mercoledì 3 agosto 2011

Elizabeth Strout


"Abile tessitrice di finezze emotive, Elizabeth Strout ha raggiunto la celebrità internazionale grazie all'ambitissimo premio Pulitzer, vinto nel 2009 con il suo terzo romanzo, Olive Kitteridge: un puzzle di vicende di comune umanità ambientate in una cittadina del Maine, nel cuore del New England. In questo piccolo mondo apparentemente soporifero (ma sotto le ceneri, al solito, cova il fuoco) si incastonano disamori, solitudini, abbandoni e difficili rapporti, connessi dal trait d'union del personaggio femminile che dà il titolo alla storia: un'anziana e solida insegnante, capace di comprendere o intuire i segreti delle esistenze che le stanno intorno come una Miss Marple dell'anima.
Prima di Olive Kitteridge, la Strout aveva già firmato due romanzi, Amy e Isabelle e Resta con me, entrambi riscoperti (e diffusi in Italia da Fazi, che pubblica tutta la sua opera) in seguito alla consacrazione del Pulitzer; e anche grazie a questi libri si è dimostrata una delle voci più alte dell'odierna letteratura americana. Di volta in volta Elizabeth, nata nel '56, cresciuta nel Maine e trasferitasi a New York negli anni Ottanta, applica il suo talento al magnetismo delle ambientazioni e a un peculiare senso del tempo. Con il suo stile insinuante, che dà spessore all'accadimento più marginale o relativo, compone affreschi di vita minuta che intrecciano il passato e il presente, come se li facesse danzare sul medesimo registro. Le sue estati personali, trascorse nell'infanzia e nell'adolescenza in una terra che ha generato grandi romanzieri, devono aver nutrito molto questa prospettiva.
«Il luogo di tutte le mie vacanze, da ragazzina, erano le coste del Maine, e precisamente una zona chiamata Costa Bay, dove le rocce sono ripide, frastagliate e cattive, e l'aria di mare è acutamente salmastra», riferisce la scrittrice. «E' un contesto di bellezza violenta, quasi aggressiva. Ma all'epoca non me ne rendevo conto: quell'ambiente equivaleva alle mie radici più profonde. Il mio posto preferito era una piccola isola vicina alla costa, Dog Head Island, cioè "isola dalla testa di cane". Mio padre aveva una barca, e quando arrivavano i miei cugini si preparavano dei picnic e si partiva alla volta di quell'isoletta, per poi passare l'intero pomeriggio sulla spiaggia. Ricordo che sull'isola c'era un piccolo cottage abbandonato da molto tempo, che era ai miei occhi una meta misteriosa e seducente. Mi piaceva sbirciarci dentro attraverso le finestre».
Speciali eventi affettivi costellavano quei picnic? «Erano pieni di scoperte avventurose ed eccitanti. Per esempio rammento quando si attraversava tutti insieme la bassa marea per raggiungere a piedi un'altra isola vicina. Ci divertivamo moltissimo a farlo, ma dovevamo avere l'accortezza di tornare a Dog Head prima che la marea montasse troppo, altrimenti saremmo rimasti tagliati fuori.
Questo piccolo senso del pericolo rendeva l'impresa particolarmente interessante. Nel gruppo di cugini io ero la più piccola, perciò poteva capitare che uno di loro dovesse portarmi in braccio quando si camminava nell'acqua sempre più alta, facendo ritorno a Dog Head. Era una bella sensazione. Poi, una volta a destinazione, si risaliva in barca e si ripartiva verso casa».
Chi erano le persone che la circondavano? Ce n'è stata qualcuna determinante per il suo futuro di scrittrice? «Se si eccettua la settimana in cui i miei tre cugini andavano dagli zii, c'erano solo parenti anziani, e tutti loro, cioè mia nonna, due prozie e un prozio, abitavano nella stessa strada sterrata sulla quale si affacciava casa nostra. Era un microcosmo delimitato da rigidi confini. Io non giocavo mai con i miei coetanei, anche perché nei dintorni di bambini non ce n'erano, a parte mio fratello, di due anni maggiore di me, con il quale, comunque, non mi succedeva di giocare. Ero solitaria e appartata, ma non ricordo di essermi mai sentita privata di qualcosa: stavo bene così. Nella mia famiglia l'isolamento era un modo di essere e una regola, e io imparai a restarmene per conto mio per la maggior parte del tempo. I miei amici, i miei compagni di gioco, erano gli alberi, le rocce e la luce del sole, così come i rospi, le tartarughe e i fiori di campo. L'unico essere umano con cui conversavo era il prozio Roy, uomo accogliente. I miei racconti sembravano destare davvero il suo interesse, ed era sempre contento delle mie visite».
In tali condizioni le sarà stato impossibile coltivare dei flirt adolescenziali. «Non ci furono veri innamoramenti durante quelle estati, ma furono di certo stagioni colme di sogni romantici. C'era un ragazzo che lavorava nel vicino porticciolo dove mio padre teneva la barca, ed io mi turbai moltissimo quando una volta mi prese la mano per aiutarmi a scendere. Non facevo che pensare a lui, ero proprio cotta. Aspettavo ardentemente un'altra gita al porticciolo per incontrarlo. Non credo di avergli mai detto nulla più di "ciao". Per me l'amore, in quegli anni, era soprattutto un senso di attesa: aspettavo che bussasse alla mia porta. Ovviamente lo fece, ma dopo un po' di tempo».
Ci sono dei personaggi di quelle estati che sono finiti in uno dei suoi romanzi? «A dodici anni cominciai a lavorare nel negozio del paese, affezionandomi molto sia al proprietario che alla sua dolcissima moglie, e credo di aver messo un po' di lei nel personaggio di Olive Kitteridge. Ma non ho mai indagato nella sua vita personale: la mia Olive resta una finzione letteraria».
Provengono dal Maine importanti scrittori americani come Stephen King, che ha scelto alcune cittadine della sua terra per ambientazioni horror. Come lo spiega? «Il Maine è un luogo diverso da tutti gli altri. Ha una luce bellissima, che mi ricorda quella di Roma. In parte è molto povero, e per i suoi abitanti la vita può essere spietata e dura, il che può far capire certi suoi aspetti tenebrosi e nascosti, che Stephen King, vero figlio del Maine, è riuscito a esprimere al meglio. Inoltre l'ambiente naturale ha una forza che può suscitare emozioni intense, e un'altra causa suggestiva può essere il fatto che la gente ha una tendenza congenita alla chiusura e al riserbo. Forse, per persone come me, il doversi tenere dentro tanta vita compressa diventa a un certo punto troppo costrittivo, e si manifesta nel bisogno irresistibile di raccontare storie».
Considera fondamentali i luoghi nella scrittura? «La letteratura è in se stessa un luogo. Guerra e pace non avrebbe potuto nascere in nessun altro posto al mondo se non in Russia».
Sta scrivendo un nuovo romanzo? «Sono nel pieno del lavoro. Posso dire solo che nel nuovo libro ci saranno sia New York che il Maine: sto scendendo finalmente lungo la East Coast»." (da Leonetta Bentivoglio, Elizabeth Strout, "La Repubblica", 03/08/'11)

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