lunedì 20 settembre 2010

Gli scrittori del '900 e quel difficile equilibrio con il lavoro vero


"Litterae non dant panem, la scrittura non paga. Lapidari quant'altri mai i latini liquidavano la faccenda in un motto valido per ogni tempo e latitudine. Perché gira che ti rigira c'è poco da fare: nella maggior parte dei casi per dedicarsi all'arte dello scrivere occorre arrangiare altrimenti la focaccia.
E il paesaggio della narrativa italiana novecentesca almeno in ciò può dirsi pienamente cosmopolita. Anche se spiccano comunque due vene carsiche.
Da un lato ci sono gli scrittori che non svolsero mai — o quasi — professioni altre rispetto al lavoro autoriale o editoriale. Potevano essere giornalisti, collaboratori di case editrici o addirittura editor anzitempo: ma non finirono per "sporcarsi le mani" con qualcosa di assai distante dalla parola.
Fra di essi si contano alcuni dei più grandi: Calvino, Moravia, Arbasino, Malerba, Carlo Levi, Pirandello, Elsa Morante, Vitaliano Brancati, Tondelli e molti ancora. Senza dimenticare la fitta schiera dei traduttori-autori, capitanata da Pavese e dalla sua allieva Pivano. Forse non basta a dire che per scrivere bene occorre non timbrare il cartellino — o quantomeno nascere in una famiglia agiata, cosa questa che accomuna non pochi — ma è comunque un dato significativo. Resta nel solco anche l'esperienza di attore e drammaturgo e Nobel Dario Fo.
Dall'altro lato abbiamo un rigoglioso battaglione di "scrittori lavoratori" veri e propri.
Una premessa: pochi autori nostrani possono mostrare curricula sconvolgenti come quelli di Jack London (fiociniere sull'Artico, lavandaio e cercatore d'oro), Joseph Conrad (marinaio, e commerciante) di Céline (direttore di una piantagione di cacao in Africa e poi medico dei poveri), o di George Orwell (poliziotto in Birmania e sguattero nei ristoranti parigini) o del più recente ed eclettico Raymond Carver (anche falegname e fattorino).
Ma le cicatrici del mestiere con cui campare non mancano fra i narratori della Penisola. L'esempio più eclatante è forse Primo Levi, che lavorò nel campo chimico fino alla pensione. Prima impiegato e poi direttore della Siva, ditta di vernici nel torinese: nonostante il grande riscatto letterario avuto fra gli anni Cinquanta e Sessanta, non abbandonò mai la sua professione — e anzi onorò l'arte dell'operaismo specializzato nel suo romanzo La chiave a stella.
E quanto a specializzazione tecnica, viene subito in mente Carlo Emilio Gadda. Il grandissimo scrittore milanese lavorò infatti come ingegnere elettrotecnico fino al 1940, nonostante alcuni sofferti e ripetuti tentativi di dedicarsi soltanto alla letteratura. Solo a quarantasette anni suonati (e dopo un premio Bagutta), si concesse di tornare per sempre al suo vero amore.
Notevole, e quasi unico nel suo genere, è anche il caso di Paolo Volponi. Autore fra i più significativi del Novecento italiano, lavorò all'Olivetti come direttore dei servizi sociali e poi come direttore delle relazioni aziendali. Passò quindi alla Fiat e fu poi addirittura presidente della Fondazione Agnelli, prima di diventare senatore del PCI. Anche per lui le esperienze nel mondo del lavoro lasciarono un segno, pienamente visibile in opere come Memoriale (dove spicca la fabbrica alienante del dopoguerra) e Corporale.
Altri esempi? Della doppia vita di Italo Svevo sappiamo fin dai banchi del liceo: fu impiegato nella filiale triestina della Banca Union e poi manager nell'azienda del suocero. Mario Rigoni Stern — dopo le terribili esperienze in guerra — non si mosse dal catasto di Asiago, dove lavorò come impiegato fino al prepensionamento per questioni di salute. Piero Chiara, delizioso affrescatore della provincia varesotta, lavorò nella cancelleria di Luino. Elio Vittorini fu per anni contabile e correttore di bozze, prima che la Bompiani e poi l'Einaudi non gli dessero incarichi editoriali, facendolo passare dall'altra parte della barricata.
E prima di diventare quello che tutti sappiamo — un parlamentare, uno scrittore, un intellettuale di peso — Leonardo Sciascia lavorò per sette lunghi anni al Consorzio Agrario di Racalmuto, il suo paese d'origine in provincia di Agrigento.
Molto ampia e variegata fu la schiera degli insegnanti: una strada quasi naturale soprattutto per gli intellettuali di provincia, e che garantiva ampio tempo libero da dedicare alla scrittura.
Su tutti ricordiamo Lucio Mastronardi, quasi archetipale nella sua figura di insegnante dal carattere difficile e complesso — e che tornerà, immancabile, nel suo famoso Maestro di Vigevano. Un cenno a parte meriterebbe Pier Paolo Pasolini, che da giovane insegnò alla scuola media di Valvasone, in Friuli, e più tardi in un istituto parificato del Ciampino a Roma. Anche Giuseppe Pontiggia — bancario depresso per una decina d'anni, esperienza cui dedicò l'eloquente La morte in banca — si dedicò in seguito all'insegnamento serale, lavoro che gli consentiva di scrivere con maggiore agio. Diversa la questione per Mario Lodi, che fu maestro elementare e pedagogo di grande livello, e non vide mai nella scuola un lavoro "altro" rispetto alla scrittura: anzi, li fece compenetrare in una poetica unica. ricca è la casistica anche fra i cattedratici. Due fra tutti: Pirandello a Magistero insegnava Stilistica, Umberto Eco Semiotica a Bologna.
Nel novero degli scrittori "popolari" merita una citazione almeno Giorgio Scerbanenco: prototipo del narratore di seconda generazione, madre italiana e padre ucraino, dovette cavarsela con una quantità di mestieri umili — fra cui il guidatore di ambulanze e l'operaio.
L'esperienza più singolare rimane quella di Vincenzo Rabito, autore di Terramatta, contadino semianalfabeta che non subì mai la contraddizione fra desiderio delle lettere e dura realtà del lavoro: concentrò entrambe in sette anni di lavoro solitario per raccontare cinquant'anni di storia. Cinquant'anni di un Paese che lavora, ama, lotta. E scrive." (da Stefano Biolchini - Federico Fiorencis, Gli scrittori del '900 e quel difficile equilibrio con il lavoro vero, "Il Sole 24 Ore", 19/09/'10)

Corro al lavoro, poi scriverò (Serena Danna)

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