lunedì 1 agosto 2011

Libro di candele


"«Io non scriverò mai un romanzo», mi dice Eugenio Baroncelli al telefono da Ravenna. «Scrivere romanzi è un gesto troppo spudorato. E occuparsi della trama ti distoglie dalla scrittura,e io dei libri amo soprattutto questo, lo stile». Eugenio Baroncelli ha pubblicato da poco Libro di candele e Mosche d'inverno (entrambi per Sellerio). Due volumetti di grazia rara e precisione, raffinati e persino appassionanti.
Difficile definirli: raccolte di racconti, saggi in forma narrativa, omaggi all'intelligenza e al talento per brevi illuminazioni. Il primo raccoglie microbiografie di scrittori, politici, personaggi di libri, gente qualunque. Mosche d'inverno, col quale ha vinto il premio Super Mondello 2011, è il suo perfetto risvolto: tanatografie, storie di morti, da Balzac a Buster Keaton da Emma Bovary a Tycho Brahe, raccolte per specialità, miniature dell'ultimo istante che illumina la vita o viene a caso. E la nostra conversazione, malgrado il mio sforzo per addomesticarla, si svolge così, rincorrendo lucciole. Provo a fargli domande, ma lui si diverte a dire quello che vuole. E nel modo in cui vuole, in un prezioso incastrarsi di parole e minuscole rivelazioni che somiglia ai suoi racconti.
Niente romanzi, dunque.«In realtà non è nemmeno vero questo, che non amo i romanzi.
Amo Tolstoj, Nabokov, Flaubert. Conosce il Paradiso?».
In che senso? «"Labirintico romanzo che qualcuno ha paragonato a un carciofo, pianta da disegno leonardesco, che lo proiettò in un tempo così distante da quello dei lettori che ancora oggi non c'è che chiamarlo futuro". Ne è autore uno scrittore cubano, José Lezama Lima».
E' lui che scrive questo del suo libro? «No, sono io. E comunque, la vita è troppo breve per entrare in un romanzo. Ma questa, forse è una citazione. Sa cos'è una citazione?».
Più o meno ... «Glielo dico io cos'è: è una pigrizia del pensiero».
Il suo è un esordio tardivo, che cos'ha fatto prima di iniziare a scrivere? «Ho vissuto! E poi scrivevo libri specialistici che parlavano di cinema. In particolare teoria del cinema. Quei libri lì contano o non contano? Erano vagamente strutturalisti, vagamente lacaniani, adesso mi sembrano scritti da un altro. All'epoca, nel '68, si poteva essere lacaniani un giorno, strutturalisti il successivo ... quando uscì il numero monografico di Tel quel (celebre rivista francese di letteratura, politica e filosofia) dedicato a Mao, diventammo tutti maoisti. Perché le ho raccontato questo?».
Parlavamo della sua vita prima della letteratura ... «Mi piaceva leggere fin da ragazzino. Ho un biblioteca da 6000 volumi e quando ho fatto l'ultimo trasloco mi sono disperato. Sa che Juan Manuel de Rosas, il dittatore argentino, ha fatto il suo ultimo trasloco da morto? La sua salma, è stata riportata in argentina dall'Inghilterra. Ha letto il libro di Sandra Petrignani, La scrittrice abita qui
Sì, è un bellissimo libro. «Infatti. Parla delle case delle scrittrici. Io, per esempio, abito a Ravenna. A Ravenna si può vivere una vita walseriana, tutta nell'ombra. Robert Walser era il genio dello stare in disparte. Però mi piacciono alcuni luoghi, certi alberghi, come l'hotel delle Palme a Palermo, e certi cimiteri, anche se detesto quelle piantine che ti danno all'ingresso, per orientarti tra le tombe. Conosce il cimitero di Plainpalais a Ginevra? Lì è sepolto Borges».
Considera Borges il suo maestro? «Borges è un modello. Il suo Storia universale dell'infamia soprattutto. Ma anche José Lezama Lima, e Adolfo Bioy Casares. A proposito di romanzi, prenda L'invenzione di Morel, di Casares: ecco una trama perfetta, talmente perfetta che l'autore può dedicarsi a scrivere il libro senza doversene più occupare. Se avessi in testa una trama così, forse allora lo scriverei un romanzo. Raymond Chandler è un altro scrittore di romanzi che amo. E poi Gadda, l'immenso, e Svevo. Anche io sono un inetto, sa? Sono indeciso. Ho messo l'aria condizionata in casa ma ho sbagliato, e infatti non l'accendo mai».
