futuro scrittore con il mare e con il porto di Genova. Quel mare e quei bastimenti battenti bandiere di tutto il mondo che, in virtù della lettura delle storie di Salgari, avevano riempito i sogni di un ragazzo che avrebbe poi tradotto Moby Dick di Herman Melville e avrebbe scritto la poesia I mari del sud. Come è regola per tutti gli scout, anche Pavese dovette compilare un diario della 'avventura' in Liguria. E lui si attenne all'obbligo, aggiungendovi cartoline, disegni e persino una lista delle navi all'ancora nel bacino di Lanterna.
Il quaderno venne conservato. Dopo la sua morte, avvenuta il 27 agosto del 1950, finì alla famiglia che in seguito lo consegnò al Centro Pavese e Guido Gozzano dell'università torinese. E tra quelle carte lo ha trovato tempo fa Mariarosa Masoero, tra le maggiori studiose pavesiane, erede del magistero di Marziano Guglielminetti. Grazie a Fabrizio Calzia, un giornalista e scrittore genovese che ha fondato la casa editrice Galata e che era venuto a conoscenza dell'inedito dell'autore de Il diavolo sulle colline, ora il taccuino di Celle è diventato il piccolo e prezioso libro Dodici giorni al mare. Sarà in libreria in settimana, con un'ampia introduzione della professoressa Masoero. Per riuscire a pubblicarlo Calzia ha dovuto attendere a lungo, e soprattutto ottenere il benestare degli eredi dello scrittore e dell'Einaudi, che da sempre ha l'esclusiva per la pubblicazione delle sue opere. E' stimolante, ricco di spunti e per certi versi illuminante, il diario ritrovato dello scrittore da cucciolo. Intanto perché dimostra come l'adolescente Cesare fin da allora fosse consapevole di avere in destino la letteratura, dato che a un certo punto, nello stendere le note da Celle, si rivolge già a un ipotetico lettore: 'Non starò a descrivere il mio quarto di guardia, lo lascio immaginare al lettore'. E in secondo luogo, spiega Mariarosa Masoero, ha un valore in quanto si possono cogliere i sintomi aurorali della sua 'passione marinara'. Sarebbe maturata ai tempi della traduzione del capolavoro di Melville, però affondava 'le sue radici nei ricordi d'infanzia, nelle letture salgariane ('Oh da quando ho giocato ai pirati malesi / quanto tempo è trascorso'), nei racconti del cugino Silvio e degli amici, nelle fantasie adolescenziali e forse, perché no, in quel lontano, magico, incontro col mare vissuto a Celle Ligure e a Genova, tra una ventina di compagni festosi, lontano da casa e dai luoghi a lui più famigliari, Torino e le Langhe'. La stessa Genova, rammenta Masoero, ritornerà nei racconti e nei romanzi. In modo significativo sarà presente ne La luna e i falò, il libro estremo, l'ultimo, che Pavese scrisse. Il protagonista Anguilla "lì sarà 'soldato', si innamorerà di 'una ragazza che somigliava a Silvia', girerà 'carugi' e 'cantieri', s'imbarcherà per l'America e lì ritornerà, per lavorare e vivere 'in viale Corsica'. Da lì si allontanerà per un momentaneo ritorno ai luoghi dell'infanzia e della prima giovinezza", le Langhe, dove racconterà a Cinto, un ragazzo sciancato, che 'anche il mare è venuto con le righe delle correnti, e che da bambino guardando le nuvole e la strada delle stelle, senza saperlo aveva già cominciato i suoi viaggi'. Un viaggio vagheggiato ma impossibile, che aveva iniziato nell'agosto del 1922. Osservando 'mille fulguri celesti' e una spiaggia 'con l'azzurro carico tutto solcato da fini triangoli bianchi'." (da Massimo Novelli, Cesare Pavese, ritratto dello scrittore cucciolo, "La Repubblica", 27/01/'08)
Il volume sarà presentato a Genova lunedì 28 gennaio alle 18 a Palazzo Ducale, nell'ambito della manifestazione GenovaInedita.
La luna e i falò (anteprima da GoogleBooks)
Il pianista di Wladyslaw Szpilman
Il pianista (The Pianist, the Extraordinary True Story of One Man's Survival in Warsaw, 1939-1945) di Wladyslaw Szpilman: il 23 settembre 1939 Wladyslaw Szpilman, un giovane pianista di Varsavia, suonò il 'Notturno' in C diesis minore di Chopin per la radio locale, mentre le bombe tedesche cadevano sulla città. Più tardi, un ordigno tedesco distrusse la centrale elettrica e la stazione radio polacca fu ridotta al silenzio. La guerra precipitò Varsavia nell'orrore dell'occupazione nazista. Rinchiusi nel ghetto, gli ebrei furono a poco a poco decimati. Agghiacciato testimone degli eventi che porteranno alla rivolta e all'evacuazione della città, Szpilman vide morire molti dei suoi amici e la sua intera famiglia, riuscendo miracolosamente a sopravvivere tra le rovine della sua amata Varsavia. Il pianista è allo stesso tempo la storia straordinaria della tenacia di un uomo di fronte alla morte e un documento della misteriosa, possibile umanità degli esseri umani: la vita di Szpilman fu salvata da un ufficiale tedesco che lo udì suonare quello stesso 'Notturno' di Chopin su un pianoforte trovato fra le macerie.
Il Pianista, il film di Roman Polanski (2002)
sabato 26 gennaio 2008
Il treno di Georges Simenon
"Maggio 1940, un treno merci carico di profughi attraversa la Francia, dalle Ardenne evacuate davanti all'avanzare della Wehrmacht fino a La Rochelle. A bordo del convoglio mitragliato dagli aerei tedeschi e sballottato tra stanzioncine e campi di raccolta, un microcosmo fatto di attesa, frasi spezzate, sguardi.
Dove un anti-eroe perfetto nei dettagli, dalla gracilità fisica alle ferite d'infanzia, dalla voluttà di sciogliersi da ogni responsabilità nell'onda del destino alla smania d'essere per una volta se stesso sapendo che non vuol dire migliore, incontra, nell'amplesso al buio sulla paglia della carrozza con Anna, ebrea praghese in fuga e casuale compagna di viaggio, il suo attimo di felicità. Diversa da quella ordinaria 'come il suono, che viene passando l'archetto dal lato sbagliato del ponticello, sta al suono normale di un violino. Un suono acuto, squisito, che faceva deliziosamente male'. Non fosse per l'uscita casuale a ridosso del Giorno della memoria, Il treno di Simenon (che mancava da tempo dalle librerie, era nel primo volume Mondadori dell'opera completa, 1966) potrebbe passare per il racconto intimo di un amour fou. Mentre è anche un piccolo capolavoro dell'antimemoria, composto vent'anni dopo in Svizzera dall'autore accusato di collaborazionismo: appena il treno arriva la vita riprende 'quasi normale, tranne per la presenza dei tedeschi e per l'approvvigionamento dei viveri'. La tempesta che scuote il mondo ha donato ai profughi lampi di disperata vitalità ma lascia incredibilmente intatto il resto: Marcel Feron, 'commerciante di apparecchi radio a Fumay' ritova moglie e figlia perse nello sfollamento, 'quasi deluso che tutto si sistemasse così facilmente'; tedeschi 'giovani, rosei e freschi come a una parata continuavano a sfilare senza occuparsi di noi'. Non a caso Il treno è l'unico dei quattrocento libri dell'autore a mettere in scena la Seconda guerra mondiale (insieme al giallo Il clan degli Ostendesi), per di più in forma di memoir del protagonista con 'l'idea di lasciare a mio figlio un'altra immagine di me'. Per dirgli, certo, 'che per alcune settimane sono stato capace di provare passione', ma soprattutto che il segreto oscuro di quei giorni - come sempre in Simenon frutto meno della colpa che dell'umana natura - è l'essere stato 'uomo fra milioni di altri uomini in balia di forze superiori', rifiutando 'di lasciar interferire l'avvenire col presente'. Mentre l'unica interferenza è del passato, il ricordo ricorrente della madre rapata a zero e denudata dopo la Prima guerra mondiale nelle Ardenne, già allora occupate dai tedeschi, 'i loro caschi a punta, le mantelline degli ufficiali, i manifesti sui muri, i razionamenti, il pane cattivo': anche lei travolta dal destino. Ad Anna, la donna del treno, fino all'ultimo vista solo con gli occhi stupiti e quasi stupidi di Marcel ('Si sarebbe detto che avesse passato la vita a seguire un uomo, che fosse stata creata per questo'), il fato riserva però un epilogo diverso: la incontrerà fugacemente un anno dopo mentre scappa da una retata della Gestapo, scortando da partigana un pilota inglese. Non le darà aiuto e ne leggerà poi il nome in un elenco di fucilati. Finale così spietato che un film tratto dal racconto, Noi due senza domani con Trintignant e Romy Schneider, lo capovolge in una patriottica doppia esecuzione. E invece è l'indizio più serio che Il treno, pur scritto al solito ritmo forsennato (Simenon l'ha iniziato il 18 marzo e l'ha finito il 25, nello stesso 1961 del noir Betty e di Maigret e il ladro indolente), è un libro speciale. Davvero troppo cinico e psicologicamente affilato per non riguardare altri tradimenti che quello di una moglie incinta dimenticata sul vagone sbagliato." (da Maurizio Bono, L'oscuro segreto di un anti-eroe, "Almanacco dei libri", "La Repubblica", 26/01/'08)
