sabato 25 settembre 2010

Yves Bonnefoy, L'opera poetica


"Pochi poeti contemporanei possono vantare un background culturale così ampio e variegato come il francese Yves Bonnefoy, del quale un bellissimo Meridiano raccoglie ora L'opera poetica (a cura e con un saggio introduttivo di Fabio Scotto, traduzioni del medesimo Scotto e di Diana Grange Fiori). Negli anni della formazione è centrale la matematica, ma ben presto Bonnefoy si indirizza verso studi filosofici di logica ed epistemologia, senza contare la successiva e crescente passione per la storia dell'arte. Segnatamente per l'arte rinascimentale italiana, il cui aspetto luminoso e geometrico imporrà al giovane poeta, attratto dai surrealisti e dallo sprofondamento nel mondo onirico e dell'inconscio, un nuovo sguardo sulla realtà. Capace di tenere insieme intuizione e raziocinio, visione fantasmatica e analisi critica. Proprio da qui vorrei partire, dall'indissolubile legame tra la figura del poeta e quella del critico, su cui anche l'introduzione del Meridiano si sofferma. La fertilità di tale osmosi è evidente.
Ma queste due figure non sono mai entrate in conflitto tra di loro? «Mi sono talmente impegnato a ravvicinare la scrittura poetica e la riflessione critica, che a volte, in effetti, non so più distinguere l'una dall'altra. Se questo è accaduto, la ragione è semplice: la poesia non si rapporta alle cose, ma alla singolarità delle esistenze. Anche quando parla di aspetti del mondo naturale, lo fa situandoli in un luogo, dando loro una realtà temporale. Per questo sfugge alla dimensione puramente concettuale, di per sé incapace di restituire l'esperienza del tempo. Da qui la necessità di una scrittura critica aperta alle due modalità del pensiero: l'intuizione e il ragionamento. Non vedo però perché questo dovrebbe dare luogo a dei conflitti. Quando accade è soltanto perché l'aspetto concettuale si cristallizza su posizioni ideologiche che il progetto poetico ha la precisa intenzione di decostruire».
L'amicizia ha avuto un'enorme importanza nella sua esistenza. Mi piacerebbe che, in particolare, ci dicesse qualcosa sulla sua relazione con Paul Celan. «Non è stato facile essere amico di Celan. Paul era di temperamento naturalmente affettuoso, ma le vessazioni che la sua famiglia e lui stesso subirono durante la guerra, e poi la calunnia di cui fu vittima qualche anno più tardi, distrussero in lui ogni fiducia in sé e negli altri. Bisognava continuamente rassicurarlo. Il che non ha impedito la creazione di una impresa comune, la rivista l'Éphémère, di cui era uno dei redattori. Resta che noi francesi, compresi moglie e figlio, non potevamo condividere il suo dramma più intimo, ovvero il rapporto incessante quanto doloroso con la lingua tedesca, che amava appassionatamente, ma di cui era stato e si sentiva vittima».
Si riferisce alla vicenda dei lager nazisti, in cui fu coinvolta la sua famiglia?
«Certo. Mi lasci aggiungere però, che malgrado un sentimento di cosmica sfiducia, Paul era capace di improvvisi slanci di confidenza, da cui scaturiva un sentimento di grande solidarietà nei suoi confronti. È stato così anche dopo la sua morte. Quando, qualche anno fa, si è parlato di erigere a Parigi una statua in suo onore, mi sono opposto con tutte le forze a un'idea nata sotto i peggiori auspici. Si sarebbe celebrato il grande poeta in modo allegorico: da un lato un uomo appoggiato a un palo, dall'altro una donna giacente a terra. Entrambi nudi. Paul sarebbe inorridito di fronte a una cosa del genere».
