sabato 11 luglio 2009

Il paese delle stelle nascoste di Sara Yalda


"La scrittura sfugge a chiare definizioni di genere, e forse è un bene che sia così. Parlare di narrativa al femminile ha ormai in Occidente un sapore un poco retrò, di tempi di lotta per i diritti primari, che sono ormai alle spalle. Le donne leggono e compongono più che mai, ma «ridurre» il tutto entro i confini del sesso di appartenenza risulta approssimativo, financo ingiusto. A chi verrebbe in mente di riflettere intorno alla «scrittura al maschile»? Il dato è scontato e inafferrabile. Ma anche quella femminile non fa quasi più notizia in questa parte del mondo: esiste, senza più bisogno di militare per la propria esistenza. Altrove, però, non è affatto così. Vi sono luoghi del mondo in cui scrivere è un gesto forte da parte delle donne. Una specie di riscatto, uno sfogo di dolore o di rabbia. Una fuga impossibile. Un modo efficace per documentare la propria realtà. «Nascondersi sotto un velo non è un gesto qualsiasi. Si diventa davvero qualcun altro. Soprattutto negli ambienti poveri. Tutto il santo giorno si ascolta la solita solfa: l’uomo non deve guardare la donna, e alla donna è proibito provocare l’uomo. Ma siccome la maggior parte degli uomini non riesce a tenere a bada le proprie pulsioni, la loro violenza repressiva cade sulle donne. In pratica, il sesso diventa un’ossessione», scrive Sara Yalda. In francese. Il suo libro, intitolato Il paese delle stelle nascoste, è un reportage narrativo e dal sapore autobiografico, in quell’Iran in cui ha vissuto soltanto i primi anni di vita, e che conosce in un modo astratto. Alienato. Al di là della vicenda umana, di una prosa brillante e sempre venata di una qualche ironia, il racconto è interessante perché esplora non un mondo soltanto, ma diversi. Teheran con i suoi tredici milioni di abitanti e lo smog che sovraccarica l’aria e irrita gli occhi, ma anche la campagna, la montagna, i paesaggi più strabilianti. A quei paesaggi, forse reali forse mitici, torna anche uno scrittore «uomo» (la definizione diventa d’obbligo, dato il contesto di queste letture). Hamid Ziarati è nato a Teheran, vive a Torino da molti anni e scrive non in farsi ma in un suggestivo italiano. Ne Il meccanico delle rose le donne, più o meno velate, sono quelle di un Iran dei grandi spazi - non solo fisici, anche della fantasia. Sono donne capaci di cambiare vita, di tacere ma non solo per sottomissione. Immagini niente affatto stereotipate, perché come dice ancora Sara Yalda, «la realtà in Iran è più complicata di quanto si creda in Occidente», nel passato così come nel presente. A lei, questa realtà desta nostalgia ma anche un senso di «esclusione»: «Sono proprio quegli sguardi - gli sguardi degli iraniani, nei quali speravo di riconoscermi - a farmi sentire in esilio». Solo la scrittura riesce a esorcizzare il miscuglio di sensazioni indefinibili e inaspettate che colgono l’io narrante di ritorno in Iran, dopo vent’anni e una vita lontana, in Francia.
Nessuna vita aspetta invece Fatemeh, protagonista e voce sola de La Muta (Bompiani), scritto da Chahdortt Djavann, figlia di Pascià Khan, imprigionato da Khomeini nel 1979. Anche lei vive in esilio in a Parigi, da allora. Il suo romanzo è un terribile memoriale alla vigilia dell’esecuzione. Fatemeh ha quindici anni. Racconta la propria storia di soprusi e abusi, e insieme ad essa quella della zia muta - che ne è lo specchio adulto e silenzioso. Qui, il lettore sprofonda nell’incubo. Il velo di Fatemeh è il simbolo di una condizione femminile aberrante, eppure reale. Di un Iran dove il fondamentalismo condanna ogni donna all’impotenza più irrimediabile. E la morte diventa per la protagonista una specie di liberazione, anzi l’unica concepibile. E’ così vero che, accostando queste letture, ci si accorge di quanto sia vario e complesso il mondo che sta dietro il velo. Di quanto la scrittura femminile sia capace di uscire dai luoghi comuni, rompere i ranghi e non lasciarsi adagiare su una comoda definizione di genere. Anche qui, in questo universo iraniano dove ci sono delle istanze sociali e politiche primarie, e dove, «per la legge iraniana, la donna conta in maniera ridotta». Attraverso la scrittura, la realtà viene letta e interpretata.
E a corredo di queste prove narrative, giunge a proposito l’ultimo libro della scrittrice indiana Arundhaty Roy, Quando arrivano le cavallette: sono saggi sull’India, l’islam, il fondamentalismo, i conflitti etnici dentro e fuori il subcontinente. Sono scritti a volte d’occasione, ma anche di riflessione. Anche la scrittrice indiana ci invita con le sue parole a uscire dagli stereotipi, ad accantonare l’indifferenza anche e soprattutto verso mondi la cui lontananza ci sembra un comodo riparo. Ma forse non è così." (da Elena Loewenthal, Tra dolore e rabbia, i segni delle donne, "TuttoLibri", "La Stampa", 11/07/'09)

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