Le Centre d'études Georges Simenon et le Fonds Simenon de l'Université de Liège
Dove un anti-eroe perfetto nei dettagli, dalla gracilità fisica alle ferite d'infanzia, dalla voluttà di sciogliersi da ogni responsabilità nell'onda del destino alla smania d'essere per una volta se stesso sapendo che non vuol dire migliore, incontra, nell'amplesso al buio sulla paglia della carrozza con Anna, ebrea praghese in fuga e casuale compagna di viaggio, il suo attimo di felicità. Diversa da quella ordinaria 'come il suono, che viene passando l'archetto dal lato sbagliato del ponticello, sta al suono normale di un violino. Un suono acuto, squisito, che faceva deliziosamente male'. Non fosse per l'uscita casuale a ridosso del Giorno della memoria, Il treno di Simenon (che mancava da tempo dalle librerie, era nel primo volume Mondadori dell'opera completa, 1966) potrebbe passare per il racconto intimo di un amour fou. Mentre è anche un piccolo capolavoro dell'antimemoria, composto vent'anni dopo in Svizzera dall'autore accusato di collaborazionismo: appena il treno arriva la vita riprende 'quasi normale, tranne per la presenza dei tedeschi e per l'approvvigionamento dei viveri'. La tempesta che scuote il mondo ha donato ai profughi lampi di disperata vitalità ma lascia incredibilmente intatto il resto: Marcel Feron, 'commerciante di apparecchi radio a Fumay' ritova moglie e figlia perse nello sfollamento, 'quasi deluso che tutto si sistemasse così facilmente'; tedeschi 'giovani, rosei e freschi come a una parata continuavano a sfilare senza occuparsi di noi'. Non a caso Il treno è l'unico dei quattrocento libri dell'autore a mettere in scena la Seconda guerra mondiale (insieme al giallo Il clan degli Ostendesi), per di più in forma di memoir del protagonista con 'l'idea di lasciare a mio figlio un'altra immagine di me'. Per dirgli, certo, 'che per alcune settimane sono stato capace di provare passione', ma soprattutto che il segreto oscuro di quei giorni - come sempre in Simenon frutto meno della colpa che dell'umana natura - è l'essere stato 'uomo fra milioni di altri uomini in balia di forze superiori', rifiutando 'di lasciar interferire l'avvenire col presente'. Mentre l'unica interferenza è del passato, il ricordo ricorrente della madre rapata a zero e denudata dopo la Prima guerra mondiale nelle Ardenne, già allora occupate dai tedeschi, 'i loro caschi a punta, le mantelline degli ufficiali, i manifesti sui muri, i razionamenti, il pane cattivo': anche lei travolta dal destino. Ad Anna, la donna del treno, fino all'ultimo vista solo con gli occhi stupiti e quasi stupidi di Marcel ('Si sarebbe detto che avesse passato la vita a seguire un uomo, che fosse stata creata per questo'), il fato riserva però un epilogo diverso: la incontrerà fugacemente un anno dopo mentre scappa da una retata della Gestapo, scortando da partigana un pilota inglese. Non le darà aiuto e ne leggerà poi il nome in un elenco di fucilati. Finale così spietato che un film tratto dal racconto, Noi due senza domani con Trintignant e Romy Schneider, lo capovolge in una patriottica doppia esecuzione. E invece è l'indizio più serio che Il treno, pur scritto al solito ritmo forsennato (Simenon l'ha iniziato il 18 marzo e l'ha finito il 25, nello stesso 1961 del noir Betty e di Maigret e il ladro indolente), è un libro speciale. Davvero troppo cinico e psicologicamente affilato per non riguardare altri tradimenti che quello di una moglie incinta dimenticata sul vagone sbagliato." (da Maurizio Bono, L'oscuro segreto di un anti-eroe, "Almanacco dei libri", "La Repubblica", 26/01/'08)
Le Centre d'études Georges Simenon et le Fonds Simenon de l'Université de Liège
Fuoco amico di Abraham B. Yehoshua
"E' stanco, Abraham Yehoshua. Negli ultimi anni ha speso tante parole per commentare sui giornali il conflitto arabo-palestinese, nel fuoco del quale vive da sempre, per prefigurare una pace che oggi pare un miraggio.
Nei suoi romanzi quegli stessi temi caldi scendono dalla testa dell'autorevole analista politico al cuore dello scrittore, tingendosi di sfumature più indistinte, contrastate, ambivalenti. E' senz'altro così in Fuoco amico, che esce tra pochi giorni in Italia da Einaudi. All'apparenza è una finestra d'una settimana sulla vita di una coppia di israeliani di mezza età che abita a Tel Aviv [...]. Yirmiyahu, però è diventato un altro uomo: la morte del figlio per un 'fuoco amico', poi quella della moglie, hanno lavorato in lui rivoluzionando la sua visione della vita. E Israele non vuol più neanche sentirla nominare. Così, tra le pieghe della quotidianità di una famiglia come tante, si legge una stanchezza grave, insolita per un fautore della pace quale è sempre stato Yehoshua, risultato di una delusione generalizzata. La soluzione del conflitto pare irraggiungibile, e ognuno cerca il suo privato riparo consolatorio: chi nella rabbia d'un altezzoso esilio, chi nell'oblio rassicurante dei legami di famiglia. Istituzione che oggi solo nel contesto d'una guerra insidiosa, agghiacciante come quella del Medio Oriente, gode di una così ferrea salute. [...] Lei alterna molto la narrazione tra Africa e Israele. Perché? 'L'incessante altalena nel racconto tra Yaari e Daniela fa sì che si possano creare tra le vicende connessioni che neanch'io immaginavo: i venti che ululano nella cabina di uno degli ascensori installati da Yaari in un condominio di Tel Aviv, sono per me le voci degli spettri delle vittime civili dell'Intifada che non trovano riposo. Negli ultimi cinque anni le morti di palestinesi e israeliani innocenti sono aumentate in maniera esponenziale: se sei nell'esercito metti in conto di morire, se sei in un caffè o su un autobus, la tua vita è spazzata via ingiustamente. Proprio nel momento in cui Yaari cerca la fonte di quei rumori, Daniela arriva in Africa: e Sijn Kuang, la giovane sudanese che l'accompagna al campo della spedizione scientifica in cui lavora il cognato, le racconta d'aver perso l'intera famiglia nei massacri del Sudan. [...]' Il cognato Yirmiyahu è un personaggio difficile, matura una posizione di rifiuto totale per Israele. 'Sì, è un personaggio nuovo nel mio universo: vuole staccarsi dalla storia, dagli ebrei. Quando Daniela arriva coi giornali israeliani, li brucia. Ma questo rifiuto non è né un atteggiamento critico né nostalgico: è la determinazione di chi dice: "Ora basta". Ho la sensazione che questo senso di nausea di Yirmiyahu, che ho iniziato ad analizzare grazie al suo personaggio, stia crescendo molto in Israele. La gente è stanca, non guarda più il tg. Il destino ebraico, l'Olocausto, le guerre in Israele, la striscia di Gaza ...: è un peso troppo grande. Siamo un popolo al quale la storia non ha mai concesso un periodo di pace, mai abbiamo vissuto in armonia col mondo. La gente sta cominciando a credere che ciò non finirà mai'. [...] La minaccia della guerra rende più forte la famiglia? 'Certo. Anche per i palestinesi la famiglia è importante. I miei figli maschi sono stati nell'esercito: in quel periodo erano più attaccati a noi che mai. Ricordo lo shock della morte di Uri, il figlio di David Grossman: chiamavo ogni due-tre giorni chiedendo notizie, avevamo firmato una petizione al governo per cessare la guerra, avviare i negoziati. Rispose sua moglie, disse che Uri era stato ucciso nella notte. Sono sempre stato ottimista, confido nel potere della volontà, della ragione, della morale, per cambiare l'uomo in meglio, gestire l'imprevedibile della vita. Non credo nel mistero, nel destino. Ora sono sfiduciato, fatalista, sul conflitto in Israele. Ci serve l'aiuto del mondo: solo un intervento esterno assertivo, che imponga la soluzione alle parti più che suggerirla, può salvare la situazione'." (da Monica Capuani, Intervista, DLa Repubblica delle donne, 26/01/'08)
