martedì 10 maggio 2011

Se amate le parole, rileggete Finnegans Wake


"Joyce era fatto così. Era uno sfrontato, e non scherzava affatto quando affermò: «Cosa chiedo ai miei lettori? Che dedichino la vita a leggermi». Ho l´impressione che Luigi Schenoni l´abbia fatto davvero: ha passato la vita a leggere l´illeggibile Finnegans Wake. A leggerlo, e a tradurlo – impresa straordinaria di cui ora cogliamo postumo l´ultimo frutto: la traduzione dei capitoli tre e quattro del secondo libro del Finnegans Wake appena uscito da Mondadori (pagg. 339 di testo a fronte e altre 400 circa di glossario). La domanda tanto inevitabile, quanto pertinente è: si può ricreare in un´altra un testo che sfida la lingua in cui nasce, e la lingua in generale, e la comunicazione stessa; anzi, direi, addirittura l´espressione?
Joyce è un genio – non v´è chi ne dubiti. E il suo particolare genio è linguistico; gioca con la lingua come nessuno. O come pochi altri. Per ricchezza e originalità è incomparabile la sua destrezza da giocoliere che lancia e riprende le parole, traffica con la loro intrinseca doppiezza e ambiguità ... Sì che qui, come già al cuore del suo libro più famoso, la vera ordalia non è tanto la vicenda del pover´uomo Leopold Bloom, novello sfigato Ulisse, né la veglia funebre di Tim Finnegan, quanto l´odissea dello stile. È il dramma dello stile che possiede Joyce, è il dramma dello stile la sua passione. Di stile Joyce vive e di stile perisce.
In particolare, tale dramma è in scena in questo inclassificabile libro che non a caso per tutto il tempo che lo scrive – quindici anni – ebbe per titolo work in progress. Mentre per Stanislaus, fratello di Joyce, era un delirio, «l´ultimo delirio della letteratura prima della sua estinzione».
Ora, da che mondo è mondo, la prima cosa che il lettore cerca è la storia. È sempre com´era da bambini; si legge per quello, per la storia ... E che storia si racconta in questo libro? Io lettore lo apro e in inglese come in italiano subito mi disoriento, perché mi accolgono parole e frasi perlomeno strane, forme linguistiche inusitate, mostruosità, ma anche meraviglie! Mi sgomento, ma anche fiuto una libertà, una danza metamorfica, che a volte si imbizzarrisce in una ridda di significati che implodono in fuochi d´artificio che spesso fanno cilecca, e io povero me lettore travolto, ammaliato, ne esco però anche frustrato, sono troppe le possibilità di senso. E la mia mente ricade imbambolata da difficoltà che non si attendeva. Chi poteva pensare che le frasi si dovessero sfogliare come cipolle? Che esistessero portmanteau-word, mot-valise, parole-macedonia?
Come faccio a capire, se qualcuno non mi insegna come leggere questo tipo di scrittura? Ecco l´importanza della scuola! Perché, vedete, c´era una volta una scuola in cui si insegnava a leggere opere come Ulisse, come Finnegans Wake. C´era una scuola pubblica e c´erano professori e maestri, non per forza comunisti, ma abbastanza rivoluzionari da educare a comprendere che l´essere umano, ovvero parlante, può stare in molti modi dentro al suo elemento naturale, che è la lingua; e farci molte cose, anche giocarci, e giocando scoprire magari la propria vocazione poliglotta. Joyce, irlandese di tendenze rivoluzionarie almeno in letteratura, amava e rispettava Sua Maestà l´Inglese, ma era ben consapevole già ai suoi tempi che nelle isole britanniche erano ben più di una le lingue che si parlavano – il manx, l´irlandese, il gaelico, il gallese, e l´inglese era una delle tante ... Sapeva che la lingua non è un sistema chiuso; anzi, se mescola le lingue, quelle vive e quelle morte, se le contamina coi dialetti, se inventa neologismi, è perché per lui la lingua è come la vita, e da vero scrittore, da fedele amante, ne difende la vocazione segreta, e cioè la versatilità, la tendenza all´amalgama. Segreto ben noto prima di lui a Shakespeare, a Rabelais, a Sterne, e negli stessi anni suoi condiviso da Leiris, Breton, Gertrude Stein – che come lui lottano per una concezione dinamica della lingua, capace di rinnovare il sentimento del mondo.
Nel Finnegans Wake non è soltanto Tim Finnegan, il muratore morto cadendo sbronzo da una scala, che bisogna vegliare, ma il linguaggio, perché si apra a una internazionalizzazione quasi da esperanto, perché non si provincializzi in usi proprii, stereotipati. È a quest´invito che bisogna rispondere leggendo questo libro, che è ormai una leggenda. Leggenda che la versione del poeta-traduttore Luigi Schenoni rinsalda, anzi amplifica; all´epica della creazione del capolavoro illeggibile aggiungendo l´epica della traduzione impossibile.
Agli audaci che si apprestano a leggere prometto una cosa certa: dalla lettura usciranno più intelligenti di prima, più vivi, più accorti, più ricchi ... Ne ho la prova con i miei studenti." (da Nadia Fusini, Se amate le parole, rileggete 'Finnegans Wake', "La Repubblica", 10/05/'11)

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