mercoledì 18 maggio 2011

Alone Together


"Negli anni Sessanta, l’informatico Joseph Weizenbaum creò il programma ELIZA, che simulava l’interazione fra uno psicoterapeuta e i suoi pazienti. Il programma, testato da alcuni studenti, si rivelò fin troppo efficace, al punto che alcune «cavie», pur sapendo di avere a che fare con un computer, chiesero di poter essere lasciate sole con il «dottore» durante le sedute. Colpito da quella che giudicava una pericolosa perdita di consapevolezza delle differenze fra esseri umani e macchine, Weizenbaum scrisse un veemente atto di accusa contro le chimere dell’Intelligenza Artificiale. Più di quarant’anni dopo, Sherry Turkle (la celebre studiosa di «cyberantropologia », autrice del bestseller La vita sullo schermo, Apogeo) riconosce la lungimiranza di Weizenbaum e fa autocritica. Ai tempi, l’allora giovanissima Turkle aveva infatti criticato il maestro, affermando che gli studenti sapevano di avere a che fare con una macchina, ma usavano la simulazione per capire meglio se stessi sperimentando le proprie emozioni e sentimenti. Un punto di vista che Turkle ha ribadito in seguito, sostenendo che l’uso di false identità nei giochi di ruolo online è una salutare pratica terapeutica. Oggi arriva il clamoroso «pentimento», motivato nel recentissimo Alone Together, un saggio che in America è andato esaurito in poche settimane.
Citando i risultati delle proprie ricerche, oltre a numerosi casi clinici (la Turkle è psicoterapeuta, oltre che antropologa), l’autrice ammette di essersi sbagliata nell’attribuire ai nuovi media un ruolo di socializzazione prevalentemente positivo, salvo casi patologici non attribuibili al mezzo in quanto tale. Ora si è convinta che la comunicazione mediata dal computer — ove non associata ad adeguati livelli di consapevolezza critica — sia alla radice di gravi problemi socioculturali, oltre che psicologici: crescente fragilità dell’identità giovanile, costretta a trovare sostegno nella costante interazione comunicativa con l’altro virtuale (si dialoga con le interfacce, non con le persone, con le quali si evita anzi il più possibile di avere rapporti fisici, rifuggendo persino dai contatti con la voce, come dimostra la preferenza per gli sms rispetto alle telefonate); indebolimento del legame sociale, logorato dai processi di individualizzazione, e — come previsto dal vecchio Weizenbaum — smarrimento della differenza fra macchine ed esseri viventi. L’ultimo rischio — aggravato dalla crescente capacità delle intelligenze artificiali di decodificare il linguaggio naturale (vedi le strabilianti prestazioni del sistema computazionale Watson creato da Ibm) — è al centro di un altro clamoroso pentimento: quello di Jaron Lanier, pioniere della realtà virtuale, nonché autore di un recente libro (Tu non sei un gadget, Mondadori) che mette in guardia contro la tendenza a delegare memoria, creatività e capacità di giudizio alla rete, concepita come una sorta di superintelligenza planetaria. Tutti convertiti al paradigma «apocalittico»? Lo schema apocalittici versus integrati non regge: a vent’anni dall’avvento del Web, l’eterna battaglia fra innovatori e tradizionalisti, che si replica con argomenti noiosamente identici in occasione di tutte le rivoluzioni tecnologiche, si è esaurita, nel senso che tutti danno ormai per scontato che le tecnologie digitali sono qui per restare per cui è inevitabile farci i conti.
La vera novità è un’altra: molti intellettuali, dopo avere subito il fascino della fulminea mutazione culturale oltre che tecnologica, ma soprattutto delle promesse di un mondo migliore, hanno ricominciato a fare il proprio mestiere, cioè a distinguere fra realtà e mito. Ecco perché, nel corso dell’ultimo anno, sono usciti libri come quelli di Tim Wu, Evgeny Morozov e Mathieu O’Neil, che ragionano sui limiti della rete come strumento di democratizzazione dell’economia e di appiattimento delle gerarchie sociali e politiche; o come quelli di Nicholas Carr e Andrew Keen, che ridimensionano il ruolo rivoluzionario di blog e social network nel campo della produzione culturale.
Anche una delle più prestigiose riviste italiane di filosofia, «aut aut», ha dato il proprio contributo, pubblicando un numero monografico sul Web con interventi, fra gli altri, di Stefano Rodotà sulla «privatizzazione» del diritto internazionale promossa dai colossi dell’industria globale della comunicazione, e di Geert Lovink sulla colonizzazione commerciale delle comunità del cosiddetto Web 2.0. Se per autori come Turkle e Lanier è lecito parlare di pentimento, in quasi tutti i casi appena citati siamo piuttosto di fronte a studiosi che potremmo definire «i delusi di Internet», nel senso della presa d’atto del progressivo esaurirsi delle grandi speranze che il mezzo aveva alimentato negli anni Novanta del secolo scorso." (da Carlo Formenti, Ma anche il Web ha i suoi pentiti, "Corriere della Sera", 17/05/'11)

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