Yehoshua nel catalogo Einaudi
"Speciale Yehoshua" (da RaiRadio3)
"Etica e letteratura" (da Wuz)
Nei suoi romanzi quegli stessi temi caldi scendono dalla testa dell'autorevole analista politico al cuore dello scrittore, tingendosi di sfumature più indistinte, contrastate, ambivalenti. E' senz'altro così in Fuoco amico, che esce tra pochi giorni in Italia da Einaudi. All'apparenza è una finestra d'una settimana sulla vita di una coppia di israeliani di mezza età che abita a Tel Aviv [...]. Yirmiyahu, però è diventato un altro uomo: la morte del figlio per un 'fuoco amico', poi quella della moglie, hanno lavorato in lui rivoluzionando la sua visione della vita. E Israele non vuol più neanche sentirla nominare. Così, tra le pieghe della quotidianità di una famiglia come tante, si legge una stanchezza grave, insolita per un fautore della pace quale è sempre stato Yehoshua, risultato di una delusione generalizzata. La soluzione del conflitto pare irraggiungibile, e ognuno cerca il suo privato riparo consolatorio: chi nella rabbia d'un altezzoso esilio, chi nell'oblio rassicurante dei legami di famiglia. Istituzione che oggi solo nel contesto d'una guerra insidiosa, agghiacciante come quella del Medio Oriente, gode di una così ferrea salute. [...] Lei alterna molto la narrazione tra Africa e Israele. Perché? 'L'incessante altalena nel racconto tra Yaari e Daniela fa sì che si possano creare tra le vicende connessioni che neanch'io immaginavo: i venti che ululano nella cabina di uno degli ascensori installati da Yaari in un condominio di Tel Aviv, sono per me le voci degli spettri delle vittime civili dell'Intifada che non trovano riposo. Negli ultimi cinque anni le morti di palestinesi e israeliani innocenti sono aumentate in maniera esponenziale: se sei nell'esercito metti in conto di morire, se sei in un caffè o su un autobus, la tua vita è spazzata via ingiustamente. Proprio nel momento in cui Yaari cerca la fonte di quei rumori, Daniela arriva in Africa: e Sijn Kuang, la giovane sudanese che l'accompagna al campo della spedizione scientifica in cui lavora il cognato, le racconta d'aver perso l'intera famiglia nei massacri del Sudan. [...]' Il cognato Yirmiyahu è un personaggio difficile, matura una posizione di rifiuto totale per Israele. 'Sì, è un personaggio nuovo nel mio universo: vuole staccarsi dalla storia, dagli ebrei. Quando Daniela arriva coi giornali israeliani, li brucia. Ma questo rifiuto non è né un atteggiamento critico né nostalgico: è la determinazione di chi dice: "Ora basta". Ho la sensazione che questo senso di nausea di Yirmiyahu, che ho iniziato ad analizzare grazie al suo personaggio, stia crescendo molto in Israele. La gente è stanca, non guarda più il tg. Il destino ebraico, l'Olocausto, le guerre in Israele, la striscia di Gaza ...: è un peso troppo grande. Siamo un popolo al quale la storia non ha mai concesso un periodo di pace, mai abbiamo vissuto in armonia col mondo. La gente sta cominciando a credere che ciò non finirà mai'. [...] La minaccia della guerra rende più forte la famiglia? 'Certo. Anche per i palestinesi la famiglia è importante. I miei figli maschi sono stati nell'esercito: in quel periodo erano più attaccati a noi che mai. Ricordo lo shock della morte di Uri, il figlio di David Grossman: chiamavo ogni due-tre giorni chiedendo notizie, avevamo firmato una petizione al governo per cessare la guerra, avviare i negoziati. Rispose sua moglie, disse che Uri era stato ucciso nella notte. Sono sempre stato ottimista, confido nel potere della volontà, della ragione, della morale, per cambiare l'uomo in meglio, gestire l'imprevedibile della vita. Non credo nel mistero, nel destino. Ora sono sfiduciato, fatalista, sul conflitto in Israele. Ci serve l'aiuto del mondo: solo un intervento esterno assertivo, che imponga la soluzione alle parti più che suggerirla, può salvare la situazione'." (da Monica Capuani, Intervista, DLa Repubblica delle donne, 26/01/'08)
Yehoshua nel catalogo Einaudi
"Speciale Yehoshua" (da RaiRadio3)
"Etica e letteratura" (da Wuz)
"1938 - 1945. La persecuzione degli ebrei in Italia"
"1938 - 1945. La persecuzione degli ebrei in Italia" mostra a cura della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (Milano), in occasione del settantesimo dell’introduzione delle leggi antiebraiche nell’Italia fascista, da lunedì 21 gennaio a sabato 16 febbraio presso la Biblioteca di Garlasco (Sala Mostre, via Ss. Trinità 6)
Mostra digitale
Concerto della memoria con Mosaik group, sabato 26 gennaio, ore 21.15, Teatro Martinetti - Garlasco
venerdì 25 gennaio 2008
Hotel Meina. La prima strage di ebrei in Italia di Marco Nozza
"La storia degli ebrei di Meina è la summa di una persecuzione tanto chiara nei suoi effetti quanto oscura nelle sue origini. Se questa atroce pagina fu travisata a posteriori, ora in questo prezioso lavoro appare fissata per sempre nella nostra storia" (Giorgio Bocca)
Hotel Meina. La prima strage di ebrei in Italia di Marco Nozza (Il Saggiatore, 2008): con la forza di decine di testimonianze dirette, Marco Nozza ricostruisce la reazione fiduciosa degli ebrei, aggrappati a quella cittadinanza anagrafica italiana che li aveva certo umiliati, ma non violentati. Anche quando il lago comincia a restituire cadaveri, la vita sociale della piccola colonia, che gravita intorno all’Hotel Meina, prosegue con cieca ostinazione, rifiutando di credere che la caccia a civili indifesi sia la prima preoccupazione di soldati incalzati dalle forze alleate. E cinquantaquattro persone trovano la morte. Nozza non si ferma alla ricostruzione del rastrellamento e della strage, ma si spinge nei decenni successivi, sollevando interrogativi che proiettano ombre oscure sul reale assetto della Germania e dell’Europa occidentale del dopoguerra.
Hotel Meina (da Wuz)
Il film di Carlo Lizzani (2007)
Hotel Meina. La prima strage di ebrei in Italia di Marco Nozza (Il Saggiatore, 2008): con la forza di decine di testimonianze dirette, Marco Nozza ricostruisce la reazione fiduciosa degli ebrei, aggrappati a quella cittadinanza anagrafica italiana che li aveva certo umiliati, ma non violentati. Anche quando il lago comincia a restituire cadaveri, la vita sociale della piccola colonia, che gravita intorno all’Hotel Meina, prosegue con cieca ostinazione, rifiutando di credere che la caccia a civili indifesi sia la prima preoccupazione di soldati incalzati dalle forze alleate. E cinquantaquattro persone trovano la morte. Nozza non si ferma alla ricostruzione del rastrellamento e della strage, ma si spinge nei decenni successivi, sollevando interrogativi che proiettano ombre oscure sul reale assetto della Germania e dell’Europa occidentale del dopoguerra.