Nella sua vita di prima lei è stato un professore ... «Sì, ho insegnato in un liceo, italiano e latino. Mi piaceva insegnare, perché insegnare vuol dire imparare. Seneca diceva che il buon maestro è quello che impara dal suo allievo. Ma non mi piacciono molto i professori, specie i professori che fanno gli scrittori. Non mi piace la pedanteria. L'autorità non deve mai diventare stile. Henry Michaux diceva "Vai abbastanza lontano dentro di te per dimenticare chi sei e come scrivi"».
Come ha scelto le storie da inserire nei suoi libri? Nella prefazione al Libro di candele spiega che queste biografie «o simulacri di biografie» sono frutto del caso. E' possibile? «Il primo movimento è sempre il caso. Poi ogni personaggio ne intercetta altri che gli corrono accanto. Per esempio la figlia di Victor Hugo, Adele H. La cui vita è senza alcun dubbio più interessante di quella del padre. E poi ci sono gli incroci fortuiti. È un lavoro noioso, tocca leggere una biografia di 300 pagine per ricavarne al massimo una mezza paginetta. Adesso, ad esempio, stavo leggendo una biografia di Giulio Cesare. In una nota ho trovato la storia di questo signore, Amazio, che faceva l'oculista e che a un certo punto se ne va in giro a dire di essere il nipote di Caio Mario. Ecco, quel personaggio lì mi ha stregato».
Lei perché scrive? Recentemente ho sentito Zadie Smith dire che lei scrive per scoprire se la voce di quando aveva vent'anni e quella di quando ne avrà settanta a appartengono alla stessa persona. «Borges diceva: mi piace distogliermi dal mio destino per scriverlo. Marguerite Duras diceva invece: scrivo per non suicidarmi.
Non credo a nessuna delle tre ipotesi, compresa quella di Zadie Smith. Io penso che scrivere vuol dire invecchiare. Che è una cosa che a me riesce benissimo anche senza scrivere. Del resto io non sono uno che vive per scrivere. Io vivo per vivere».
Come raccoglie tutto il materiale che le serve per i suoi racconti? Che rapporto ha con la tecnologia? «Pessimo: per me Internet non esiste. Passo le giornate dentro le biblioteche, e mi piace molto. A Ravenna c'è una delle più importanti biblioteche di Europa, la Classense, che nasce da un monastero e possiede persino un incunabolo di Aristotele. La frequento spesso. Prendo appunti. Seduto, nel silenzio. Non come Hemingway che scriveva in piedi davanti a un banco del bar, o piegato con la macchina da scrivere sulle ginocchia. Per me il metodo di lavoro è fondamentale. Al metodo ti affezioni, con una specie di idolatria. Stare in quel posto, con quei libri, con quel disordine calcolato, in quelle ore lì. È una superstizione che ti tiene in vita. Non leggerei mai un libro elettronico. Mi fa orrore. Mi piace avere libri di carta, metterli in ordine. Organizzare la libreria rivela il tuo modo di vivere».
Ho letto che sta scrivendo un libro sui biografi ... «I biografi sono le persone più sole del mondo, insieme ai portieri di calcio. La forma romanzo restituisce identità, ma le vite degli altri ti isolano, e basta. Vladimir Nabokov giocava in porta, sia a Pietroburgo che a Cambridge. Anche Camus, il quale diceva che tutto quello che sapeva lo aveva imparato dal calcio. E poi Moacir Barbosa Nascimento, portiere titolare della Nazionale brasiliana al Mondiale del 1950. Quando, allo stadio Maracanã, il Brasile fu sconfitto dall'Uruguay per 2-1. Fu una partita memorabile. I biografi e i portieri di calcio, sì, vorrei scrivere di queste loro diverse solitudini»." (da Elena Stancanelli, Le vite degli altri in trenta righe, "La Repubblica", 01/08/'11)

Nessun commento: