mercoledì 29 luglio 2009

Kis, la letteratura contro la barbarie


"Arrivato in libreria subito dopo Un incontro di Milan Kundera, Homo poeticus di Danilo Kiš (Adelphi, traduzione di Dunja Badnjevic) non ha, sin qui, sollevato lo stesso interesse e alimentato le stesse polemiche. Eppure, la controversa questione del rapporto tra letteratura e politica è trattata in modo ancora più esplicito. Eppure, Milan Kundera è il primo a venerare Kiš, come dimostrano le pagine di Un incontro che gli ha dedicato. Niente da fare: potenza dei nomi e della fama. Scrittore di culto (per un numero circoscritto di lettori) in vita, Kiš rimane tale in morte. Ciò non toglie che questa raccolta di saggi e di interviste dia parecchio da pensare. A partire da quel titolo, Homo poeticus, scelto a emblema di un´esistenza che non intende acconsentire all´unica e costrittiva dimensione dell´uomo inteso come animale politico - dato che il cuore di ciascuno, oltre che per la politica, batte e soffre per l´amore, per la finitudine, per una innata tensione metafisica. Quel titolo è un´affermazione di principio tanto più importante, vista l´appartenenza di Kiš alla composita e indefinibile comunità degli «jugoslovacchi», che il resto dell´Europa ha voluto confinare nell´asfittica dimensione di sanguinose lotte nazionaliste. Se si è imposto quel cliché, afferma Kiš, è anche per l´invadenza di quell´etichetta homo politicus, che ha finito per amputare l´intero continente del principale lascito dell´Europa centrale. Lascito che non era affatto politico, ma per l´appunto culturale. «Perché leggendo il polacco Andrzej Kusniewicz o l´ungherese Peter Esterházy, per citare solo due esempi, riconosco in loro, dal punto di vista dell´espressione, l´appartenenza a una certa poetica "centroeuropea" che me li fa sentire vicini? E qual è il suono, la vibrazione che colloca un´opera nel campo magnetico di quella poetica? È, prima di tutto, una presenza immanente della cultura, sotto forma di allusioni, di reminiscenze o citazioni dell´eredità europea nel suo insieme, la coscienza dell´opera, che tuttavia non danneggia la sua spontaneità, con un equilibrio bilanciato tra il pathos ironico e le digressioni liriche. Non è molto ed è tutto».
La vita di Kiš, nato a Subotica nel 1935 e morto a Parigi nel 1989, racconta la stessa storia. Di fronte all´immensa frode ideologica in cui il Nostro cresce, l´unica luce che riesce a portarlo fuori da quella dolorosa nebbia, è la letteratura: vera e propria «diga contro la barbarie». Ecco perché bisogna essere cauti nella critica di "impoliticità" rivolta a scrittori nati nei sistemi totalitari e che da quei sistemi si sono liberati. Quegli scrittori, Kiš ne è un folgorante esempio, hanno conosciuto in prima persona la gabbia unidimensionale della politica. Anche attraverso la figura obbligata dell´intellettuale engagé, completamente votato a contrastarne gli aspetti più atroci. Se quegli scrittori ribadiscono l´autonomia della creatività artistica è per questo motivo. Non è che la politica non li riguardi, come bene dimostra lo spasmodico interesse dell´autore di Giardino cenere nei confronti di chi ha patito soprusi, dolori, morte; nei lager e nei gulag. Insieme, però, emerge l´orgogliosa rivendicazione di uno spazio ulteriore, a favore di una espressività che non soggiace a vincoli, programmi, obblighi. E dunque può allungare il suo sguardo sull´esistenza tutta, compresi «i vertiginosi abissi del possibile». Ne consegue che, anche quando si occupa di un tema squisitamente politico, come nel caso di Una tomba per Boris Davidovic, Kiš ribadisce a voce alta che lui non ha scritto «un libro politico», ma un´opera letteraria, che come tale va giudicata. «L´azione che la letteratura esercita», aggiunge, «è invisibile, incalcolabile, ha conseguenze di lunga portata e al contempo nulle». L´homo poeticus sa di correre questo rischio." (Franco Marcoaldi, Kis, la letteratura contro la barbarie, "La Repubblica", 29/07/'09)

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