Hotel Meina (da Wuz)
Il film di Carlo Lizzani (2007)
Giorni d'amore e d'inganno di Alicia Gimenez-Bartlett
"'Non pensi di risposarti?'. Clarita scoppiò a ridere. 'A che serve pensare? Le cose succedono o non succedono'. Questa battuta - pronunciata forse non a caso, da una donna di servizio - ben sintetizza le quattrocento pagine del nuovo romanzo di Alicia Giménez-Bartlett. In Giorni d'amore e d'inganno, in uscita per Sellerio alla fine del mese, l'autrice (nota in Italia per il personaggio dell'ispettrice di polizia Petra Delicado, che diventerà presto una fiction Rai), torna a investigare sui sentimenti umani e sui complicati rapporti tra uomini e donne. Il libro racconta la vicenda di quattro mogli che si trovano in un piccolo villaggio in Messico, dove i loro mariti ingegneri sono impeganti nella costruzione di una diga. Un giorno una delle quattro si innamora del marito di un'altra, provocando una reazione a catena che investe ognuna di loro e ciascuno dei rapporti matrimoniali. 'Io lascio i miei personaggi liberi di vivere, di reagire, ognuno a loro modo. E osservo ciò che succede, senza dare nessun giudizio morale', spiega la scrittrice, in Italia per assistere alla prima dello spettacolo tratto dal suo libro Una stanza tutta per gli altri, storia della sofferta relazione tra Virginia Woolf e le sue due serve Nelly e Lottie (al Teatro Verdi di Milano fino al 27 gennaio). A conversare con la Giménez-Bartlett, autrice di gialli popolari come di romanzi psicologici sui temi della famiglia e della maternità, si intuisce che il suo impegno politico e ideologico scaturisce direttamente dal suo modo di vivere la letteratura: accettare la libertà degli esseri umani/personaggi equivale ad aprirsi verso i cambiamenti che vengono dalla società, qualunque essi siano. [...] 'Se c'è un messaggio del romanzo, è l'invito a far entrare l'irrazionale nelle nostre razionalissime vite. Tutto l'ordine sociale vive sulla conservazioe e la paura. Ma se la felicità è difficile da afferrare, è possibile farlo, proiettandosi nel futuro con coraggio. Quanto alla velocità del cambiamento, non credo che l'innovazione sia necessariamente lenta. Io ho rivoluzionato la mia vita sentimentale in tre mesi. Inconcepibile? Forse. Certo, una cosa simile non vale per tutti. Il consiglio di assecondare le proprie intuizioni, tuttavia, quello sì'. [...] Che ruolo hanno gli intellettuali in questo processo culturale? L'originale spettacolo tratto dal suo libro Una stanza tutta per gli altri ha portato sul palcoscenico il problema dell'incoerenza di chi scrive una cosa e ne fa un'altra. 'Penso che tutti noi occidentali siamo in questa contraddizione. Abbiamo accanto un terzo mondo morto di fame, e lo sappiamo, ma continuiamo a vivere. E' immorale, ma normale. Nel mio ultimo libro, ho cercato di mostrare l'assurdità di una piccola comunità che vive in mezzo alla povertà generale, eppure continua ad avere i suoi riti, a giocare a tennis e fare vita sociale. Un'immagine simbolica'. [...]" (da Elisabetta Ambrosi, I mariti delle altre. Amori e inganni in Messico, "La Repubblica", 24/01/'08)
RadioAlt intervista Alicia Gimenez-Bartlett
Taslima Nasrin
"Non preferirebbe vivere in un altro paese? 'No, sono stata a lungo in Europa ma è una realtà che mi è estranea. Adoro figure come la de Beauvoir in nome della quale sono stata onorata con il premio, ma in India non mi sento straniera, posso parlare e scrivere nella mia lingua, molte donne leggono i miei libri, e il mio lavoro è molto importante sia per loro sia per una scrittrice come me che fa del suo meglio per dare la voce a quante sono oppresse da un sistema che le schiaccia. L'India mi dà rifugio, ma dovrebbe darmi anche la possibilità di vivere una vita normale. Rifiuto di credere che possa cedere ai ricatti di pochi in cambio di voti'"
"La richiesta era giunta da Parigi per vie diplomatiche, e altrettanto 'diplomaticamente' il governo indiano ha risposto di no. Per 'motivi di sicurezza' la scrittrice bengalese Taslima Nasrin, minacciata dai fondamentalisti islamici, non potrà ricevere il prestigioso premio intitolato a Simone de Beauvoir dalle mani di Nicolas Sarkozy durante la sua visita che iniza domani a Delhi. [...] Taslima è infatti vittima come Salman Rushdie di una lunga serie di fatwe, vere e proprie minacce di morte decretate sia nel suo paese, il Bangladesh, dal quale è costretta all'esilio dal '93, sia in India, dove la scrittrice si è rifugiata e ora vive semi-reclusa in un appartamento della capitale messo a disposizione dalle autorità che le impediscono di uscire e ricevere ospiti. [...] Il premio era stato concesso a Taslima Nasrin lo scorso 9 gennaio in occasione del centenario della nascita della celebre scrittrice femminista francese, autrice di Il secondo sesso. La scelta della giuria era caduta su Taslima proprio per le analogie con Simone de Beauvoir, un'icona del riscatto femminile nella società maschilista europea del secolo scorso. I suoi romanzi in gran parte autobiografici e tradotti in numerose lingue hanno messo a nudo la segregazione e le violenze contro le donne e le minoranze religiose in Bangladesh, dove è nata e cresciuta e dove i suoi libri vietati hanno scatenato addirittura scioperi generali e cortei in numerose città. Non a caso da 15 anni è costretta all'esilio prima in Europa (dove nel '94 ha ricevuto dalla UE il premio Sakharov), America e ora in India. Già nel 2004 alcuni fondamentalisti islamici indiani avevano offerto 20mila rupie, 300 euro, a chiunque avesse 'dipinto' la sua faccia di nero. Nel marzo dello scorso anno un gruppo chiamato Ibtehad Council ha chiesto invece con una fatwa la sua morte promettendo l'equivalente di 10mila euro. Nonostante tutto Taslima Narsin ha presentato in diverse città indiane i suoi libri tradotti nelle lingue locali, ma le minacce sono riprese, con un assalto di alcuni parlamentari musulmani durante una sua conferenza stampa ad Hyderabad ad agosto e le violente manifestazioni di protesta a Calcutta nel novembre successivo. Il governo indiano, nella lettera inviata all'Eliseo, si è detto disposto ad organizzare il viaggio della scrittrice a Parigi pur di evitare nuovi incidenti. Un segno d'imbarazzo preoccupante per la più grande democrazia d'Asia". (da Raimondo Bultrini, India, la scrittrice Nasrin vietata a Sarkozy, "La Repubblica", 24/01/'08)
"India tells Bangladeshi writer to stay hidden or leave" (da Guardian.co.uk)
"La richiesta era giunta da Parigi per vie diplomatiche, e altrettanto 'diplomaticamente' il governo indiano ha risposto di no. Per 'motivi di sicurezza' la scrittrice bengalese Taslima Nasrin, minacciata dai fondamentalisti islamici, non potrà ricevere il prestigioso premio intitolato a Simone de Beauvoir dalle mani di Nicolas Sarkozy durante la sua visita che iniza domani a Delhi. [...] Taslima è infatti vittima come Salman Rushdie di una lunga serie di fatwe, vere e proprie minacce di morte decretate sia nel suo paese, il Bangladesh, dal quale è costretta all'esilio dal '93, sia in India, dove la scrittrice si è rifugiata e ora vive semi-reclusa in un appartamento della capitale messo a disposizione dalle autorità che le impediscono di uscire e ricevere ospiti. [...] Il premio era stato concesso a Taslima Nasrin lo scorso 9 gennaio in occasione del centenario della nascita della celebre scrittrice femminista francese, autrice di Il secondo sesso. La scelta della giuria era caduta su Taslima proprio per le analogie con Simone de Beauvoir, un'icona del riscatto femminile nella società maschilista europea del secolo scorso. I suoi romanzi in gran parte autobiografici e tradotti in numerose lingue hanno messo a nudo la segregazione e le violenze contro le donne e le minoranze religiose in Bangladesh, dove è nata e cresciuta e dove i suoi libri vietati hanno scatenato addirittura scioperi generali e cortei in numerose città. Non a caso da 15 anni è costretta all'esilio prima in Europa (dove nel '94 ha ricevuto dalla UE il premio Sakharov), America e ora in India. Già nel 2004 alcuni fondamentalisti islamici indiani avevano offerto 20mila rupie, 300 euro, a chiunque avesse 'dipinto' la sua faccia di nero. Nel marzo dello scorso anno un gruppo chiamato Ibtehad Council ha chiesto invece con una fatwa la sua morte promettendo l'equivalente di 10mila euro. Nonostante tutto Taslima Narsin ha presentato in diverse città indiane i suoi libri tradotti nelle lingue locali, ma le minacce sono riprese, con un assalto di alcuni parlamentari musulmani durante una sua conferenza stampa ad Hyderabad ad agosto e le violente manifestazioni di protesta a Calcutta nel novembre successivo. Il governo indiano, nella lettera inviata all'Eliseo, si è detto disposto ad organizzare il viaggio della scrittrice a Parigi pur di evitare nuovi incidenti. Un segno d'imbarazzo preoccupante per la più grande democrazia d'Asia". (da Raimondo Bultrini, India, la scrittrice Nasrin vietata a Sarkozy, "La Repubblica", 24/01/'08)
"India tells Bangladeshi writer to stay hidden or leave" (da Guardian.co.uk)
mercoledì 23 gennaio 2008
Train de vie - Un treno per vivere di Radu MIHAILEANU
Venerdì 25 gennaio alle ore 21.15 presso la Biblioteca di Garlasco - Sala Polivalente via Ss. Trinità 6 - in occasione del "Giorno della memoria" proiezione del film Train de vie - Un treno per vivere di Radu MIHAILEANU (1998):
Che cosa ci fanno degli ebrei vestiti da nazisti? E come mai sono alla guida di un treno che vaga sui binari dell'Europa orientale, in piena seconda guerra mondiale? Non è, per fortuna, un convoglio come gli infiniti altri che in quegli orribili giorni conducevano masse di deportati verso i campi di sterminio. Anzi, quei vagoni stanno cercando di andare in direzione opposta, verso la Russia prima, e poi in Palestina, la Terra Promessa. E quei nazisti sono appunto finti; si tratta di un travestimento, di una beffa giocata ai danni dei persecutori: organizzare un finto treno di ebrei, farla franca passando attraverso le maglie dei posti di blocco tedeschi.
