sabato 21 maggio 2011

Notizie dagli scavi


"Fra i nostri autori di cinema, Emidio Greco è il più letterato. Non a caso - smentendo un inveterato luogo comune - ha realizzato film belli tratti da grandi scrittori (da L'invenzione di Morel da Adolfo Bioy Casares nel '74 all'ultimo Notizie degli scavi tratto da Franco Lucentini e uscito poche settimane fa; il mio preferito è forse Ehrengard, da Karen Blixen; poi c'è il dittico da Sciascia, Una storia semplice e Il consiglio d'Egitto). Lo incontro in una schiamazzante trattoria a Ponte Milvio. Notizie degli scavi s'incastona nella Roma più frastornante: allo stesso modo, qui, mi conforta la lucidità di Emidio. I ricordi di un'Italia avventurosa, remota come un'era archeologica, riverberano su un presente osservato con sguardo altrettanto penetrante. Cominciamo a scavare dunque.
Con Notizie degli scavi si chiude un cerchio. «Lessi il racconto di Lucentini appena uscì, nel '64 da Feltrinelli, e me ne innamorai all'istante. Al concorso per il Centro sperimentale di cinematografia buttai giù una sceneggiatura, ma il film l'ho realizzato solo quarantasei anni dopo! Sino ad allora avevo vissuto a Torino (dove mi ero trasferito ragazzo dalla Puglia). Ero l'unico a voler fare cinema in un gruppo di aspiranti artisti, alcuni dei quali destinati alla
celebrità: Merz, Pistoletto, Paolini, Zorio e altri. In particolare Alighiero Boetti era il mio migliore amico: per una decina d'anni ci vedemmo tutti i giorni. Facevamo ragioneria poi ci iscrivemmo, senza mai laurearci, ad economia e commercio. La mia prima vocazione era teatrale: i Sei personaggi di Pirandello mi avevano sconvolto. Verso il '56 o '57, a Palazzo Campana ascoltai una serie di conferenze di Mario Gromo, critico cinematografico della Stampa. Fu una folgorazione. Ma Torino fu decisiva, ovviamente, anche per la letteratura. La lettura di Borges fu anch'essa mediata da Lucentini, che tradusse Finzioni per Einaudi nel '61 (anche se prima lessi L'Aleph, uscito da Feltrinelli)».
La Torino degli artisti concettuali e quella di Einaudi parevano però città distanti. E forse hai fatto tu da trait d'union ... «Beh, con Boetti in effetti è
andata un po' così. Su di lui nel '78 ho anche fatto un film, Niente da vedere niente da nascondere (nel 2006 Sossella lo ha pubblicato in dvd assieme a testi di Annemarie Sauzeau e Stefano Chiodi, ndr). Gli amici facevano capo alla galleria di Gian Enzo Sperone, in via Carlo Alberto.
Erano anni fantastici ... Alighiero e io eravamo stati folgorati da de Staël e Bacon alla Galleria d'Arte Moderna. Ma il primo a "rompere" con la pittura è Pistoletto coi Quadri specchianti, nel '63. Uno choc. Il suo gallerista non li capisce, lui va da Ileana Sonnabend a Parigi e da lì tutto prende il via. Poi la diaspora, Alighiero e io ci trasferiamo a Roma. Borges ci affratellava. L'intensità di quelle letture era il segno di una temperatura esistenziale: ci sentivamo davvero "gettati" nel tempo, lo vivevamo come campo di possibilità».
Gli anni Sessanta furono questo, in Italia. Una «finestra» che si chiuse abbastanza presto. «Basti pensare a cosa rappresentò il Gruppo 63. Io mi legai soprattutto ad Angelo Guglielmi (che mi fece lavorare in televisione), ad Andrea Barbato (che con me ha scritto due film) e a Enrico Filippini, che collaborò a Ehrengard e fu mio grande amico. Alla Rai ho lavorato molto dal '75 all'80 circa, dopo la riforma e prima che si inseguissero indiscriminatamente le reti allora dette "commerciali". Fu allora che ebbi l'occasione di incontrarlo, Borges; era l'80, gli veniva conferito il Premio Cervantes e lo intervistai. Gli dissi che avevo tratto un film dal suo amico Bioy Casares, il che non lo colpì granché. Mi rispose che un altro italiano aveva fatto un film tratto invece da un suo racconto: era Bernardo Bertolucci, e il film Strategia del ragno».
