sabato 21 maggio 2011

Volevo essere una gattamorta


"Si inneggiava nel nuovo rosa all’uso dell’ironia, e anzi dell’autoironia nelle giovani autrici - quasi fosse una scoperta nella scrittura delle donne - alla cui luce venivano analizzati problemi concreti di ragazze alle prese con la vita, quali la lotta per il lavoro o addirittura per la sopravvivenza, senza dimenticare l’Amore, quello con la maiuscola, con la acquietante certezza di un happy ending.
Tutti temi ben presenti a Chiara Moscardelli, al suo occhio acuto e alla sua penna, piuttosto abile per un’esordiente, nella quale si coglie peraltro un solido apparato di letture e quella cultura di battaglia indispensabile per orientarsi nel labirinto
ingannevole delle misere opportunità - ammesso che ne esistano - offerte oggi dal mondo del lavoro.
Il suo primo romanzo, Volevo essere una gatta morta (Einaudi) è una sorta di anti-chicklit nei toni, solido eppur scritto con mano leggera, impietosa eppure di un’agritudine complice e amorevole che, nell’apparente identità dei temi opta tuttavia per una soluzione estranea alla nuova letteratura femminile, scegliendo anzitutto di non risolvere in fiaba ma accettare le contraddizioni del reale in parte gradevoli in parte immodificabili.
La protagonista Chiara è una Bridget Jones (più volte citata nel libro) di serio pensiero che non si ritrova con due uomini come Colin Firth e Hugh Grant a fare da cascamorti a lei con le sue improbabili mutande ascellari a coronare l'ingloriosa ciccia, una figura che in fondo ripropone portandolo agli estremi l'eterno mito di Cenerentola, una Cenerentola che non si trasforma in bel cigno ma viene amata come brutto anatroccolo.
Sebbene anche lei si senta un brutto anatroccolo, è però viva, spiritosa, vitale e soprattutto capace di amicizia rara e profonda; sa essere forte nelle vicende pratiche, pure quando tutto le si volge amabilmente contro, come i tanti marchingegni tecnologici nei film di Jerry Lewis.
Insomma è vera, inadeguata, pasticciona. Irresistibile. Idealizza un ragazzo, crede nelle sue promesse vane, lo aspetta interiormente strepitando e inondando di lacrime gli amici scettici - tra i quali uno che parla con competenza dei segreti di Matisse, che però non è il pittore ma il suo cane - ma attendendone fedele, sempre rigenerantesi, l'amore. Perché anche lei, come Elizabeth Bennet, è stata educata al mito dell’enchanting prince. Solo che ai tempi di Jane Austen un uomo suo pari, capace di mirare agli occhi e riconoscerne l'intelligenza, esisteva; mentre ora, alla ragazza ribelle e solida si presentano maschi deboli e farfalloni, incapaci persino di un rapporto sessuale soddisfacente, piagnoni, pronti a donare e ricevere amicizia, ma altrettanto inclini a rincorrere le gatte morte.
Il fatto è che Chiara non è così.
Forse, a suo dire, perché è nata podalica e quindi sovversiva rispetto alla norma. Vorrebbe saper sbattere a tempo le ciglia, fingersi in perenne bisogno di
protezione, identificare con un solo colpo d'occhio tra corteggiatori quello dalla carriera più promettente. Ma come molte altre sue coetanee proprio non ce la fa, sicché non le si apre il portone dell’amore.
Una lettura piacevole, scandita dai miti televisivi e cinematografici degli Anni Ottanta e Novanta, sapiente nelle partizioni, dalla tragedia annunciata dell’inizio al finale liberatorio, un po’ smorzato e frettoloso." (da Mia Peluso, Così pasticciona, così irresistibile, "TuttoLibri", "La Stampa", 21/05/'11)

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