Impossibile? Certo, la cosa non sarebbe neppure pensabile. Ma la fantasia ha i suoi diritti, il sogno esige uno spazio, pur piccolo, libero dall'incubo di una realtà inaccettabile. Ed ecco allora che tutti gli abitanti dello shtetl, il paesino che sta per essere investito dalla follia delle SS, prendono parte alla messa in scena: si comprano carrozze e locomotiva al mercato, si elegge comandante in capo il saggio Mordechai (Rufus), si cuciono su misura le divise degli aguzzini. Ed è l'occasione per vivere, nonostante tutto, esilaranti intermezzi comici, struggenti incontri d'amore, attimi di esistenza purtroppo destinati a essere bruciati per sempre.
Che cosa ci fanno degli ebrei vestiti da nazisti? E come mai sono alla guida di un treno che vaga sui binari dell'Europa orientale, in piena seconda guerra mondiale? Non è, per fortuna, un convoglio come gli infiniti altri che in quegli orribili giorni conducevano masse di deportati verso i campi di sterminio. Anzi, quei vagoni stanno cercando di andare in direzione opposta, verso la Russia prima, e poi in Palestina, la Terra Promessa. E quei nazisti sono appunto finti; si tratta di un travestimento, di una beffa giocata ai danni dei persecutori: organizzare un finto treno di ebrei, farla franca passando attraverso le maglie dei posti di blocco tedeschi.
Impossibile? Certo, la cosa non sarebbe neppure pensabile. Ma la fantasia ha i suoi diritti, il sogno esige uno spazio, pur piccolo, libero dall'incubo di una realtà inaccettabile. Ed ecco allora che tutti gli abitanti dello shtetl, il paesino che sta per essere investito dalla follia delle SS, prendono parte alla messa in scena: si comprano carrozze e locomotiva al mercato, si elegge comandante in capo il saggio Mordechai (Rufus), si cuciono su misura le divise degli aguzzini. Ed è l'occasione per vivere, nonostante tutto, esilaranti intermezzi comici, struggenti incontri d'amore, attimi di esistenza purtroppo destinati a essere bruciati per sempre.
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Bibliografia di Cesare Garboli (1950 - 2005)
"[...] Basta un'occhiata per rendersi conto che Garboli scrisse molto e su argomenti disparati: dal teatro ai romanzi, dalla pittura alla poesia, dagli scacchi alle vicende legate all'attualità. Qualcuno, lui vivo, scambiò questa versatilità per dissipazione. Nulla di più lontano dal vero. A risvolti, occhielli, presentazioni di libri Garboli dedicava la stessa attenzione, lo stesso impegno che riservava alla redazione dei saggi più impegnativi. Scriveva con la naturalezza e la concentrazione di un pittore che disegna, senza smettere un momento; detestava ripetersi. Nei suoi scritti, anche i più occasionali, si rinvengono schegge di folgorante intelligenza: talvolta destinate a riapparire in un contesto diverso, più spesso buttate lì, con gratuita generosità - e tuttavia non dimenticate, come mostra l'archivio di ritagli che ha reso possibile questa bibliografia. Giunto alla fine della vita lo scrittore che aveva profuso energie in un lavoro (come amava dire) 'servile', dedicato agli scritti altrui, volle lavorare al proprio autoritratto, sottraendo una serie di scritti anonimi o poco noti alla dispersione e all'oblio. Che cos'è un critico? Nell'autobiografia retrospettiva consegnata al saggio Pianura proibita Garboli provò a rispondere a questa domanda. Se l'era posta anni prima, per interposta persona, nell'interrogazione retorica con cui si apre il saggio Longhi lettore: 'Se non fossero mai stati dipinti dei quadri, Longhi avrebbe mai scritto un rigo?'. Garboli non sarebbe mai diventato lo scrittore (straordinario scrittore) che fu se non fossero stati scritti i libri che amava e su cui ritornava di continuo. E' vero: nel caso di Longhi parlare di pittura implicava (come osservò Garboli) una traduzione, sia pure in senso lato. Ma in senso ancora più lato il critico inevitabilmente traduce, interpreta, la lingua in cui è scritto l'originale. Su questo rapporto asimmetrico, segnato dalla dipendenza, Garboli tornò ripetutamente, paragonando il critico ora a un attore, ora a un servitore. Sono metafore che si illuminano a vicenda. L'attore è al servizio di un testo che senza di lui non esisterebbe. Il legame tra servo e padrone, che sollecitò le riflessioni di Diderot (e poi di Hegel) è altrettanto ambiguo. Ma attraverso il rapporto conoscitivo la dipendenza del critico dall'autore si rovescia nel suo contrario. Il critico gioca coi suoi materiali, li manipola: 'Al mattino (...) ho entusiasmo ed energia. Mi smebra di giocare. C'è una fitta rete di relazioni tra la macchina da scrivere, i foglietti, gli appunti, il bianchetto, lo scotch' disse di sé Garboli parlando con Grazia Cherchi. Forse deliberatamente, forse no, Garboli riecheggiava quanto aveva scritto anni prima: 'La prima cosa che colpisce nella scrittura di Longhi è la tendenza al gioco, gioco che si direbbe anche il piacere di manipolare degli strumenti di lavoro, schede, fotografie, loupe, ingrandimenti, come fossero tarocchi; il gioco investe le parole, le fa entrare nel suo orizzonte; e subito si comincia a intravedere un senso scientifico che marcia verso la forumla giusta e l'enunciato insostituibile; ma intanto, si è introdotto nella pagina un senso letterario, ghiribizzoso, fumoso, dispettoso, irrequieto, capriccioso. Il gioco è già cambiato di segno'. Qui Longhi è Longhi, ma è anche un modello di critico ideale. Garboli si è ispirato a lui percorrendo una via proprio e diversa, inventando un genere letterario in cui biobibliografie, prefazioni, documenti, note, glosse alle note, appendici, note alle appendici si sussseguono intrecciandosi. Si sarà riconosciuta la struttura labirintica dei libri costruiti da Garboli attorno alle poesie famigliari di Pascoli, al Journal di Matilde Manzoni, al carteggio tar Longhi e Berenson, via dicendo. E' un genere letterario in cui trovava sfogo una delle passioni che dominavano Garboli. Quest'uomo felice, circondato dall'ammirazione e dal successo, era un uomo incontentabile, che tornava continuamente sui propri scritti e sui propri autori, correggendo, annotando, variando il punto di vista. E anche l'autoritratto da lui preordinato, ed eseguito con scrupolo esemplare da Laura Desideri, obbedisce a quest'impulso vitale. Il lettore troverà nelle pieghe della cronologia e della bibliografia note, precisazioni puntigliose, furiose correzioni; e alla fine il 'serpentone', l'elenco degli scritti in ordine cronolgoico, che era stato estromesso dal piano originario ma che giustamente è ricomparso. Ma il libro è in sostanza quello che Cesare aveva voluto. Avrebbe preso in mano il volume fresco di stampa e l'avrebbe aperto avvicinandolo al naso, nel gesto che gli era consueto, per sentire il profumo della colla." (da Carlo Ginzburg, Tutto Garboli, la sua vita in una bibliografia, "La Repubblica", 23/01/'08)
I libri di Carlo Ginzburg
martedì 22 gennaio 2008
L'ingegnere in blu di Alberto Arbasino
"Forte di una lunga frequentazione personale e testuale, Alberto Arbasino ha riordinato e rielaborato il molto che ha scritto su Carlo Emilio Gadda, a partire dagli anni '60. Tra i 'nipotini dell'Ingegnere', formula da lui stesso coniata, può vantare un diritto di primogenitura, poi messo in pratica: per sua stessa dichiarazione, Gadda è il modello cui guardava durante la stesura di uno dei suoi libri memorabili, L'anonimo lombardo.