Quanto è rimasto in lei, nella sua poesia, dell'originaria matrice surrealista? E da cosa, in particolare, ha sentito di dover prendere le distanze? «L'elemento di maggior fascino del surrealismo era legato a un'idea di poesia capace di mettersi in ascolto della parola inconscia. Si scoprono così nei nostri comportamenti motivazioni censurate e si rende possibile una critica dei valori spesso fittizi e falsi di cui le società si fanno forti. Ma soprattutto si percepiscono analogie nascoste e si possono impiegare metafore e immagini con una libertà e inventività che il discorso ordinario non conosce. Da qui uno sguardo molto più penetrante su tutte le situazioni della vita, ivi inclusa la politica. È un peccato che la poesia successiva al surrealismo non abbia mantenuto vivo questo insegnamento».
Quali invece i motivi del distacco? «Lo stesso surrealismo che ha donato la parola all'inconscio, ha finito poi per togliergliela. La "scrittura automatica", rispetto alla sua sorgente più profonda, è soltanto un torrente superficiale. Votandosi alle associazioni del pensiero senza interrogarle a sufficienza, si finisce per non capire le intuizioni e le proposizioni che il nostro io profondo cerca di comunicarci. Peggio, si favoriscono interpretazioni sovrannaturali, basate sul ricorso alla mitologia o alla religione. Vede, bisogna prendere sul serio il surrealismo, e perciò stesso criticarlo. Prima ancora che nella riflessione teorica, nella pratica della scrittura. Questo era il mio progetto quando ho lasciato il gruppo di André Breton, che peraltro continuo a considerare uno dei più grandi poeti del ventesimo secolo».
Lei ha scritto che «l'Italia è in modo quasi innato una terra per le immagini». Cosa intendeva dire con quella affermazione? «La ringrazio di pormi questa domanda dopo le osservazioni sul surrealismo. Perché l'incontro con l'Italia è arrivato subito dopo la conclusione di quell'esperienza, con tutti i problemi che aveva lasciato in sospeso. Il surrealismo ricorreva spesso a proposizioni confuse, informi, notturne dell'interiorità; mentre la grande arte italiana, al contrario, mi mostrava il valore, l'apporto di significato del gioco della luce sulle forme. Il surrealismo restava sul piano della pulsione e del desiderio, attento alle loro verità; la pittura di Piero della Francesca, o l'architettura di Alberti o Sangallo, invece, si ponevano immediatamente sul piano della sublimazione».
Ma non c'era solo questo aspetto. «Naturalmente no. L'arte italiana ha anche il suo "dark side": pensi a Paolo Uccello, a Pontormo, a Salvator Rosa. E nell'avvicinare questo tratto oscuro, il mio passato surrealista mi ha aiutato. Mi ha aiutato a riconoscere nella tradizione artistica italiana tanto la messa in scena di un sogno, quanto la spinta verso la conoscenza. L'Italia è terra delle immagini per eccellenza perché ha edificato un teatro in cui il pensiero e il sogno, la nostalgia dell'infinito e la percezione della finitezza, si confrontano in modo esplicito».
Di fronte a una generalizzata sfiducia nei confronti della poesia, lei invece individua in essa una forma di possibile «teologia della terra». Quale significato attribuire a questa immagine? «Il pensiero concettuale ha permesso all'epoca dei Lumi un progresso della scienza che ha inferto colpi tremendi ai miti, che fino ad allora avevano strutturato la forma del mondo sensibile. A quel punto la tentazione è stata di considerare come unica realtà quella del linguaggio; pensi alla poetica di Mallarmé. Ma dal carattere illusorio dei miti non bisogna dedurre che non ci sia "essenza" nel mondo che ci circonda. L'essenza è rappresentata proprio dalla terra che abitiamo. La poesia lo sa e deve riaffermarlo in modo ancora più forte, esaltando i diversi aspetti dell'ambiente naturale e gli insegnamenti che offre. Ciò detto, forse oggi non userei più la formula "teologia della terra", perché potrebbe far pensare alla terra come a una divinità, al modo dei romantici. Parlerei piuttosto della terra come della creta che possiamo modellare, naturalmente se abbiamo la saggezza di comprenderla»." (da Franco Marcoaldi, Yves Bonnefoy, 'Grazie all'arte italiana ho scoperto una nuova poesia', "La Repubblica", 24/09/'10)

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