Con tutta l'ammirazione per Bertolucci, il passaggio da Borges ad Ammaniti disegna bene il percorso della nostra cultura ... Mi pare di capire che ancor oggi l’affascini l'aura borgesiana, in letteratura. «Paul Auster, Cees Nooteboom, un certo Milan Kundera, secondo me anche Javier Marías sono gli scrittori che oggi leggo più volentieri. In Italia un certo Calvino e poi Sciascia di sicuro. Tante volte ho provato a immaginare un film tratto da Borges, ma mi pare impossibile».
Del resto le piacciono soprattutto testi «anti-cinematografici».
È anche il caso di Notizie degli scavi, che si regge sulla prospettiva autre
del protagonista, un alienato assai beckettiano ironicamente soprannominato il Professore (e interpretato da Giuseppe Battiston in modo magistrale). «Faccio un cinema che si nega, sì. È un rischio calcolato. Non ci sono molte soggettive, ma è come se la macchina da presa si identificasse con lo sguardo del personaggio. Credo di aver riprodotto la sua ossessività, la sua catatonia ... i dialoghi sono riportati pari pari. È un personaggio verosimile, il Professore. Del resto sono sempre stato per un cinema della verosimiglianza (non del realismo, cosa assai diversa), che per me si traduce in una tensione etica contro ogni ideologia o pensiero totalizzante. È quella che in filosofia si definisce un'epoché».
Come nel finale di Notizie degli scavi: «ma che poi chi lo sa chi eravamo, e tutto quanto che era». «Accettare davvero l'infinita ambiguità dell'esistenza non è così semplice. Lettura decisiva fu La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale di Edmund Husserl, tradotto da Filippini nel '61 per il Saggiatore. Quello che Husserl chiama il Mondo della vita muta istante dopo istante, e l'Incertezza è condizione universale dell'esistenza. Ma già in Il Rosso e il nero di Stendhal trovo lo stesso azzeramento dell'enfasi dei significati. L'ossessione per la scalata sociale di Julien Sorel non può che portare a uno scacco, a una decapitazione - come quella dell'avvocato Di Blasi alla fine del Consiglio d'Egitto. All'esecuzione faccio assistere la Contessa di Regalpetra - come Mathilde de la Mole in Il Rosso e il nero».
Ecco, è proprio pensando a questo finale, e in Notizie degli scavi alla scena in ospedale, che mi è venuto in mente come Domenico Scarpa conclude il suo saggio sul racconto di Lucentini: «arrivati alla fine ci si commuove senza nemmeno accorgersene». Ci si sorprende di quest’improvvisa apertura al sentimento - in un autore del tuo rigore culturale e stilistico. «Dovevo arrivare a quest'età perché mi si dicesse che ho fatto un film sentimentale (il che non vuol dire, mi auguro, sentimentalistico).
In Husserl c'è l'epoché ma c'è anche un tèlos, quello dell'amore: un'energia che non cessa, la stessa di Stendhal, appunto. Cioè l'accettazione dell'Altro. Il sorriso del Professore e della Marchesa (che è in realtà una prostituta), riflessi da un vetro alla fine di Notizie degli scavi, è il segno che quella loro vita assurda, nonostante tutto, viene accettata».
Ed è il segno che il Disincanto non è assoluto. Sta a dimostrarlo il suo impegno civile e politico. Lei è tutto meno che un nichilista, direi. «Non bisogna confondere il disincanto col disimpegno. Niente nichilismo e niente soggettivismo gratuito, grazie. Giorno dopo giorno - proprio perché nulla è in sé deciso - dobbiamo decidere della nostra esistenza».
Ma oggi, rispetto agli anni Sessanta, quel campo di possibilità è ancora aperto? «Al contrario di allora, chi è giovane oggi si vede negata ogni possibilità. È un'epoca tremenda, secondo molti irreversibile. D'altra parte ho settantadue anni. Cambiare - ammesso che ne abbia voglia - ormai non posso. Non resta che salutarci: con lo stesso sorriso del Professore»." (da Andrea Cortellessa, Emidio Greco: 'L'utopia è fare un film con Borges', "TuttoLibri", "La Stampa", 21/05/'11)

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