Il risultato, dico subito, si conquista un posto di primo piano nella bibliografia gaddiana, ma è anche godibile in sé, come quadro d'epoca, tra cultura e costume: quasi un capitolo del formicolante e divertito affresco in progress che Arbasino va dedicando ai Fratelli d'Italia. Ammirato e intenerito, Arbasino si muove, visibilmente a suo agio, tra ricordi privati, aneddoti, piccoli gossip, schegge biografiche, intuizioni critiche, riferimenti dotti, citazioni testuali. Così che il libro è tante cose insieme. Anzitutto un ritratto critico e umano dal vivo. Eccolo qui tutto intero, nella sua complessità e nelle fruttuose contraddizioni tra istanze ordinatrici e fascino del Garbuglio o Viluppo, questo 'Pietro Micca in abito di Quintino Sella, con l'orgogliosa modestia e l'ironia dolorante e la verecondia espositiva di grande scrittore rivoluzionario travestito da commendatore o professionista vieux jeu in costante reverenza davanti alle Sedi delle Istituzioni - dal Castello Sforzesco alla Stazione Nord alla Edison al "Corriere della sera" alle Banche all'Idioma ...'. Ma c'è anche, per scorci fulminei, lo sfondo, l'ambiente, il clima: la nostra polverosa cultura tra le due guerre, quanto provinciale rispetto a quella che Gadda si costruiva assemblando la matematica di Einstein e la psicoanalisi, la Storia e la filosofia, Michelet e Spinoza, Leibniz, Kant... C'è la buona borghesia lombarda dell'Adalgisa, fissata nelle sue abitudini maniacali e masochistiche, nel suo noiosissimo formalismo finto-virtuoso (qui Arbasino gareggia con Gadda nell'elencare le care cose di pessimo gusto che gli avi accumulavano con esilarante protervia). Né mancano cenni alla ricezione dei primi libri dell'Ingegnere e alle cantonate che presero i vari Gargiulo, De Robertis, Bocelli, prima che scendesse il campo il magno Contini.
Arbasino approfitta, sempre con garbata misura, della benevolenza che l'Ingegnere gli dimostra per registrarne le gustose confidenze, tra ritegni ed eufemismi tanto facilmente decifrabili da strappare il sorriso. Si parla degli anni di formazione, delle letture (ma sì, perfino il Carducci: 'Non scegliamo mai i nostri padri e raramente i maestri'), delle passioni per linguaggi, gerghi e dialetti e il loro voltaggio espressivo'. Ci sono i grandi lombardi, su cui il Gaddus si rivela ferratissimo in ogni minimo dettaglio anche biografico e fisiologico. A proposito di Manzoni, bacchetta Moravia, reo di averne dato un'anacronistica interpretazione marxista ('non è affatto un moralista cattolico'). Bellissima l'identificazione con Don Abbondio, 'per la sua povertà disarmata, la sua paura fisica, la sua ragione stessa d'aver paura'. Segue un'affettuosa apologia di Parini e di certi suoi peccatucci giovanili ('Cantù sembra ritenere che frequentasse i templi di Venere Pandemia, e forse vi ha anche contratto qualche regaluccio'). E naturalmente torna a galla la fiera avversione per il Foscolo, lo 'scaltro commediante' dall''irsuto petto', seduttore di damazze malmaritate ma danarose, da lui ribattezzato il Basetta, lo Scimpanzé, il Roditore, lo Scoiattolo, il Piteco: 'Ci sono più vergini nei millenovecento versi del Foscolo che in tutta la storia di Romantica'. Ancora: del Pascoli lo incuriosiscono le sperimentazioni filologiche e i viluppi freudiani con le sorelle. Su D'Annunzio è reticente, ma ne apprezza la ricerca sulla lingua e l'operosità (anche se ricorda che i soldati lo ritenevano un gran iettatore, e non lo nominavano mai). Quando si arriva alla Roma della Dolce Vita, tra mondanità, cinema e letteratura, aristocratici e ragazzi di vita, Arbasino gareggia con il Maestro nel tracciare rutilanti cataloghi di comportamenti, mode, modi di dire e tic linguistici. Insieme, rievocano storie di famiglia e degustano perle dialettali. Salta fuori anche il côté perfido del timido Gadda, che si lasciava andare a battute al vetriolo: Bassani è 'il primo paltò di cammello della letteratura del dopoguerra', Mimise Guttuso e Mimì Piovene sono 'fresche e démodées come padrone di casini scicchissimi della Belle Epoque', una vociferante Elsa Morante chiama tutti a firmare manifesti di protesta per questo e per quello: 'Ha strillato molto anche stavolta, l'Elsina?', si informa lui. Nella sue funamboliche rimembranze, Arbasino non trascura nemmeno le lettere, in cui spesso l'Ingegnere si sente spesso in dovere di scusarsi di qualcosa: 'La mia vita tormentata e bislacca, la mia piatta attività di ingegnere, molte amarezze, ecc., hanno finito per rendermi rozzo, trivialuccio, bisbetico'. O ancora: 'Io sono un bastardo di celtico sangue, germanico, spagnolesco e ungherese. Puoi immaginare che zuppa'." (da Ernesto Ferrero, Ecco Gaddus, un timido al vetriolo, da "TuttoLibri", "La Stampa", 19/01/'08)
Il risultato, dico subito, si conquista un posto di primo piano nella bibliografia gaddiana, ma è anche godibile in sé, come quadro d'epoca, tra cultura e costume: quasi un capitolo del formicolante e divertito affresco in progress che Arbasino va dedicando ai Fratelli d'Italia. Ammirato e intenerito, Arbasino si muove, visibilmente a suo agio, tra ricordi privati, aneddoti, piccoli gossip, schegge biografiche, intuizioni critiche, riferimenti dotti, citazioni testuali. Così che il libro è tante cose insieme. Anzitutto un ritratto critico e umano dal vivo. Eccolo qui tutto intero, nella sua complessità e nelle fruttuose contraddizioni tra istanze ordinatrici e fascino del Garbuglio o Viluppo, questo 'Pietro Micca in abito di Quintino Sella, con l'orgogliosa modestia e l'ironia dolorante e la verecondia espositiva di grande scrittore rivoluzionario travestito da commendatore o professionista vieux jeu in costante reverenza davanti alle Sedi delle Istituzioni - dal Castello Sforzesco alla Stazione Nord alla Edison al "Corriere della sera" alle Banche all'Idioma ...'. Ma c'è anche, per scorci fulminei, lo sfondo, l'ambiente, il clima: la nostra polverosa cultura tra le due guerre, quanto provinciale rispetto a quella che Gadda si costruiva assemblando la matematica di Einstein e la psicoanalisi, la Storia e la filosofia, Michelet e Spinoza, Leibniz, Kant... C'è la buona borghesia lombarda dell'Adalgisa, fissata nelle sue abitudini maniacali e masochistiche, nel suo noiosissimo formalismo finto-virtuoso (qui Arbasino gareggia con Gadda nell'elencare le care cose di pessimo gusto che gli avi accumulavano con esilarante protervia). Né mancano cenni alla ricezione dei primi libri dell'Ingegnere e alle cantonate che presero i vari Gargiulo, De Robertis, Bocelli, prima che scendesse il campo il magno Contini.
