sabato 4 settembre 2010

Diario di lettura: Azar Nafisi


"Quel libro era come la bambola, da coccolare, da giocarci insieme, fantasticando.
Altri erano invece un rifugio, da leggere affondandoci dentro, dietro la porta chiusa per non sentire le voci vacue degli ospiti o, peggio, le voci alterate dei genitori in litigio. Libri per la complicità con il padre, altri libri contro l'asprezza della madre. Poi la bambina è cresciuta. Leggendo attraverso i traumi e
le tenerezze; leggendo, da adolescente, così come metteva il muso o indossava jeans strappati: per marcare il proprio sofisticato disprezzo verso gli adulti. Il lavoro, i distacchi, le nascite, i lutti, le idee, l'esilio, anzi gli esilii: sempre con i libri. I libri, oggi e sempre, come strumento di lotta politica. Come pezzi di sé.
Azar Nafisi (sarà al Festivaletteratura di Mantova giovedì 9, Palazzo Ducale, h. 20.45) è una donna di grande fascino e carisma.
Ha empatia, qualità non proprio diffusissima fra gli intellettuali. Ha capacità
di racconto, e mondi da raccontare. Ha la resilienza della combattente. È iraniana, di influente famiglia di Teheran, il padre è stato sindaco della città, la madre
la prima donna eletta in Parlamento. Dal 1997 vive negli Stati Uniti, insegna
letteratura alla Paul Nitze School of Advanced International Studies (cliché
vuole che si aggiunga: «prestigiosa») dell’Università Johns Hopkins di Washington. Tornata in Iran nel 1979 dopo gli studi americani, ha insegnato all'Università di Teheran, ne è stata espulsa per violazione delle norme sull'abbigliamento (altro che il dress code di cui cinguettano i settimanali femminili: vestirsi può essere roba da codice sì ma penale), ha formato gruppi clandestini di lettura d'opere censurate o osteggiate dal regime. Flaubert, Fitzgerald, Woolf, Nabokov.
Il suo libro più famoso è appunto Leggere Lolita a Teheran, il più recente Le cose che non ho detto, entrambi per i tipi di Adelphi, il prossimo al quale lavora da anni si intitolerà The Republic of Imagination. Lei lo descrive come un trattato in difesa delle arti liberali, uscirà nel 2012 o oltre.
Per questa donna tutta souplesse e tenacia, il rapporto strettissimo fra cultura e democrazia è lampante. Non c'è l'una senza l'altra. È ragione di vita, è corpo e non astrattezza. «Sarebbe come chiedersi a che cosa servono le mani, o il sangue che ci scorre nelle vene. La conoscenza immaginativa è un modo di guardare al mondo, di interagire con il mondo. Di cambiare il mondo»: così, lo scorso anno, chiedendosi retoricamente se letteratura e liberal arts siano utili, davanti a una platea composta dai rettori di decine di università americane (ovviamente «prestigiose»). In una vita in cui i libri significano perdita e ribellione, strappo e comunità, e lotta contro tutte le censure, pubbliche e private, è ovvio che siano corpo, «il sangue che ci scorre nelle vene».
Ma in principio, nella Teheran degli Anni Cinquanta, fu la voce del padre a farle scoprire il piacere della lettura. «Quando ero piccolissima, avevo forse tre anni, mio padre alla sera si sedeva accanto al mio letto e mi leggeva Ferdusi, il grande poeta epico iraniano di oltre mille anni fa. È la poesia, la nostra identità. La grande mitologia, fino alla conquista araba: fino a quando il turbante non ha sostituito la corona. Ancora oggi leggo gli antichi poeti persiani, ancora oggi li
recito a memoria. In casa nostra, giocavamo a memorizzare versi».
Poi avrà imparato a leggere da sola. «Prima in farsi, poi anche in inglese. Ma le grandi storie per me non avevano nazionalità, tutto il mondo era a portata
di mano. Il Piccolo Principe, Andersen, quel marmocchio di Tom Sawyer e soprattutto Huckleberry Finn. Le favole di La Fontaine ...».
Che suo padre tradusse, in carcere. Nei quattro anni che scontò perché caduto
