martedì 30 agosto 2011

Rosellina Archinto


"«Con l'estate arriva sempre un gran magone, il rimpianto di una stagione in cui sono stata molto felice. E ora bastano un suono o un colore, una musica inattesa o un'improvvisa visione, per evocare le atmosfere di quel tempo, il ricordo di un legame che è stato parte fondamentale della mia vita e ora mi manca enormemente».
A Portofino Rosellina Archinto non è più tornata. Non è più entrata nella grande casa condivisa per diversi decenni con Leopoldo Pirelli, compagno discreto e generoso. Fino all'ultimo insieme, davanti alla finestra affacciata sul mare. «Ancora la sera prima di morire progettava un viaggio a Marrakech», racconta Rosellina con un accento insolito, il consueto piglio energico stemperato dall'emozione, lo sguardo azzurro perso chissà dove. Temperamento vigoroso lei, classe 1935, editrice di raffinati carteggi, zibaldoni e di libri per bambini che hanno segnato un'epoca; figura dell'imprenditoria liberale lui, simbolo di una borghesia illuminata di cui è rimasta rara traccia. Quasi quarant'anni insieme, mai raccontati per scelta di stile e di pudore. Ma con l'estate arriva sempre quel gran magone. E seduta nel grande prato del suo castello medievale, vicino ad Assisi, l'Archinto apre il suo diario intimo, un libro degli affetti e delle vacanze scritto con un personaggio speciale, «difficile, chiuso, riservato, esigente con se stesso e con gli altri, ma anche dolcissimo e capace di tenerezza, un sentimento a cui forse non ero stata abituata da un padre molto severo».
Fin dal principio il mare svolse un ruolo importante. «Sì, prima una casa arrampicata su una collina, dietro Paraggi. Poi la grande villa sul promontorio di Portofino. Poldo amava molto il mare, stava ore al timone della sua barca a vela, solitario e assorto nei pensieri, la sigaretta tra le labbra. Aveva inventato un modo per accenderla con il vento. Il mare rappresentava la libertà. La libertà dal suo ruolo pubblico, dal peso di una tradizione famigliare, dall'impegno che aveva deciso di assumersi con rigore ma forse non con piena felicità».
Il padre gli preferiva il fratello maggiore, Giovanni, che però scelse una strada diversa. E toccò a Leopoldo assumere la guida dell'azienda. «Si sottomise al volere di suo padre con grande serietà e un fortissimo sentimento etico, ma nel suo intimo voleva fare altro. Dedicava molto del suo tempo libero a organizzare gli spazi, definendoli con cura in ogni dettaglio, sia che si trattasse del guscio della barca a vela o di un rudere di campagna. Gli piaceva vedere nascere le cose, forse sarebbe stato un bravo architetto. Per tradizione famigliare intraprese un altro percorso, lo fece fino alla fine con spirito illuminato».
Non sempre fu compreso. «Nel Sessantotto andavano di moda slogan come "Agnelli e Pirelli, ladri gemelli". Lui non si arrabbiava ma era amareggiato. Lo mostrava alla sua maniera, sempre controllato, mai una parola sopra le righe. Fu lui in quegli anni a proporre la settimana lavorativa di cinque giorni e altre riforme molto avanzate. Il sindacato reagì male e Leopoldo si convinse di aver sbagliato per eccesso di disponibilità. Di recente alla Pirelli è comparso uno striscione: "Leopoldo, per favore, torna tra noi"».
A quell'epoca vi conoscevate già? «Sì, ci eravamo incontrati a Milano e lui mi faceva un po' di corte. Io ero una signora sposata con cinque figli, non mi mancava il senso di responsabilità. Leopoldo, che aveva dieci anni di più, mi dimostrò molto amore. Decise di separarsi per vivere con me. Io lasciai passare un paio di anni, poi decisi anche io di separarmi. Nel 1972 rendemmo pubblico il nostro legame, ma non abbiamo mai vissuto insieme. I figli sono rimasti la mia priorità e Leopoldo fu comprensivo. Così i week-end e l'estate divennero il tempo solo per noi. Il nostro era un legame fortissimo, nella reciproca autonomia».
La diversità cementò il rapporto? «Sì, fu importante. Per Leopoldo rappresentavo la scoperta di un altro mondo. Un'altra possibilità di vita, oltre la casa e l' azienda. La prima volta che lo vidi mi apparve come afflosciato in un sacchetto di vestiti, schiacciato dal peso di una storia più ampia. Credo di averlo travolto con la mia vitalità, il mio ottimismo: del bicchiere io vedevo sempre il mezzo pieno, lui il mezzo vuoto. E poi lo divertivano le serate con gli amici scrittori e musicisti, da Arbasino a Pollini ed Abbado».