Arbasino approfitta, sempre con garbata misura, della benevolenza che l'Ingegnere gli dimostra per registrarne le gustose confidenze, tra ritegni ed eufemismi tanto facilmente decifrabili da strappare il sorriso. Si parla degli anni di formazione, delle letture (ma sì, perfino il Carducci: 'Non scegliamo mai i nostri padri e raramente i maestri'), delle passioni per linguaggi, gerghi e dialetti e il loro voltaggio espressivo'. Ci sono i grandi lombardi, su cui il Gaddus si rivela ferratissimo in ogni minimo dettaglio anche biografico e fisiologico. A proposito di Manzoni, bacchetta Moravia, reo di averne dato un'anacronistica interpretazione marxista ('non è affatto un moralista cattolico'). Bellissima l'identificazione con Don Abbondio, 'per la sua povertà disarmata, la sua paura fisica, la sua ragione stessa d'aver paura'. Segue un'affettuosa apologia di Parini e di certi suoi peccatucci giovanili ('Cantù sembra ritenere che frequentasse i templi di Venere Pandemia, e forse vi ha anche contratto qualche regaluccio'). E naturalmente torna a galla la fiera avversione per il Foscolo, lo 'scaltro commediante' dall''irsuto petto', seduttore di damazze malmaritate ma danarose, da lui ribattezzato il Basetta, lo Scimpanzé, il Roditore, lo Scoiattolo, il Piteco: 'Ci sono più vergini nei millenovecento versi del Foscolo che in tutta la storia di Romantica'. Ancora: del Pascoli lo incuriosiscono le sperimentazioni filologiche e i viluppi freudiani con le sorelle. Su D'Annunzio è reticente, ma ne apprezza la ricerca sulla lingua e l'operosità (anche se ricorda che i soldati lo ritenevano un gran iettatore, e non lo nominavano mai). Quando si arriva alla Roma della Dolce Vita, tra mondanità, cinema e letteratura, aristocratici e ragazzi di vita, Arbasino gareggia con il Maestro nel tracciare rutilanti cataloghi di comportamenti, mode, modi di dire e tic linguistici. Insieme, rievocano storie di famiglia e degustano perle dialettali. Salta fuori anche il côté perfido del timido Gadda, che si lasciava andare a battute al vetriolo: Bassani è 'il primo paltò di cammello della letteratura del dopoguerra', Mimise Guttuso e Mimì Piovene sono 'fresche e démodées come padrone di casini scicchissimi della Belle Epoque', una vociferante Elsa Morante chiama tutti a firmare manifesti di protesta per questo e per quello: 'Ha strillato molto anche stavolta, l'Elsina?', si informa lui. Nella sue funamboliche rimembranze, Arbasino non trascura nemmeno le lettere, in cui spesso l'Ingegnere si sente spesso in dovere di scusarsi di qualcosa: 'La mia vita tormentata e bislacca, la mia piatta attività di ingegnere, molte amarezze, ecc., hanno finito per rendermi rozzo, trivialuccio, bisbetico'. O ancora: 'Io sono un bastardo di celtico sangue, germanico, spagnolesco e ungherese. Puoi immaginare che zuppa'." (da Ernesto Ferrero, Ecco Gaddus, un timido al vetriolo, da "TuttoLibri", "La Stampa", 19/01/'08)
Il tappeto rosso di Lavanya Sankaran
"Sari e minigonne, templi indù e grattacieli di vetro, spiritualità discussa via podcast e matrimoni organizzati su internet: è questa la nuova India, sospesa fra tradizione e supertecnologia, tra ricchezza ostentata e miseria assoluta, protagonista degli otto racconti riuniti ne Il tappeto rosso (The Red Carpet) di Lavanya Sankaran (Marcos y Marcos).
Come recita il sottotitolo Storie di Bangalore, la città più hi-tech dell'Asia tanto da essere chiamata la Silicon Valley indiana. Un luogo che per la scrittrice indiana rappresenta al meglio un paese che è al centro dell'attenzione internazionale non solo per la forte ascesa economica ma anche nel cinema, nell'arte e nella letteratura. [...] Oggi Il tappeto rosso è in corso di pubblicazione in quindici paesi. Il segreto del suo successo sta nella piacevolezza della scrittura e nella finezza del racconto ma anche nell'aver saputo fotografare come l'India stia affrontando questo cambiamento epocale. Non senza difficoltà perché 'se da una parte i valori tradizionali mettono al primo posto la comunità e la famiglia a discapito dell'individuo, lo stile di vita moderno va nella direzione opposta'. 'Questo', ammette, 'crea tensione nei rapporti tradizionali, anche se ad essere veramente onesti il progresso e il cambiamento economico offrono nuove occasioni di relazione per gli indiani e nuove ragioni per apprezzare il proprio paese. Rapporti, senso comunitario e nuovi interessi nascono sul posto di lavoro: anche questo è progresso sociale'. Quando le accenniamo se questo progresso abbia favorito l'emancipazione femminile, sorride dicendoci che 'l'India per tradizione ha stabilito da sempre un codice morale di comportamento per gli uomini e per le donne, ma ha anche offerto la possibilità di essere estremamente emancipati e liberi. Regole e libertà convivono benissimo perché l'India ti permette di essere conservatore o emancipato a seconda dei tuoi desideri, che tu sia donna o uomo'. 'Il vero problema', riflette, anticipandoci il tema dell'incontro all'Oberdan, è che 'la middle class indiana rischia di dimenticare che esiste un substrato molto povero che fa da sfondo ai suoi successi e che l'India non risplenderà mai davvero, finché non riusciremo a soddisfare anche i bisogni di queste persone'. E mentre ci racconta di come Bangalore sia 'una strana città in cui convivono straccioni e miliardari, ma dove si prendono le cose con filosofia' le facciamo notare che, a sessant'anni dall'indipendenza dall'Inghilterra, nel suo libro non si parla mai di Europa: gli Stati Uniti sembrano aver sostituito la Gran Bretagna come modello di riferimento. Con un sorriso ci mette a tappeto (non rosso): 'Oggi in India si respira un'aria molto diversa rispetto all'Europa. Se un giovane indiano ha la possibilità di lavorare 70 ore alla settimana, si rimbocca le maniche e lo fa, anche se guadagna solo 200 euro al mese'. I precari, tra un Om e un call-center, sono avvisati." (da Gian Paolo Serino, Sankaran: 'Vi racconto la vecchia nuova India stracciona e miliardaria', "La Repubblica", 20/01/'08)
Lavanya Sankaran a Milano:
22 gennaio ore 18, Spazio Oberdan, conferenza su 'middle class indiana tra consumismo e qualunquismo', nell'ambito della mostra "L'arte contemporanea indiana: fra continuità e trasformazione".
Come recita il sottotitolo Storie di Bangalore, la città più hi-tech dell'Asia tanto da essere chiamata la Silicon Valley indiana. Un luogo che per la scrittrice indiana rappresenta al meglio un paese che è al centro dell'attenzione internazionale non solo per la forte ascesa economica ma anche nel cinema, nell'arte e nella letteratura. [...] Oggi Il tappeto rosso è in corso di pubblicazione in quindici paesi. Il segreto del suo successo sta nella piacevolezza della scrittura e nella finezza del racconto ma anche nell'aver saputo fotografare come l'India stia affrontando questo cambiamento epocale. Non senza difficoltà perché 'se da una parte i valori tradizionali mettono al primo posto la comunità e la famiglia a discapito dell'individuo, lo stile di vita moderno va nella direzione opposta'. 'Questo', ammette, 'crea tensione nei rapporti tradizionali, anche se ad essere veramente onesti il progresso e il cambiamento economico offrono nuove occasioni di relazione per gli indiani e nuove ragioni per apprezzare il proprio paese. Rapporti, senso comunitario e nuovi interessi nascono sul posto di lavoro: anche questo è progresso sociale'. Quando le accenniamo se questo progresso abbia favorito l'emancipazione femminile, sorride dicendoci che 'l'India per tradizione ha stabilito da sempre un codice morale di comportamento per gli uomini e per le donne, ma ha anche offerto la possibilità di essere estremamente emancipati e liberi. Regole e libertà convivono benissimo perché l'India ti permette di essere conservatore o emancipato a seconda dei tuoi desideri, che tu sia donna o uomo'. 'Il vero problema', riflette, anticipandoci il tema dell'incontro all'Oberdan, è che 'la middle class indiana rischia di dimenticare che esiste un substrato molto povero che fa da sfondo ai suoi successi e che l'India non risplenderà mai davvero, finché non riusciremo a soddisfare anche i bisogni di queste persone'. E mentre ci racconta di come Bangalore sia 'una strana città in cui convivono straccioni e miliardari, ma dove si prendono le cose con filosofia' le facciamo notare che, a sessant'anni dall'indipendenza dall'Inghilterra, nel suo libro non si parla mai di Europa: gli Stati Uniti sembrano aver sostituito la Gran Bretagna come modello di riferimento. Con un sorriso ci mette a tappeto (non rosso): 'Oggi in India si respira un'aria molto diversa rispetto all'Europa. Se un giovane indiano ha la possibilità di lavorare 70 ore alla settimana, si rimbocca le maniche e lo fa, anche se guadagna solo 200 euro al mese'. I precari, tra un Om e un call-center, sono avvisati." (da Gian Paolo Serino, Sankaran: 'Vi racconto la vecchia nuova India stracciona e miliardaria', "La Repubblica", 20/01/'08)
Lavanya Sankaran a Milano:
22 gennaio ore 18, Spazio Oberdan, conferenza su 'middle class indiana tra consumismo e qualunquismo', nell'ambito della mostra "L'arte contemporanea indiana: fra continuità e trasformazione".
lunedì 21 gennaio 2008
Bob Mintzer a Garlasco
Bob Mintzer e Big Band Jazz Company diretta da Gabriele Comeglio, lunedì 21 gennaio, ore 21.15, Teatro Martinetti, Garlasco (PV)
Discografia di Mintzer (da Wuz)
Libri sul jazz (da Wuz)
I libri che i nostri figli devono leggere: "Nell'era del Vuoto e dell'Ozio c'è posto anche per Nembo Kid"
"La lettura è figlia del silenzio e del vuoto. Ha una parentela stretta con l'ozio, ne è una delle applicazioni più utili e intense. Forse, allora, prima di insegnare ai ragazzi a leggere libri bisognerebbe insegnare loro a oziare, cioè a tacere e a far tacere, a sconnettersi dall'infinita rete di stimoli, comunicazione, giochi elettronici, attività sportive e ricreative varie che li imbozzola ogni giorno per tutto il giorno, e sperare che dall'ozio poi germini, insieme ad altri frutti, anche la passione per i libri.