politicamente in disgrazia, all'inizio dei Sessanta, quando lei era una bambina. «... e Pinocchio, in un'edizione illustrata. Molte cose sono cambiate, ma queste storie non mi hanno mai abbandonata. Più tardi, giocavamo a inventarne insieme, di storie. Quando eravamo buoni, a Natale ci regalavano libri».
A tredici anni, il primo esilio. Azar Nafisi viene mandata a studiare in Inghilterra.
«Leggevo tantissimi romanzi russi e francesi. L’uomo che ride di Hugo, Stendhal, Ivanhoe, Il Conte di Montecristo, Père Goriot. Mi sentivo sola, ero come un'aliena. Leggevo sotto le coperte, con la borsa dell'acqua calda. A pancia in sotto. Abbracciavo i libri, mi ci scaldavo».
Il rapporto con i libri è anche fisico. Persino sensuale. Rimangono in memoria gli odori, i calori, le posizioni. «Delitto e castigo invece l'ho detestato. Iddio lassù in cielo deve essere stanco di Dostoevskij con i suoi lamenti e le
sue proteste».
I primi amori, l'ansia della scoperta. «I miei cugini erano innamorati dell'esistenzialismo. Sartre non mi piaceva, Camus invece l'ho consumato».
E cita ancora, a memoria. «Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so». E «... davanti a quella notte carica di segni e di stelle, mi aprivo per la prima volta alla dolce indifferenza del mondo».
«Ma amavo, soprattutto, le storie. Attraverso i libri entravo in relazione con gli altri, pretendevo di essere già cresciuta. Tutto quello che di buono c'è, nella vita, viene dai libri. Negli anni del liceo e poi all'università ho letto tutto:
Orgoglio e pregiudizio, Tristram Shandy, Cime tempestose, Tom Jones. Odiavo la grammatica, adoravo i romanzi».
Un pedigree da lettrice impeccabile, di classe. «Ma no. Leggevo anche romanzi popolari. Ho letto forse una dozzina di volte Désirée, la ragazza che fece innamorare Napoleone, ho divorato il film con Jean Simmons».
Certo. È da lì che è passata l'educazione sentimentale di una generazione di ragazzine. La piccola Désirée che si imbottisce il décolleté di fazzoletti perché non è ancora abbastanza donna, e parte alla conquista del mondo e del suo imperatore.
E i classici? «Ovviamente. I tragici greci, Lucrezio, Virgilio, e Ovidio anche lui mandato in esilio. Shakespeare: la prova che Dio esiste. Soprattutto, da ragazza o giù di lì, sono caduta in amore con i classici: da Madame Bovary a Gita al faro e Mrs Dalloway, Joyce, e Moravia, e Italo Calvino (ah, Il barone rampante!), e i poeti, Eliot, Auden, Wallace Stevens, e i francesi, tutti ... Montale ... Ho studiato le lingue, leggo ma non parlo il francese, vorrei sapere bene l'italiano, il russo, lo spagnolo. Nel mio elenco degli amori c'è tanta America Latina. Cabrera Infante, Eloy Martinez, García Márquez prima che diventasse troppo di moda. La fiction crea mondi interi, ricrea l'essenza della realtà. È immaginazione democratica perché inventa una voce per ogni personaggio, anche quando sono diversissimi fra di loro».
All'elenco delle passioni non manca ovviamente Nabokov, simbolo quasi, con Lolita a Teheran, della lettura anche come rito collettivo, come sguardo sul
mondo e sul suo possibile cambiamento. È una copia di Ada che Azar Nafisi porta con sé negli esilii, in Iran e via dall'Iran, una copia consumata, traccia di
un grande amore. Per il resto, la scrittrice-lettrice non accumula volumi, non organizza biblioteche. «Perché so che tutto può esserti portato via, tutto può essere
distrutto. Ho avuto libri in America e in Iran, ripetutamente sono partita da un luogo e poi anche dall'altro, abbandonando i miei libri, affidandoli a parenti, spedendoli attraverso gli oceani, sentendone la mancanza e ricomprandoli, perdendoli, ritrovandoli. Non sono brava, a conservare una biblioteca».
Quando tutto può esserti portato via, leggere è sopravvivere, resistere." (da Giovanna Zucconi, I libri? Sono la libertà che corre nelle vene, "TuttoLibri", "La Stampa", 04/09/'10)

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