Un incontro che la colpì? «All'epoca del '68 una sera venne a cena da me, a Milano, Herbert Marcuse. Personaggi più distanti non potevano essere. Da una parte il guru del movimento studentesco, il denunciatore della società industriale repressiva; dall'altra un principe del capitalismo. Fu una cena piacevolissima. Pirelli e Marcuse parlarono fitto fitto tutta la sera. In realtà Leopoldo era un solitario però non asociale. Era curioso, attento a quel che si muoveva nel mondo, sensibile alle discussioni intellettuali».
Che cosa le ha insegnato? «Il rigore, la serietà. La pazienza del giudizio ponderato. Io ero precipitosa e schematica, sparavo sentenze senza troppa cura. Lui mi invitava a riflettere, a liberarmi da pregiudizi e partigianerie. In trentacinque anni non l'ho mai sentito alzare la voce. Anche nei momenti più difficili».
Un momento difficile fu quando morì il fratello Giovanni. «Un terribile incidente stradale, nel 1973: Giovanni perse la vita, Leopoldo il suo bellissimo volto, che rimase deturpato. Io ero già al suo fianco e ricordo l'angoscia di quel periodo. Non voleva mostrarsi neppure agli amici più intimi. E poi Giovanni era per lui un riferimento saldo, il più importante. Partigiano, intellettuale, mente brillantissima: era il fratello maggiore a supportarlo nelle scelte più delicate. Dopo un periodo di lontananza, negli ultimi tempi si erano molto riavvicinati. La famiglia non aveva gradito le scelte eterodosse di Giovanni. Per Poldo fu una tragedia».
Anche in quel caso il mare rappresentò un rifugio. «La nostra prima casa fu quella di Paraggi, accessibile solo dopo una camminata di mezz'ora. Leopoldo era sereno perché finalmente riusciva a liberarsi della scorta. La sua era una vita sotto sorveglianza, le Brigate Rosse non lo perdevano di vista. Ma arrivato a Paraggi si sentiva fuori pericolo, forse non senza incoscienza».
Quali erano i vostri rituali? «Il nuoto, prima di tutto. Leopoldo era un animale acquatico, nuotava per ore e ore, sia in mare che in piscina. Poi la passione per la vela. All'inizio capitava che a condurlo fossi io, sulla deriva, una barchetta poco oltre i quattro metri. Di famiglia ligure, ero praticamente cresciuta in barca a vela e mi divertivo a fare lo slalom tra le imbarcazioni nel golfo. "Sei pazza, cosa fai?", Poldo mi guardava atterrito. La deriva fu presto accantonata, e mi adattai felicemente anche io alle sue barche di lusso».
E le letture? «Tante, ma diversissime. Lui si portava le carte del lavoro, prendeva appunti con una scrittura nitida e molto curata, senza fronzoli com'era lui. Se non leggeva saggi di politica ed economia, si buttava su Ken Follett. Una volta tentai di fargli leggere un critico letterario di gran fama, forse un tantinello pomposo. Dopo le prime pagine Poldo si accasciò, "Questo non puoi chiedermelo"».
In vacanza parlavate di lavoro? «No. Ci sostenevamo reciprocamente, ma non mi sono mai mischiata nelle sue cose. E lui aveva gran rispetto del mio lavoro di editore, anche se forse avrebbe voluto maggiore disponibilità da parte mia. Ricordo che incontrava in gran segreto Michelin, l'erede della famiglia francese dei pneumatici, ma nessuno doveva saperlo. Non fu facile la stagione del suo commiato dalla Pirelli. Avevamo già traslocato nella villa a Portofino e lo vidi soffrire moltissimo, ma sempre secondo il suo stile. Rinunciò a tutte le cariche con grande dignità, mai una parola polemica verso qualcuno. Così come si tenne dentro tutta l'amarezza per le scelte successive dell'azienda. Neppure con me si lasciò andare».
Al mare insieme, fino alla fine. «Avrebbe voluto avere una bella vecchiaia, con me al fianco. Io avevo più tempo da dedicargli, i figli ormai cresciuti. Quando mi capita di incrociare per la strada coppie di persone della nostra età, sono invasa dalla malinconia. Mi vengono in mente quei versi di Montale "Ho sceso dandoti il braccio, almeno un milione di scale, e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino"»." (da Simonetta Fiori, Rosellina Archinto, "La Repubblica", 30/08/'11)

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