Ma oziare è diventato quasi impossibile: un lusso che nessun benessere è più in grado di garantire. Quando, dopo delitti e fattacci che vedono coinvolti giovanissimi, si leggono severi commenti sul 'vuoto' come mefitico grembo che ha incubato il male, penso sempre che è vero il contrario. Il vuoto (il tempo vuoto, i pomeriggi vuoti, i doposcuola vuoti, i giardinetti vuoti e le strade vuote nei quali tante generazioni si sono formate) non è quasi più dato. Al contrario, infanzie e adolescenze si consumano nel rimbombo continuo e stordente di suoni e nel turbinio delle immagini, in un firmamento di led sempre accesi. Manca il tempo di metabolizzare i materiali che si assorbono, e credo che molte confusioni giovanili di oggi dipendano dal dopaggio del 'troppo pieno', non certo dal vuoto ... Ripeto spesso ai miei figli (gli adulti si ripetono, si sa) che quando ero ragazzo la televisione era 'vuota' fino alle cinque del pomeriggio, quando cominciava la programmazione dei ragazzi. Lo schermo nero come un cosmo senza stelle era la rappresentazione perfetta del vuoto e - penso oggi - di una libertà allora irriconoscibile: pareva penuria, era in fondo ricchezza. Si era costretti, nell'attesa, a bivaccare dentro se stessi e dentro le proprie stanze. E se non si aveva voglia di studiare, l'alternativa era leggere: soprattutto fumetti, che non per caso sono, da qualche anno, in pesante flessione, schiacciati dalla potente concorrenza della fiction e dei cartoon di diecimila canali.
Stravaccato sul letto, dagli otto ai quindici anni credo di aver consumato un milione di tonnellate di giornali a fumetti, Topolino, Asterix [...]. I fumetti sono stati la mia festosa anticamera (e quella di molti altri) prima dell'ingresso definitivo nella letteratura per ragazzi [...]. Mi chiedo se sarei diventato la stessa persona, nascendo trent'anni dopo, con la tivù sempre accesa e la superfetazione attuale degli svaghi e degli stimoli. [...] Miracolosamente molti ragazzi ancora leggono, ancora reggono un libro con la mano mentre con l'altra digitano messaggini o manovrano il mouse. [...] Esistono insomma inclinazioni e destini individuali, e diffido molto di un'impostazione moralistica della questione, tipo 'se non leggi diventi una bestia''. Non perché non sia vero, che senza leggere si diventa un poco bestie, ma perché ci sono bestie soavi e utili agli altri, e eruditi aridi e presuntuosi, che la cultura ha indurito piuttosto che predisporre alla vita. E dunque credo che si debba anche sdrammatizzare: un adulto può creare le condizioni (avere libri in casa e genitori che leggono è già qualcosa), ma non potrà mai imporre soluzioni. [...] Sbagliato, credo, è anche spacciare (mentendo!) per meraviglioso e agevole il mondo dei libri, che è invece anche faticoso e impegnativo, a volte frustrante come è sovente la cultura, il cui subdolo scopo, a volte, è farci sapere quanto siamo ignoranti. Tornando al nocciolo del problema, credo dunque che lo sforzo pedagogico debba puntare tutto o quasi sulla difesa del proprio tempo di vita come difesa dell'identità, dell'autonomia, della libertà. Tutelare il proprio tempo individuale, il proprio silenzio, la propria persona, dalla baraonda aggressiva che ci circonda, dai consumi indotti, dall'obbligo perenne di connessione e di comunicazione che ci ossessiona. Poi, se uno riesce a riguadagnare il controllo di se stesso, o di un pezzo di se stesso, che vada a pescare o si metta a leggere è in fin dei conti affare suo. Smettere di colpevolizzare chi non legge è il modo migliore per convincerlo che i libri non sono un obbligo o un dovere sociale, ma una scelta felice, una libertà fantastica". (da Michele Serra, Nell'era del Vuoto e dell'Ozio c'è posto anche per Nembo Kid, "La Repubblica", 21/01/'08)
Ma oziare è diventato quasi impossibile: un lusso che nessun benessere è più in grado di garantire. Quando, dopo delitti e fattacci che vedono coinvolti giovanissimi, si leggono severi commenti sul 'vuoto' come mefitico grembo che ha incubato il male, penso sempre che è vero il contrario. Il vuoto (il tempo vuoto, i pomeriggi vuoti, i doposcuola vuoti, i giardinetti vuoti e le strade vuote nei quali tante generazioni si sono formate) non è quasi più dato. Al contrario, infanzie e adolescenze si consumano nel rimbombo continuo e stordente di suoni e nel turbinio delle immagini, in un firmamento di led sempre accesi. Manca il tempo di metabolizzare i materiali che si assorbono, e credo che molte confusioni giovanili di oggi dipendano dal dopaggio del 'troppo pieno', non certo dal vuoto ... Ripeto spesso ai miei figli (gli adulti si ripetono, si sa) che quando ero ragazzo la televisione era 'vuota' fino alle cinque del pomeriggio, quando cominciava la programmazione dei ragazzi. Lo schermo nero come un cosmo senza stelle era la rappresentazione perfetta del vuoto e - penso oggi - di una libertà allora irriconoscibile: pareva penuria, era in fondo ricchezza. Si era costretti, nell'attesa, a bivaccare dentro se stessi e dentro le proprie stanze. E se non si aveva voglia di studiare, l'alternativa era leggere: soprattutto fumetti, che non per caso sono, da qualche anno, in pesante flessione, schiacciati dalla potente concorrenza della fiction e dei cartoon di diecimila canali.
Stravaccato sul letto, dagli otto ai quindici anni credo di aver consumato un milione di tonnellate di giornali a fumetti, Topolino, Asterix [...]. I fumetti sono stati la mia festosa anticamera (e quella di molti altri) prima dell'ingresso definitivo nella letteratura per ragazzi [...]. Mi chiedo se sarei diventato la stessa persona, nascendo trent'anni dopo, con la tivù sempre accesa e la superfetazione attuale degli svaghi e degli stimoli. [...] Miracolosamente molti ragazzi ancora leggono, ancora reggono un libro con la mano mentre con l'altra digitano messaggini o manovrano il mouse. [...] Esistono insomma inclinazioni e destini individuali, e diffido molto di un'impostazione moralistica della questione, tipo 'se non leggi diventi una bestia''. Non perché non sia vero, che senza leggere si diventa un poco bestie, ma perché ci sono bestie soavi e utili agli altri, e eruditi aridi e presuntuosi, che la cultura ha indurito piuttosto che predisporre alla vita. E dunque credo che si debba anche sdrammatizzare: un adulto può creare le condizioni (avere libri in casa e genitori che leggono è già qualcosa), ma non potrà mai imporre soluzioni. [...] Sbagliato, credo, è anche spacciare (mentendo!) per meraviglioso e agevole il mondo dei libri, che è invece anche faticoso e impegnativo, a volte frustrante come è sovente la cultura, il cui subdolo scopo, a volte, è farci sapere quanto siamo ignoranti. Tornando al nocciolo del problema, credo dunque che lo sforzo pedagogico debba puntare tutto o quasi sulla difesa del proprio tempo di vita come difesa dell'identità, dell'autonomia, della libertà. Tutelare il proprio tempo individuale, il proprio silenzio, la propria persona, dalla baraonda aggressiva che ci circonda, dai consumi indotti, dall'obbligo perenne di connessione e di comunicazione che ci ossessiona. Poi, se uno riesce a riguadagnare il controllo di se stesso, o di un pezzo di se stesso, che vada a pescare o si metta a leggere è in fin dei conti affare suo. Smettere di colpevolizzare chi non legge è il modo migliore per convincerlo che i libri non sono un obbligo o un dovere sociale, ma una scelta felice, una libertà fantastica". (da Michele Serra, Nell'era del Vuoto e dell'Ozio c'è posto anche per Nembo Kid, "La Repubblica", 21/01/'08)
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